Archivi Mensili: gennaio 2022

Cento miliardi di galassie, dentro cui leggere il dovere all’impegno per la comunità umana

di Davide Rossi

La bellezza e la complessità dell’ultima pregevolissima fatica del gruppo di scrittura collettiva formato da Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli rende ardua una sintesi, anche solo abbozzata, dei tanti temi trattati, piuttosto apre scenari pieni di ricordi per chi, credendo nella concretezza della realtà materiale, non disegna il confronto con l’assoluto, riassunto nel titolo: “Cento miliardi di galassie – Per un realismo resiliente della praxis”. Valga poi come ulteriore premessa che gli autori non hanno desiderio di contestare le tante dimensioni spirituali che afferiscono al sentimento dei singoli e dei popoli, quanto piuttosto muovere una critica serrata a quell’idealismo che è servito da paravento per contestare e frenare, lungo il XIX secolo, l’ascesa delle masse popolari e il loro riconoscersi nella realtà fattuale e materiale, anzi, di più, queste preziose pagine ci confermano, ancora una volta come l’idealismo si sia fatto prima strumento dell’affermazione della borghesia e poi come questa, proprio in ragione della sua opposizione all’affermazione del proletariato, abbia saldato con la reazione i suoi destini contrastando il marxismo.

Queste pagine mi hanno rammemorato i lunghi pomeriggi tergestini a casa dell’amica Margherita Hack, nell’ultimo decennio della sua vita ci siamo frequentati con grande sintonia e son sempre stato felice di perdermi con lei nell’immensità dell’universo che ancora dobbiamo largamente conoscere e capire. Il fascino dell’energia e della materia oscura, la certezza che forme di vita nelle galassie ci siano, ma che siano tanto lontane che mai e poi mai entreranno in contatto con noi, minuscole particelle di un tutto di spropositate dimensioni. Ancora ricordo le domande che lei stessa si poneva rispetto al fatto che dato un centro teorico del nostro universo, le parti più lontane dal centro non rallentano il loro moto, ma lo aumentano, a dimostrazione che qualche forza le attrae e muove o vi sono leggi precise che sono ancora a noi sconosciute per spiegare questo fenomeno. In egual modo abbiamo riflettuto insieme sul tempo e sullo spazio, Einstein, le stringhe, i nostri limiti umani, dati da nascita, vita, morte, tutte schiacciate dentro il tempo, le rotazioni della terra su se stessa e le sue rivoluzioni intorno al sole.

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli davvero spaziano tra scienza a astrofisica, tra biologia, le piante, la terra, il qui e ora, e il grande e l’infinito, tanto imponderabile da abbracciare filosoficamente molte domande che almeno da un paio di secoli il pensiero umano si pone, ma in modo meno compiuto anche da prima.

La precisione e la puntualità con cui passano dalla curvatura spazio – tempo alle tesi hegeliane e schopenaueriane, mostrano non solo l’acutezza delle analisi condotte, ma l’interesse profondo e il profondo studio condotto dagli autori su questi temi.

Non sarà un caso se concludono la loro fatica citando un corpo primordiale del Sistema solare, chiamato “Ultima Thule”, ancora oggi incomprensibile e inspiegato asteroide binario bilobato, d’altronde dal più antico e lontano medioevo Ultima Thule è il luogo della terra più incognita, lontana e irraggiungibile, Edgar Allan Poe ha scritto: “Per un percorso oscuro e solitario, infestato solo da angeli malati, dove un Eidolon, chiamato Notte, su un trono nero regna eretto. Ho raggiunto queste terre ma di recente da un’ultima oscura Thule – Da un clima strano e selvaggio, che giace, sublime, Fuori dallo Spazio – fuori dal Tempo.” Tuttavia e per fortuna gli autori non ci sbatacchiano come Edgar Allan Poe dentro il tempo e lo spazio, ma dalla sterminata notte stellare del cosmo discendono nella concretezza della storia, d’altronde nel loro libro si legge, con enormi ragioni che: “Dopo il 1917 e la vittoria dei bolscevichi nell’ex impero zarista, molti pensatori e filosofi anticomunisti hanno tratto dall’esperienza storica” alcuni assiomi tra cui: “Il realismo ontologico conduce molto spesso al materialismo filosofico. Il materialismo filosofico, a sua volta, è una strada che porta e guida facilmente al comunismo.”

Sì, il sogno indelebile dell’uguaglianza e la sua costruzione restano l’orizzonte culturale e la stella che orienta la scrittura degli autori, perché tra le galassie a noi è toccato di essere qui e ora e questo ci obbliga a essere protagonisti del nostro tempo.

IL DIO DI HARLOT E ALTRI COMPLOTTI

Capitolo terzo tratto dal libro “Cento miliardi di galassie” di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli (La Città del Sole, 2021)

Il dio di Harlot e altri complotti

Avvocato del diavolo: «Certo, la Terra e i cento miliardi di galassie di cui avete parlato a lungo esistevano prima dell’uomo, ma non prima della coscienza. La Terra, infatti, e l’evolversi della Terra, oltre che i miliardi di galassie, e l’intero periodo dell’evoluzione che precede la comparsa dell’uomo, sono non soltanto contenuti della coscienza ma determinazioni della coscienza, possibili solo attraverso le forme della coscienza. È soltanto in virtù dell’intuizione del tempo nella coscienza che viene tracciata la linea, entro cui “noi” inscriviamo l’esistenza della Terra prima della comparsa dell’uomo.»[1]

Può sembrare incredibile a prima vista, ma questa tesi delirante è stata formulata ed esposta realmente, senza ovviamente la menzione dei miliardi di galassie, da parte dell’austromarxista Max Adler e agli inizi del Novecento: un Max Adler che, come del resto A. V. Bogdanov e altri interessanti pensatori che in quel periodo si autodefinivano marxisti, mostrò un’aperta adesione alla tesi di matrice schopenhaueriana.

Utilizziamo il sopracitato “nessun oggetto senza soggetto” innanzitutto notando che proprio la pratica scientifica umana, ivi comprese ovviamente la coscienza collettiva umana e la sua componente dell’“intuizione del tempo” (Max Adler), ha confermato con sistemi di datazione incontrovertibili che i miliardi di galassie che nuotano nell’universo esistevano già alcuni miliardi di anni fa; e il fatto sicuro e testardo per cui la nostra specie, sempre in base alla datazione oggettiva offerta dalla praxis scientifico-antropologica, e quindi alla vera “intuizione del tempo” umana (Adler), non sussisteva viceversa in alcun modo alcuni miliardi di anni fa devasta la tesi di Schopenhauer/Adler, per cui invece sia la Terra che i miliardi di galassie del cosmo si muovevano nel cosmo ed erano “possibili” solo “attraverso le forme della coscienza” (Adler).

Colossali fake news, quelle di Adler rispetto a “forme di coscienza” umana inesistenti miliardi di anni fa.

In secondo luogo se non esistevano né l’uomo né la stessa Terra prima di cinque miliardi di anni or sono, sempre in base a verifiche scientifiche indiscutibili, la praxis scientifica – ivi compresa l’“intuizione del tempo nella coscienza” (Adler) che l’accompagna necessariamente – ha via via scoperto con precisione l’esistenza di numerose galassie di età pari, o anche superiore a tredici miliardi di anni.

Dunque, nell’epoca compresa tra i 13 e i 5 miliardi di anni fa (arrotondando sia per comodità di esposizione che per il criterio di prudenza filosofica, tesa e orientata a scegliere i dati quantitativi meno favorevoli alla tesi da difendere) cosa potevano fare, imporre e “determinare” (Adler) delle “forme di coscienza” umane che certo non esistevano, né potevano esistere in alcun modo per altri lunghi otto miliardi di anni, vista l’assenza del Sole e della Terra?

Durante gli otto miliardi di anni in oggetto tali “forme di coscienza” esistevano forse come ectoplasmi e fantasmi cosmici, almeno secondo Max Adler e la nutrita schiera dei marxisti sostenitori dell’antirealismo ontologico?

In terza battuta il semplice ma innegabile fatto costituito dal processo continuo di scoperta di miliardi e miliardi di galassie da parte degli astronomi, a partire dal 1917 e dal ritrovamento da parte umana dell’agglomerato cosmico di Andromeda, rende semplicemente ridicolo un ipotetico Max Adler disposto a sostenere che persino tali gigantesche costellazioni di stelle costituiscano invece delle “determinazioni della coscienza, possibili solo attraverso le forme della coscienza”.

Anche se ancora ai nostri giorni rimangono in giro alcuni seguaci della “terra piatta” a tutto c’è un limite, ivi compreso un falso delirio usato invece lucidamente per sostenere in qualche modo posizioni indifendibili e assurde, sul piano gnoseologico e filosofico.

Infine, come si è già notato in precedenza, la luce che riceviamo ora e nel presente proviene da lontane galassie che hanno emesso tali radiazioni elettromagnetiche, nella stragrande maggioranza dei casi, più di sette milioni di anni fa e quindi in un momento in cui “le forme della coscienza” e “l’intuizione del tempo” umana, che “traccia le linee”, non esistevano di certo né potevano esistere in alcun modo, vista la totale assenza della soggettività umana e dei suoi più ancestrali antenati.

Avvocato del diavolo: “Forse Adler era un pensatore atipico e isolato in campo marxista, almeno in questo settore teorico specifico”.

Non proprio.

Alexandr Bogdanov, alto dirigente bolscevico fino al 1907, scrisse infatti insieme ad altri intellettuali di sinistra russi un saggio collettivo intitolato “Fede e scienza”, nel quale Bogdanov sostenne che “se la terra prima che vi nascesse la vita “era” semplicemente ma non aveva alcuna “apparenza”, alcuna “proprietà”, alcun elemento sensibile, vuol dire che non c’era. “Solo il sensibile esiste”, giustamente hanno sempre sostenuto gli empiristi”.

Bogdanov si rivela pertanto senza dubbio come un altro “marxista tolemaico”, ossia incapace di comprendere in modo copernicano e scientifico che l’universo non girava in passato e non gira tuttora in alcun modo attorno alla nostra piccola Terra e ai suoi abitanti, più o meno “sensibili”.[2] 

Avvocato del diavolo: “Come è possibile che pensatori che si autodefinivano marxisti quali Adler, Bogdanov, Pannekoek, Korsch e il primo Lukacs abbiano sostanzialmente accettato l’assioma del nessun oggetto senza soggetto e la dipendenza ontologica dell’essere dal pensiero?”

La responsabilità di tale fenomeno ricade principalmente sul materialismo dialettico, che ha usato solo in piccola misura l’arma demolitoria della praxis sociale e della “comprensione” (Marx, 1845) di tale pratica nella lotta contro l’idealismo soggettivo, dimenticandosi purtroppo di individuare e impiegare, come era invece perfettamente possibile, quell’eurekismo scientifico le cui porte erano già state spalancate, nel lontano 1610, da Galileo con il ritrovamento delle lune di Giove.

A causa di questa immaturità relativa del marxismo in campo filosofico si sono invece aperte le porte infernali dell’antirealismo ontologico per tutta una serie di pensatori interessanti e che, attraverso l’uso mirato del processo di riflessione sul rinvenimento di oggetti in precedenza sconosciuti, avrebbero potuto essere recuperati in gran parte e con relativa facilità nel campo del realismo resiliente della praxis.

Prendiamo ad esempio A. Pannekoek (1873-1960): un astronomo olandese di valore, un mediocre rivoluzionario e purtroppo un pessimo filosofo, il quale nel 1935 scoprì un asteroide grande circa 32 chilometri quadrati.

Seguendo le orme filosofiche di Karl Korsch sempre Pannekoek, nel suo sciagurato libro intitolato Lenin filosofo del 1938, ripropose la litania sul presunto carattere dogmatico e “borghese” del materialismo di Lenin, oltre che riguardo al valore gigantesco della pratica e alla validità del mantra “nessun oggetto senza soggetto” e dei “principi di Mach” che, almeno a suo avviso, derivava dall’attività umana.[3]

La semplice azione di connettere il concretissimo asteroide ritrovato da Pannekoek nel 1935 con le sue strampalate tesi antirealiste del 1938 crea subito un cortocircuito devastante: a tale fine immaginiamo e costruiamo un dialogo verosimile a distanza con l’astronomo olandese.

Compagno Pannekoek, hai scoperto tu personalmente nel 1935 un asteroide di dimensioni, pari a circa 32 chilometri quadrati?

“Sì, compagni”.

Dunque non l’hai creato tu stesso, con la tua mente e le tue sensazioni del 1935, quell’asteroide?

“State forse scherzando? Non sono certo un dio, un mago e tantomeno un imbroglione, ma un onesto scienziato ateo”.

Se non l’hai creato tu o altri esseri umani, il famoso asteroide in oggetto esisteva e si muoveva nello spazio anche prima della tua indiscutibile scoperta del 1935?

“Certo: ma dove volete andare a parare?”

Semplice: se l’asteroide da te stesso individuato e portato alla luce per il genere umano esisteva e si muoveva nello spazio cosmico prima del tuo insospettabile ritrovamento, in modo quindi assolutamente indipendente dalla soggettività tua e di qualunque altro essere umano, fa una inevitabile brutta e ingloriosa fine la categoria del “nessun oggetto senza soggetto umano”, ossia della dipendenza ontologica dell’oggetto (nel caso specifico, l’asteroide del 1935) dal pensiero e dalle sensazioni dell’Homo sapiens.

Avvocato del diavolo: “Sempre a proposito di sofisticati giochi e guerriglie mentali di lennoniana memoria, lo scrittore statunitense Norman Mailer nel 1991 aveva avanzato una tesi, avente per oggetto una colossale operazione di disinformazione su scala cosmica.

Proprio alla fine del suo libro Il fantasma di Harlot, Mailer infatti mise nero su bianco un ipotetico ma diabolico disegno divino “di copertura”, descritto fin nei minimi dettagli dall’abilissima spia della CIA (e in seguito disertore, almeno in apparenza, a favore dei sovietici) conosciuta sotto il soprannome di Harlot.

«“Date infatti le uguali opportunità che ho concesso a Satana, come può questa voglia di sapere non divenire la passione dominante dell’uomo? L’ho creato, a mia immagine e somiglianza, quindi lui desidererà scoprire la mia natura al fine di impadronirsi del mio trono. Avrei mai permesso una cosa simile, quindi, se non avessi preso la precauzione di confezionare una storia di copertura?”

“Una storia di copertura?” ripetei, come l’eco.

“Una stupenda storia di copertura. Niente di volgare o meschino. Una storia ben congegnata in tutti i dettagli. Supponi che, dopo aver stretto quell’accordo con Satana, Dio abbia creato il mondo da cima a fondo, completo in tutte le sue parti: Lo creò dunque ex nihilo cinquemila anni fa, e rotti. Era un mondo realizzato e rifinito. Tutti i suoi abitanti cominciarono a vivere nello stesso istante, al fiat. Tutti quanti avevano però dei precedenti, una loro preistoria individuale. Il tutto era scaturito dal nulla, era stato creato dal genio divino; ma il mondo reale aveva un suo passato immaginario, architettato anch’esso da Dio. Questo passato fittizio era un’opera d’arte. Tutti i viventi, quel primo giorno dell’anno primo, avessero essi tre anni o novanta, trent’anni o poche ore di vita, erano stati creati nel medesimo istante. Così pure gli animali e le piante, nei diversi luoghi e nei diversi climi. Tutto insomma comparve d’un tratto, ma ogni creatura possedeva la propria memoria, i propri istinti. La terra era qui fertile, là brulla, alcune messi erano già pronte per il raccolto. Tutti i resti fossili erano stati accuratamente incastonati nelle rocce. Insomma Dio ci diede un mondo che conteneva tutti quegli indizi materiali che avrebbero consentito a Darwin, di lì a una cinquantina di secoli, di postulare l’evoluzione universale. Gli strati geologici erano stati sistemati a puntino. Il sistema solare era in funzione. Tutto era stato messo in moto a velocità tali da indurre gli astronomi, di lì a cinquemila anni, a dichiarare che l’età della terra era di circa cinque miliardi di anni. Mi piace immensamente, quest’idea,” disse Harlot. “Possiamo allora dire che l’universo è un “sistema di disinformazione” magnificamente congegnato, in modo tale da farci credere nell’evoluzione naturale e, quindi, sviarci da Dio. Sì, è esattamente così che mi sarei comportato io, se fossi stato il Signore e non avessi avuto fiducia nella mia stessa creazione”».[4]

Innanzitutto risultano totalmente aliene, oltre che irrazionali, le ipotetiche ragioni che avrebbero portato e condotto il presunto dio di Harlot a far scoprire a Galileo Galilei nel 1610 i satelliti di Giove: oggetti celesti viceversa inesistenti e inventati ad arte, almeno secondo l’ipotesi in oggetto, come del resto le decine di migliaia di asteroidi via via rinvenuti (ma inesistenti e inventati ad arte, sempre seguendo la congettura in esame) dopo il 1800 dalla soggettività e dalla pratica collettiva umana.

Ma non solo.

Per un istante ammettiamo, in un particolare esperimento mentale, che la “tesi di Harlot” non rappresenti solo l’eccellente parto della fantasia di un grande scrittore americano e che essa si trasformi invece in una visione dell’universo realmente sostenuta da uno o da più invasati, come quelli descritti magnificamente da Umberto Eco nel romanzo Il pendolo di Foucault: ossia “filosofi” secondo i quali esista e operi davvero, tra l’altro in posizione dominante nel cosmo, un dio maligno e perfido come quello ad esempio dipinto magistralmente in un libro di Stephen King intitolato Revival.

Innanzitutto saremmo in (squallida) presenza di un dio maligno e ingannatore ma, allo stesso tempo, molto affannato, perché impegnato a creare e riprodurre continuamente falsi segnali dal cielo e dalle stelle per ingannare gli umanissimi astronomi, mediante miliardi di nuove (e false) galassie via via create dal nulla (e nel nulla) per tutti gli anni compresi tra il 1917 – Curtis e la sua scoperta di Andromeda – e l’attimo fuggente del presente, ossia fino al nostro 2021.

E ancora: Curtis scoprì Andromeda nel 1917, secondo la tesi di Harlot in esame evidentemente traviato e ingannato da una meschina e squallida divinità.

Bene, anzi male.

Ma perché solo nel 1917 al povero e ingannato Curtis venne fatto scoprire Andromeda, sempre da parte di questo presunto dio spione e disinformatore? Forse perché il dio-ingannatore in quell’anno aveva litigato di brutto con sua suocera, divinità ancora peggiore di lui?

In terza battuta, ancora nel decimo secolo il bravissimo astronomo persiano Abd al-Rahman al-Sufi ritrovò Andromeda: forse tale mossa protoscientifica umana era sfuggita alla presunta divinità ideata da Harlot-Mailer, arrivando dunque con dieci secoli di anticipo rispetto a Curtis e al 1917?

E ancora: il presunto dio-disinformatore si era forse dimenticato di “disinformare” proprio l’eccellente protoscienziato persiano del decimo secolo, dicendogli in un orecchio: “Guarda, Abd al-Rahman, non si tratta di una piccola nube, ma di una galassia di miliardi di stelle” (ovviamente costruita ad arte da lui stesso…)?

E non solo: il presunto dio-ingannatore si sarebbe rivelato invece un dio-fallimentare, visto che non è riuscito a ingannare né Harlot, né il suo creatore Norman Mailer né, a catena, i non pochi lettori dell’eccellente libro di spionaggio in via di esame.

Oltre alla consegna quotidiana del finto materiale costituito da meteoriti, micrometeoriti e polvere stellare, il presunto dio-ingannatore dovrebbe inoltre per forza di cose falsificare la datazione della massa cosmica da lui inviata a fini di depistaggio sulla Terra, in caso di controlli umani sull’età dei corpi celesti caduti sul nostro pianeta (stiamo parlando sia di un dio sospettoso/paranoico che di strumenti di datazione a disposizione di noi esseri umani, almeno negli ultimi decenni), oppure di falsificare proprio gli attrezzi tecnoscientifici di rilevamento dell’età, sempre al fine di ingannare i poveri scienziati umani.

In quest’ultimo caso si tratterebbe di un doppio lavoro costante e continuo, sempre ammesso di poterlo nascondere in qualche modo agli uomini, ingannati e presi in giro ma a contatto diretto, fisico e tridimensionale con i sistemi materiali di datazione: impegno quotidiano che in ogni caso si aggiungerebbe alla prima e continua “fatica di Ercole” dell’invio continuo di finti meteoriti e micrometeoriti.

Pendiamo ad esempio la meteorite schiantatasi a Murchison, in Australia, nel settembre del 1969: la sua considerevole massa è pari a circa un quintale di tonnellate, mentre al suo interno sono stati trovati dei “grani presolari” e della materia che risale come minimo, in alcuni casi, a più di 5,5 miliardi di anni or sono, secondo studi pubblicati all’inizio del 2020.

Cosa avrebbe dovuto fare e disfare, il dio-ingannatore, rispetto a Murchison?

Innanzitutto simulare l’impatto del meteorite del 28 settembre 1969 in Australia, sempre per ingannare noi poveri babbioni umani.

In secondo luogo, falsificare l’età dei (presunti) “grani presolari” attribuendo loro, con i suoi poteri divini, una falsa datazione risalente addirittura a 5,5 miliardi di anni fa, più vecchi quindi del nostro Sole almeno nel suo perfido inganno.

In terzo luogo, avrebbe dovuto mescolare i sopracitati grani presolari di 5,5 miliardi di anni a quelli invece (per finta) risalenti in maggioranza a “soli” 4,6 miliardi di anni.

E tutta questa fatica, per uno solo degli innumerevoli meteoriti caduti sulla Terra nell’ultimo secolo?

Saremmo in presenza dunque di un’ipotetica e fallimentare azione di disinformazione che infine, anche se per assurdo fosse considerata come veritiera, non toglierebbe neanche uno iota al collasso accelerato delle posizioni antirealiste sul piano ontologico; nell’insensata ipotesi in esame, il presunto dio-ingannatore di Harlot infatti agirebbe ed esisterebbe in ogni caso prima e in modo assolutamente indipendente dal suo presunto “burattino”, dalla sua presunta marionetta ingannata e di scarso comprendonio, ossia noi esseri umani: beffeggiati e illusi, certo, ma ad opera di una (presunta) entità esterna e con false prove che esisterebbero, in ogni caso, anche senza l’Homo sapiens sapiens.

Molto simile alla tesi sostenuta da Harlot risulta poi la teoria proposta da Nick Bolstrom, secondo la quale il nostro universo costituirebbe solamente una sofisticata simulazione al computer e una particolare realtà virtuale, programmata in modo laico e a-religioso da una civiltà enormemente più sviluppata della nostra: tale programma sarebbe dunque tanto perfetto da darci la possibilità, come esseri simulati-ingannati, di provare sia emozioni reali che l’illusione di essere liberi.

Come ha notato per una volta correttamente Slavoj Zizek, quello «tracciato in queste ipotesi è uno scenario teologico secolarizzato, in cui il ruolo del creatore è occupato da una specie naturale molto più sviluppata della nostra, anziché da un essere soprannaturale. Così, se sappiamo (o presumiamo) che il nostro universo è una “simulazione” creata deliberatamente da esseri superiori, come possiamo distinguere le tracce del loro intervento e/o interpretare i loro scopi? Vogliono forse che restiamo totalmente immersi nell’ambiente simulato? E se è così, lo fanno per metterci alla prova, epistemologicamente o eticamente? Siamo stati creati per gioco, come un’opera d’arte, oppure facciamo parte di un esperimento scientifico? (Domande che richiamano alla mente molti romanzi e film, da La spiacevole professione di Jonathan Hoag di Heinlein a The Truman Show, Il tredicesimo piano e The Matrix). Possiamo immaginare di vivere in un mondo simulato senza presupporre l’intenzione di un creatore?».[5]

Innanzitutto le simulazioni virtuali sono bidimensionali e risulta impossibile “simulare” la tridimensionale pelle, il tocco delle mani e la profondità degli oggetti, visto che in tal caso avremmo non una simulazione, ma per l’appunto la nostra realtà tridimensionale, con annessi organi tattili e manualità.

Come simulare poi l’eurekismo, a partire dalle continue scoperte che dopo il 1917 hanno portato al ritrovamento di almeno cento miliardi di galassie, ignote all’ingannato genere umano fino al 1916?

E perché poi “simulare” tale scoperta di miliardi di galassie, da parte dell’ipotetica civiltà superiore di “simulatori”?

Forse per non morire di noia, procurandosi un lavoro continuo degno del famoso minatore sovietico Stachanov? E anche in questa ipotetica simulazione, perché poi iniziare a “simulare” e a far comparire galassie a destra e a manca solo dopo il 1916? Forse un’ipotetica litigata del capo-simulatore con sua suocera, dopo il 1916, diventa l’opzione meno assurda sul campo.

Avvocato del diavolo: “In un suo libro il filosofo idealista (oggettivo) Zizek riporta, con un certo fastidio, una domanda per così dire “classica” nel campo epistemologico, ossia “come apparirebbe la realtà oggettiva senza di me, indipendentemente da me?”[6]

Tale reale dubbio e tale concreto problema è subito risolto per quanto riguarda quasi tutte le galassie scoperte dopo il 1917, ossia per tutte le sopracitate galassie (il 99,99999999 del totale…) lontane dalla Via Lattea più di sette milioni di anni luce. La realtà oggettiva di tali galassie è quella che si rivela ai nostri occhi, perché la luce che percepiamo e che proviene da tali immensi corpi stellari, composti a loro volta da miliardi di stelle, è stata emanata ed emessa proprio quando non erano nati né l’Homo sapiens sapiens né i suoi più lontani predecessori: parafrasando una splendida canzone dei Toto, le ali della filosofia realista riflettono quelle stelle e quelle galassie che ci guidano verso la lucidità mentale, visto che l’algoritmo ontologico sopracitato non lascia alcuna possibilità di esistenza all’antirealismo, una volta eliminate via via tutte le ipotesi fantasiose, quali quelle avanzate da Harlot.

Avvocato del diavolo: “Siete proprio sicuri di poter svolgere questo ruolo di “spazzini filosofici?” Se ad esempio, come sostiene una particolare corrente della filosofia del tempo che risale all’opera filosofica di McTaggart, esistesse solo il presente e il passato rappresentasse solo una costruzione mentale umana, le galassie non esistevano in alcun modo prima dell’uomo, per il semplice fatto che la loro presenza/esistenza nel passato ricade nel nulla generale che segna i (presunti) tempi andati”.

La luce delle galassie che osserviamo nel presente proviene sicuramente dal passato di tali galassie: un passato di 2,5 milioni per la “vicina” Andromeda, per poi arrivare al passato iperconcreto della sopracitata galassia lontana più di tredici miliardi di anni luce.

Quindi proprio il presente umano, proprio le presenti e attuali osservazioni scientifiche umane provano e attestano con dati inoppugnabili l’esistenza passata delle galassie, partendo dal tempo passato di 2,5 milioni di anni (per Andromeda) fino a più di tredici miliardi di anni or sono, per i corpi celesti più lontani.

La pratica scientifica di matrice astronomica demolisce le castronerie alla McTaggart e dimostra pertanto, ancora una volta, quale sia la reale e materiale relazione dialettica che si forma via via tra passato e presente, aggiungendosi ovviamente all’indiscutibile principio di causalità per cui il presente è “preparato” e connesso strettamente al passato, oltre che ad altri elementi di prove che confermano l’esistenza materiale del passato quali, ad esempio, le solo apparentemente insignificanti (su piano filosofico) tombe umane, con annessi cadaveri.

Ma ammettiamo per un istante, per amor di discussione, che l’ipotesi “antipassatista” sia valida e veritiera. Persino in questo ipotetico scenario, ingannatore e fallace, le galassie rimarrebbero collocate a distanze sconfinate sia dalla Terra che dal genere umano.

Tale iperlontananza fisica, collegata al fatto innegabile che nessun uomo o oggetto prodotto dall’uomo ha mai raggiunto neanche la più vicina delle galassie – e neanche la stella più vicina a noi, tra l’altro – esclude e scarta in modo sicuro e indiscutibile qualunque forma di ipotetica dipendenza ontologica delle galassie (=l’oggetto) dal soggetto umano, anche se dotato e munito di eccellenti telescopi e strumenti di osservazione.

Tornando invece alla realtà la teoria presentista del tempo non solo presuppone, inevitabilmente e logicamente, un piano di simultaneità assoluto degli eventi che è contraddetto dalla teoria della relatività speciale di Einstein; non solo essa deve negare per forza di cose qualunque verità passata (ad esempio che Giulio Cesare ha varcato armato il Rubicone), ma deve altresì rifiutare persino i resti, le rimanenze e i “fossili” del passato: pensiamo, tra gli innumerevoli esempi disponibili, alla presenza concretissima sulla Terra dell’iperarcaica radiazione fossile di cosmo o alle ossa – ben visibili nel presente, ben verificabili e ben databili nel nostro presente – dei dinosauri estinti circa 66 milioni di anni or sono.[7]

J. L. Borges: “In un mio libro, intitolato “Altre inquisizioni”, ho ricordato che il filosofo inglese Bertrand Russell nel 1921 già suppose che il nostro pianeta fosse stato creato solo da pochi minuti, venendo l’umanità fornita di un passato inesistente e illusorio”.

Quindi il dio di Harlot, oppure un altro pseudocreatore avrebbero prodotto e creato da pochi minuti anche chi legge queste brevi righe, le quali a loro volta sono state create da un illusorio Borges che avrebbe riportato il pensiero di un altrettanto illusorio Bertrand Russell, espresso a sua volta in un illusorio 1921.

Il lettore ignoto e sconosciuto che, in questo momento preciso, ha davanti e scruta queste frasi scritte deve essere davvero iperimportante, per riuscire a giustificare e legittimare tale presunto gioco di illusioni, proiettato tra l’altro su scala planetaria e rispetto a tutti gli uomini…

Avvocato del diavolo: “Contrariamente ad Harlot, il fisico francese d’Espagnat nel 1981 aveva cercato di utilizzare la meccanica quantistica contro il realismo ontologico notando, nel suo libro Alla ricerca del reale, che il mondo quantistico «avrebbe evidenziato che la realtà indipendente è al di là dei riferimenti spaziotemporali e che è pertanto necessario costruire un quadro epistemologico fondato sull’oggettività debole, intesa come invarianza in rapporto a un cambiamento di osservatori o di mezzi di osservazione. In base ai risultati a cui essa perviene siamo indotti a supporre che “la realtà empirica, quella delle particelle, dei campi e delle cose, sia per noi, proprio come la coscienza, un semplice riflesso. E questi due riflessi sarebbero complementari nel senso… che l’uno e l’altro, si può dire, sono realtà, ma soltanto realtà “deboli”, non totalmente descrivibili in termini di oggettività forte”».[8]

Già con l’astruso “paradosso dell’amico” esperimento mentale ideato nel 1967 dal fisico Eugene Wigner, si tentò di introdurre di sfuggita la coscienza dello scienziato osservatore come causa del collasso della funzione d’onda, espressione con cui si indica l’evoluzione dello stato di un sistema fisico determinato dalla misura di una sua grandezza misurabile.

Ma persino Wigner non ha apertamente sostenuto la cosiddetta “interpretazione alla Berkeley” del collasso d’onda, ossia che tanto la funzione d’onda dell’elettrone quanto il suo collasso costituiscano il sottoprodotto della mente umana; persino tale scienziato non ha mai sostenuto apertamente che l’elettrone fosse solo una particolare creazione dello scienziato-osservatore, ossia che l’elettrone non esistesse se non quando noi umani lo osserviamo e lo misuriamo.

Ma l’elettrone (e la derivata funzione d’onda) davvero esiste senza un osservatore umano, senza la coscienza e l’osservazione scientifica da parte dell’uomo?

Parafrasando Einstein, “la Luna e l’elettrone esistono davvero solo se li si guarda?”.

Ancora una volta l’eurekismo e il derivato algoritmo ontologico fanno piazza pulita delle tesi di un antirealismo condito, in questo caso, con salsa quantistica.

Fino al 1860 e agli esperimenti del fisico inglese William Crookes, infatti, nessuno scienziato, nessun “osservatore” (più o meno quantistico) e nessun uomo aveva mai ottenuto alcun elemento di prova concreto sull’esistenza degli elettroni, ossia di quelle particelle subatomiche con carica elettrica negativa che, assieme ai protoni e neutroni, costituiscono uno dei componenti fondamentali dell’atomo; e solo nel 1838-1851 il filosofo britannico Richard Laming aveva ipotizzato (solo ipotizzato, si badi bene) per la prima volta che l’atomo fosse composto da un nucleo di materia, circondato da particelle subatomiche dotate di carica elettrica.

Per il criterio di prudenza filosofico prendiamo il 1838 come anno fatidico in cui, per la prima volta, la nostra specie immaginò ed ebbe una (vaghissima) coscienza rispetto all’esistenza degli elettroni, grazie al pensiero osservatore di Richard Laming; e inoltre ipotizziamo, tanto per concedere un vantaggio al collassato antirealismo ontologico, che già in quell’anno iniziasse il processo di osservazione umana dell’elettrone, della funzione d’onda e del collasso di quest’ultima.

Bene, 1838.

Ma nel 1837, ossia l’anno precedente la “scoperta” di Richard Laming, esisteva l’elettrone, la funzione d’onda dell’elettrone e il collasso della funzione d’onda dell’elettrone?

E nel 1836, ossia due anni prima della “scoperta” di Laming, esisteva davvero l’elettrone, la funzione d’onda e il collasso della funzione d’onda?

E nel 1835, ossia tre anni prima? Possiamo facilmente risalire indietro di miliardi di anni, a nostro piacere.

Se l’antirealismo in salsa quantistica dovesse rispondere in modo affermativo a tale inevitabile interrogativo, verrebbe distrutta qualunque teorizzazione del tipo “nessun oggetto-elettrone senza soggetto-osservatore”, facendo dunque cadere e collassare qualunque posizione secondo cui il collasso d’onda dipenderebbe dalla presenza di un osservatore, di uno scienziato-osservatore, di un essere umano-osservatore.

Se invece l’idealismo soggettivo, sostenuto da alcuni fisici quantistici, avesse finalmente il coraggio di rispondere negativamente alla domanda in oggetto, dovrebbe “solo” spiegare come faceva ad esistere e riprodursi l’universo, ivi compresi gli esseri umani composti anche da elettroni, prima del fatidico 1838.

Ossia nel 1837.

Ossia nel 1836.

Ossia nel 1835 e via tornando indietro nel tempo, a piacere e per milioni e milioni di anni.

Ovviamente un ragionamento analogo può essere effettuato anche per le altre particelle subatomiche, quali ad esempio i protoni, scoperti solo nel XX secolo.

Oppure i fotoni.

I neutroni.

I neutrini.

I quark.

Il bosone di Higgs.

L’elenco può continuare a lungo, coinvolgendo tutta una serie di particelle sicuramente ritrovate dalla praxis scientifica umana decenni e decenni dopo il “fatidico” 1838 e dopo la prima ipotesi formulata da Richard Laming rispetto a quello che, in seguito, verrà denominato elettrone.

Uno degli ultimi arrivati nel settore fisico viene costituito ad esempio dai neutrini di alta energia, mai osservati empiricamente prima del 2015.

«Nel 2015, infatti, un gruppo di scienziati sotto la guida del fisico Francis Halzen ha annunciato di aver catturato neutrini di altissima energia provenienti dallo spazio profondo. Il 13 luglio 2018, gli scienziati hanno unito le forze con altri gruppi di ricerca sperimentale, per annunciare che per la prima volta erano riusciti a osservare una sorgente che sembra produrre allo stesso tempo neutrini e radiazione elettromagnetica di alta energia.

Per rivelare i neutrini di alta energia gli scienziati si sono serviti di IceCube, un esperimento quasi fantascientifico situato al Polo Sud, costituito da 86 stringhe verticali di rivelatori che affondano per due chilometri e mezzo nella profondità del ghiaccio antartico».[9]

Ennesimo algoritmo ontologico ed ennesima domanda: esistevano dunque i protoni, prima del 1838? Si muovevano nello spazio-tempo ed esistevano i neutroni, prima del 1838?

Esistevano i quark, prima del 1838? E così via, arrivando fino al bosone di Higgs e ai neutrini ad alta energia.

Anche solo un semplice e apparentemente arido elenco delle date delle scoperte effettive sul mondo subatomico non lascia adito a dubbi che fino al 1884 regnava un deserto totale, in questo strategico campo della conoscenza scientifica.

Il mondo subatomico è stato trovato e rinvenuto infatti dal genere umano solo dopo il 1884, partendo dalla scoperta datata 1885 dei protoni da parte di Eugen Goldstein, il quale tuttavia non comprese la reale funzione giocata nell’atomo dalle radiazioni positive, mentre solo nel 1895 vennero prodotti i raggi X da Wilhem Röntgen, identificati in seguito come fotoni, ossia quantità determinate e pacchetti discreti di energia in un’onda elettromagnetica. L’elettrone venne individuato solamente nel 1897; le particelle alfa (una forma di radiazione corpuscolare) nel 1899; i raggi gamma, nati dal decadimento radioattivo dei nuclei atomici, nel 1900; i neutroni furono trovati da James Chadwick nel 1932; il neutrino elettronico nel 1956; la prima prova dell’esistenza del quark avvenne nel 1967; il bosone di Higgs fu osservato la prima volta solo nel 2012, mentre infine la particella Xi, composta da due quark pesanti, venne scoperta dal Cern di Ginevra nel 2017.[10]

Prima del 1885, il genere umano dunque non conosceva pressoché nulla dell’universo subatomico; prima del 1885, quindi la nostra intelligente e creativa specie non era informata neanche dell’esistenza di una sola delle particelle subatomiche, ma esse esistevano e si muovevano da circa 13 miliardi di anni nell’universo, in totale assenza del “soggetto” di derivazione schopenhaueriana.

Il collasso dell’antirealismo in salsa subatomica non potrebbe essere più completo. Del resto Niels Bohr, uno dei fondatori della meccanica quantistica, non aveva alcun dubbio almeno sul fatto «che il mondo quantistico esiste indipendentemente da noi», posizione correttamente realista sul piano ontologico, anche se egli riteneva che le proprietà di tale particolare livello di organizzazione della materia invece esistessero «in modo definito solo in quanto misurabili».[11]

Persino il fisico John Wheeler, vicino alle posizioni filosofiche idealiste, ha ammesso che «la coscienza non ha nulla a che fare con i processi quantistici. Si tratta di eventi» (quindi oggetti in movimento, che creano “eventi” indipendenti dalla coscienza umana) «che possono essere conosciuti mediante un atto irreversibile di amplificazione, una rilevazione indelebile, un atto di registrazione».[12]

La praxis scientifica del resto ha dimostrato con assoluta certezza che la particella-elettrone (come del resto la particella-protone e la particella-neutrone) possiede una determinata massa a riposo, calcolata con un margine di approssimazione in 9,109 x 10-31 chilogrammi, ossia 1.836 volte meno pesante di quella del protone.

Inoltre il corpuscolo-elettrone possiede sicuramente non solo massa, ma anche energia: ossia una carica elettrica negativa, uguale a quella (positiva) posseduta dal protone ma di segno opposto.

Non solo: il moto dell’elettrone genera un concretissimo campo magnetico mentre gli elettroni possono essere distrutti e annichiliti da un’enorme collisione con i positroni, e cioè dall’antiparticella dell’elettrone dotata invece di carica positiva.

Quindi l’elettrone non costituisce solo un’eterea onda quantistica ma, simultaneamente, anche una concretissima particella e corpuscolo materiale, come dimostrato del resto anche dall’effetto fotoelettrico caratterizzato dall’emissione di elettroni da parte di una superficie di regola metallica, colpita da una radiazione elettromagnetica.

Sintetizzando le ricerche scientifiche di un secolo sul mondo subatomico, M. L. Dalla Chiara e G. Toraldo di Francia hanno evidenziato come per la fisica classica gli oggetti fossero “contingenti nella forma, nella massa, nella carica elettrica” e così via…

Nella nuova fisica, invece, i micro-oggetti sono necessariamente determinati già in partenza, in molte delle loro caratteristiche. Per esempio, un elettrone ha sempre lo stesso valore per la massa, per lo spin, per il momento magnetico. Si può dunque dire che le sue costanti caratteristiche sono fissate per legge fisica…[13]

Non a caso i due autori sopracitati affermano con decisione che il vecchio “dilemma onda-corpuscolo” per la luce risulta ormai, all’inizio del terzo millennio, uno “pseudo-problema”, visto che «riguardo alla vera natura di una particella» (elettrone, quark, ecc.) «corrisponde una funzione d’onda, la quale obbedisce all’equazione di Schrödinger; oppure che, in generale, la particella è soggetta alla legge della meccanica».[14]

Avvocato del diavolo: “Tuttavia anche Dalla Chiara e Toraldo di Francia, come del resto F. Capra e altri fisici, hanno messo in discussione più o meno apertamente proprio la realtà della categoria ontologica delle particelle, sostenendo ad esempio che le coppie di quark non sono ben definibili o, all’estremo, non esistono e sono solo il frutto di una nostra costruzione mentale”.

Sotto il vestito (subatomico) niente, in ultima analisi.

Infatti se davvero protoni e neutroni fossero composti da quark, ma questi ultimi fossero a loro volta fatti di niente, al di fuori delle costruzioni mentali degli scienziati che, a partire da Murray Gell-Mann, le hanno descritte, allora tutto il tessuto dell’universo sarebbe composto solo dal nulla e da un desertico niente, sostenuto solo dai formidabili (ma inesistenti) superpoteri mentali degli esseri umani: ma è solo paccottiglia, nichilista e idealista allo stesso tempo.

Da decenni tutta una serie di esperimenti e risultati scientifici incontrovertibili hanno infatti dimostrato, senza ombra di dubbio, l’esistenza concreta dei quark e dei mattoni subatomici dell’universo che demoliscono le tentazioni nichiliste alla F. Capra, fino al punto di osservare particelle elementari particolarmente “esotiche” composte anche da quattro e cinque quark.[15]

All’inizio di luglio del 2020 è stato infatti annunciato che l’autorevole CERN di Ginevra ha rinvenuto e scoperto un tetraquark, ossia una particella composta da quattro quark charm, a loro volta una delle diverse tipologie di quark e il terzo per massa tra questi ultimi.

«Una nuova particella esotica, mai vista prima, è stata scoperta al CERN di Ginevra. Grazie al Large Hadron Collider Beauty (LHCb), gli scienziati hanno potuto osservare in azione per la prima volta una particella composta da quattro quark charm.

Il quark charm, definito anche quark c, è il terzo più massiccio di tutti i quark anche conosciuti. Si trova di solito negli adroni, particelle che a loro volta compongono gli atomi e che sono fatte di quark.

Questa scoperta, come rileva l’annuncio pubblicato sul sito dell’Università di Manchester, potrà essere di aiuto per una maggiore comprensione dei quark, una particella elementare che al momento è considerata come l’elemento fondamentale di tutta la materia essendo l’elemento costitutivo primario dell’atomo.

In particolare gli scienziati vogliono capire meglio come i quark si aggregano per formare molecole più complesse come gli adroni e infine gli atomi.

Gli scienziati sanno che i quark, di solito, si aggregano in due o tre formando gli adroni. Tuttavia per molto tempo gli stessi fisici hanno predetto l’esistenza di adroni fatti di quattro quark o addirittura di cinque quark, denominati tetraquark e pentaquark. L’esistenza di questi adroni esotici è stata poi confermata dagli esperimenti.

Per le particelle tetraquark erano stati osservati, però, solo esempi composti al massimo da due quark pesanti e nessuna con più di due quark dello stesso tipo.»[16]

Tra l’altro il tetraquark in oggetto sicuramente interagiva e si muoveva nel mondo subatomico anche prima del suo rinvenimento da parte del CERN di Ginevra, e più precisamente anni prima del luglio 2020 e della sua prima osservazione da parte umana, creando le condizioni per un nuovo utilizzo dell’algoritmo ontologico.

Tuttavia, rispetto alla versione “evanescente” e “nichilista” del cosmo vogliamo andare ancora più in profondità, rilevando che proprio la pratica umana, compresa persino la mediocre scrittura a sei mani e la lettura più o meno assonnata di questo nostro saggio, dimostra già di per sé la legge generale di esclusione del nulla totale, del niente assoluto.

Lo scrittore e metafilosofo Stephen King illustrò, molto prima di noi, tale negletta ma decisiva legge generale della fisica nel libro L’ultimo cavaliere, nel primo tassello della sua saga sulla Torre Nera: in un allucinato dialogo tra l’eroe “positivo” della serie, il pistolero Roland, e uno dei cattivi, l’uomo in nero, quest’ultimo rispose in modo efficace all’antica domanda posta dal filosofo tedesco Leibnitz sulla ragione per cui c’è qualcosa, e non il niente, affermando che “tutto nell’universo nega il nulla; ipotizzare un limite è l’unica assurdità”.[17]

L’analisi della praxis collettiva umana, a partire dalla fisica del vuoto quantistico, permette di estrarre e sintetizzare tre principi ontologici di carattere generale.

Prima tesi antinichilista, già esposta in precedenza: il niente assoluto viene schiacciato, negato e demolito dalla stessa presenza materiale sia dagli esseri umani che dai proteiformi oggetti che ci circondano, ivi comprese queste fragili pagine di saggio filosofico in via di esposizione.

Secondo enunciato.

A sua volta il niente assoluto non sussiste, e in ogni caso non può regnare perché persino il “niente” è composto strutturalmente anche da qualcosa: perché persino il vuoto quantistico, infatti, è costituito da un lato dal niente/nulla, ma dall’altro e simultaneamente anche da infinite coppie di particelle e antiparticelle virtuali, che subito si annichiliscono reciprocamente in un “tango” eterno e mortale.

«Una particella non viaggia mai da sola o nuda, come si dice. È sempre accompagnata da una nuvola di particelle virtuali, che continuamente emette e riassorbe. Inoltre, nel vuoto circostante vengono continuamente create coppie particella-antiparticella, che subito si riannichiliscono».[18]

Il fisico e filosofo J. Owen Weatherall ha indicato a sua volta che le causali fluttuazioni del vuoto quantistico «danno quel pizzico di energia che consente a una coppia elettrone-positrone» (il sopracitato anti-elettrone) «di materializzarsi spontaneamente, propagarsi per un breve tratto, incontrarsi nuovamente e cancellarsi a vicenda. Le particelle che si formano con questo meccanismo sono talvolta “virtuali” perché, come le stesse fluttuazioni del vuoto, hanno, per così dire, una natura indefinita, eterea; vanno e vengono in un attimo, piccoli segnali evanescenti in un rumore di fondo. Il loro effetto su altri fenomeni fisici, però, è reale».[19]

Terza tesi antinichilista.

Almeno una volta, almeno in un caso particolare e come minimo una volta, durante la storia infinita delle fluttuazioni quantistiche e nella dialettica eonica tra vuoto quantistico e coppie di particelle virtuali, una di queste fluttuazioni quantistiche non si è annichilita e non si è autodistrutta, per motivi ancora ignoti alla scienza, creando come minimo il nostro piccolo ma meraviglioso universo, in espansione (accelerata). [20]

Noi umani, e l’universo che ci circonda, dunque esistiamo e ci muoviamo determinando con la nostra stessa e semplice presenza ontologica l’annichilimento immediato del nichilismo filosofico, che parte dal sofista Gorgia e dalla sua tesi – autodistruttiva, certo – per cui «nulla è. Se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile. Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri».

Tutto sbagliato, signor Gorgia: persino il nulla è qualcosa, ossia coppie di particelle virtuali, anche se solo come suo lato e sua controtendenza subordinata.[21]

Persino se questo nostro piccolo universo dovesse autodistruggersi, come ipotesi peggiore, comunque ritornerebbe la danza resiliente e indistruttibile del vuoto quantistico, con le sue coppie di particelle e antiparticelle e il suo latente, blochiano principio-speranza, avente per oggetto specifico la possibile rinascita cosmica, un nuovo inizio globale.

Parafrasando e riprendendo in modo creativo ciò che disse una volta, in modo paradossalmente luminoso, il lugubre e di regola nichilista H.P. Lovercraft attraverso il suo avatar rappresentato dal pazzo Abdul Alhazred, «non è morto ciò che può attendere in eterno» (vuoto quantistico/coppie di particelle virtuali) «e col volgere di strani eoni anche il vuoto può cessare»: e quando la scienza farà finalmente luce sulle connessioni sussistenti tra effetto Casimir, energia del vuoto quantistico, materia/energia oscura ed espansione accelerata dell’universo – un quartetto su cui torneremo tra poco – acquisiremo e otterremo un quadro generale più completo per la riflessione antinichilista.[22]

Sintetizzando i risultati empirici finora ottenuti, Pietro Greco ha ribadito che “tutti riconoscono – tanto Böhr e i fisici che aderiscono all’interpretazione di Copenaghen, quando Einstein e i pochissimi fisici che la pensano come lui – che la meccanica quantistica con il suo approccio statistico funziona con straordinaria precisione quando prende in esame un grande numero di particelle. La differenza tra i gruppi asimmetrici è che, secondo Böhr e la comunità dei credenti, il medesimo approccio – ove fosse praticamente possibile – andrebbe applicato anche agli “oggetti singoli”. Cosa che Einstein contesta, perché a livello di singolo oggetto il realismo non può svanire.

Ma la questione resta pura accademia fino a quando i fisici sperimentali non sono in grado di verificare che cosa succede a oggetti microscopici singoli. Ora, grazie a John Bell, diventa non solo possibile (e interessante per i fisici) la descrizione quantistica di oggetti singoli, ma anche la sua verifica empirica. Negli anni Ottanta, per esempio, diventa possibile misurare un parametro di singolo elettrone – il cosiddetto “fattore g” – con una precisione che si accorda con la teoria fino alla tredicesima cifra decimale. Un po’ come se si misurasse la distanza tra la Terra e la Luna con una differenza tra rilievo empirico e teoria di mezzo millimetro (pari al diametro di un capello).

Sempre negli anni Ottanta diventa possibile verificare su singoli oggetti l’ipotesi che i salti quantici – ovvero, lo ricordiamo, il cambiamento istantaneo di uno stato, con il passaggio, per esempio, da un livello energetico a un altro – sono reali. Schrödinger pensava di no, pensava che i “salti” fossero il risultato di una teoria applicata a grandi ensemble, ma che non fossero salti reali di singoli elettroni. Ma, scrive Alain Aspect, alcuni esperimenti dimostrano che i salti quantici esistono davvero e che la teoria quantistica può descrivere il comportamento di un oggetto singolo”.[23]

Sempre Greco nel 2020 ha notato che nella particolare interpretazione della meccanica quantistica chiamata interpretazione di Copenaghen “cambiano o perdono del tutto senso parole come “causalità”, “determinismo” e, appunto, “realismo”. Mentre assume un ruolo decisivo l’atto della misura e la presenza di un osservatore macroscopico.

All’inizio degli anni Trenta la grande maggioranza dei fisici fa propria questa interpretazione. Anche perché la meccanica quantistica è una teoria estremamente precisa – forse la più precisa mai elaborata da esseri umani – e si propone come uno dei due pilastri su cui poggia la fisica contemporanea. L’altro è la relatività generale di Albert Einstein.

Proprio Einstein, tuttavia, è il critico più puntuale dell’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica. E per questo si ritrova, con pochi altri – Erwin Schrödinger, Louis de Broglie – isolato.

La critica principale di Albert Einstein alla meccanica quantistica nell’interpretazione di Copenaghen riguarda il realismo. Proprio perché in quella interpretazione della teoria manca il realismo, Einstein considera la teoria incompleta.

Gli anni Cinquanta del XX secolo hanno riaperto la partita dell’interpretazione della meccanica quantistica, proponendo con David Bohm e con Louis de Broglie una teoria “a variabili nascoste” che propone un’interpretazione causale e deterministica della fisica dei quanti.

La meccanica quantistica di Bohm e de Broglie ha dimostrato che Albert Einstein aveva ragione. Un’altra interpretazione, capace di dimostrare che la realtà nel mondo dei quanti non è uno stato di allucinazione tra una misura e l’altra.

John Steward Bell ha poi dimostrato che, tuttavia, ogni teoria realista della meccanica quantistica deve necessariamente pagare un prezzo altissimo: la rinuncia al principio di località. Deve accettare quella che Albert Einstein chiamava “l’inquietante azione a distanza”.

L’esistenza delle correlazioni a distanza, l’entanglement, richiede una profonda riconsiderazione dell’idea di spazio.

Albert Einstein aveva dunque torto, almeno parzialmente. Ma nell’ambito della ricerca di teorie realiste ecco che, grazie alla proposta di tre italiani – GianCarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber –, si trova il modo di evitare il ruolo decisivo della misura e, di conseguenza, dell’osservatore in meccanica quantistica. La località e, a ben vedere, la realtà così come la intendiamo noi emergono spontaneamente nell’interazione di un numero sufficiente di particelle quantistiche. In altri termini, la realtà sembra essere una proprietà emergente della materia/energia.[24]

Avvocato del diavolo: “Tuttavia anche il fisico Carlo Rovelli ha esposto, all’interno del suo libro Helgoland, un relazionismo di tipo radicale in campo filosofico, secondo il quale «il mondo è un gioco prospettico, come di specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro» mentre «la solidità della realtà sembra sciogliersi tra le nostre dita, in una regressione infinita di referenze».[25]

Eros Barone ha notato giustamente che «il relativismo, di cui il relazionismo di Rovelli è una variante, costituisce un’espressione filosofica dell’irrazionalismo, tanto più insidiosa in quanto scaturisce all’interno (di una particolare interpretazione) di una fondamentale branca della coscienza scientifica. Come tale, esso ha sempre implicato un aspetto reazionario, sebbene tendesse a spacciarsi per progressivo. In questo senso, la sofistica con la sua disponibilità a sostenere gli interessi del più forte ne è stato un esempio paradigmatico. Del resto, per criticare il relativismo/relazionismo non è necessario rivolgergli contro un qualche assolutismo dogmatico, giacché esso è autocontraddittorio ed è sufficiente a confutarlo la prova della sua stessa limitatezza (“il mondo è un gioco prospettico, come gli specchi che esistono solo nel riflesso di uno nell’altro”, afferma Rovelli) ».[26]

Ma in cosa consiste concretamente l’autocontraddittorietà della teoria del relazionismo radicale sostenuta da Rovelli?

È la contraddizione tra nichilismo ontologico e antinichilista praxis di scrittura di un libro quale Helgoland.

È la tensione e lo scontro frontale tra la presunta dissoluzione e “scioglimento” nichilista di tutti gli oggetti e della loro “solidità”, proprio mentre un soggetto non-dissolto e ben determinato quale il solidissimo Carlo Rovelli simultaneamente attesta invece la sua esistenza concreta scrivendo pagine e pagine di filosofia, pubblicando nel 2020 un materialissimo manoscritto che sostiene la presunta evaporazione e il supposto scioglimento “relazionale” di tutti gli enti e processi materiali.

Siamo dunque quasi in presenza dell’autocontraddittorietà della frase “io non esisto” (ma allora chi scrive e chi riflette, e per chi si afferma di non esistere?); stiamo quindi esaminando il carattere struttural-mente autodistruttivo di un relazionismo “radicale” di carattere universale, da cui discende inevitabilmente che lo stesso Carlo Rovelli sia solo un “gioco prospettico”, mentre non è un “gioco di specchi” né il concretissimo testo cartaceo di Carlo Rovelli sia il suo stesso autore.

Partendo dal primo elemento, proprio la concreta materialità dell’ente costituito dal libro cartaceo di Rovelli intitolato Helgoland esclude con assoluta certezza che esso sia un “gioco prospettico”, visto che viceversa tali pagine di carta ormai esistono indipendentemente dal loro autore, una volta che esse sono state stampate e pubblicate nel corso del 2020 dalla casa editrice Adelphi.

Se davvero anche il libro di Rovelli intitolato Helgoland fosse solo un “gioco prospettico” tra specchi, come discende inevitabilmente dalla tesi del filosofo italiano secondo cui l’intero universo – e quindi anche la sopracitata fatica filosofica del 2020 – risulta solamente un “gioco prospettico”, il particolare “specchio” denominato Carlo Rovelli dovrebbe poter subito far scomparire, con un minimo suo sforzo di volontà, tutti i suoi specchi-libro dalle librerie e dalle case dei fortunati acquirenti di quest’ultimo, ivi compresi il trio di suoi lettori che lo stanno commentando attraverso queste pagine; per poi farli riapparire e ricomparire di nuovo dopo un’ora, sempre con un minimo di fatica mentale.

Prima sfida pubblica per Carlo Rovelli, quindi: verseremo diecimila euro sul suo conto personale se egli riuscirà a far scomparire e riapparire, entro un’ora, tutte le copie cartacee del suo libro Helgoland dalle librerie e dalle case dei suoi acquirenti, ivi compresi ovviamente i tre autori di questo saggio.

Se viceversa Rovelli non dovesse riuscire in tale compito – ma per lui sarà sicuramente un gioco da ragazzi e un impegno facilissimo da assolvere, visto che egli è sicuramente il creatore indiscusso del libro Helgoland, avendo di certo una stretta relazione “a specchio” con esso e che il suo testo costituisce unicamente “uno specchio che esiste solo nel suo riflesso di un altro”, nel caso specifico lo “specchio-Carlo Rovelli” – quest’ultimo verserà invece la cifra di diecimila euro a favore dei bambini che muoiono a causa di fame e malattie nel cosiddetto Terzo Mondo, destinandoli a un ente benefico che sceglierà lui stesso: neonati e ragazzini le cui sofferenze, quotidiane e continue, non possono essere definite, mai e in alcun modo, come “un gioco prospettico”, “come di specchi che esistono solo nel riflesso” di un altro specchio, qualunque sia tale “vetrata”.

Non è tutto, visto che vogliamo proporre una seconda sfida a Carlo Rovelli, sempre alle condizioni esposte poco sopra: lo invitiamo, come fece James Randi nei confronti dei presunti detentori di poteri paranormali, a svanire e scomparire lui stesso dall’illusorio mondo fisico per poi ricomparire dopo un’ora in questa (illusoria) valle di lacrime, compiendo tale esperimento scientifico di fronte ad almeno una decina di altri fisici, filosofi e pensatori di vario tipo da lui stesso scelto e selezionato.

Sarà sicuramente un altro gioco da ragazzi per Carlo Rovelli, visto che stando proprio alla sua cosmovisione “relazionista” il suo corpo costituisce e rappresenta solo un “gioco prospettico” per la sua mente, quindi assolutamente facile da manipolare e da far scomparire dall’universo, a piacere e a suo comando.

Cosa dite, giudici-lettori? Che ci stiamo fidando troppo di Carlo Rovelli e dei suoi dieci testimoni?

Assolutamente no: fisici e filosofi di matrice antirealista sono totalmente convinti che anche il vil denaro e la vil pecunia, come tutti gli altri enti e oggetti del cosmo, rappresentino solo un “gioco prospettico” e che di conseguenza, logica e necessaria, anche perdere e versare migliaia di euro a favore dei bambini sfortunati del pianeta costituisca solo un ennesimo “gioco prospettico”, che dunque non provocherà alcun danno alle finanze “prospettiche” di Carlo Rovelli.

Attendiamo dunque una doppia convocazione, assegni pronti e già disponibili, da parte del brillante fisico e filosofo italiano in esame: sperando di non fare la fine poco allegra di Vladimir ed Estragon nel dramma Aspettando Godot di Samuel Beckett, oltre ad auspicare che nel frattempo almeno cento miliardi di galassie finora scoperte e la nostra Via Lattea non perdano quella “solidità della realtà” che “sembra sciogliersi fra le nostre dita, in una regressione infinita di referenze”, come asserisce in modo chiaro ed esplicito Carlo Rovelli esponendo la sua cosmovisione iperrelativista e inevitabilmente nichilista.

Ma Carlo Rovelli crede davvero alla “solidità” della sua particolare posizione ontologica?

Pensiamo che la risposta a tale interrogativo sia negativa, visto che a fianco del “Rovelli numero uno” emerge anche un diverso “Rovelli numero due”: quest’ultimo ha affermato in modo chiaro ed esplicito, nel corso di un’intervista da lui stesso rilasciata a Paolo Pecere dopo la pubblicazione di Helgoland, che «il molteplice della realtà esiste ed è reale, e non ha bisogno di provenire da qualcosa per esserci».[27]

Ovviamente siamo d’accordo con il Rovelli numero due e la sua asserzione secondo cui “il molteplice della realtà esiste ed è reale”, ma questa tesi fa a pugni e collide subito frontalmente invece con quella esposta dal Rovelli numero uno, in base alla quale invece “il mondo è un gioco prospettico”, nel quale “la solidità della realtà sembra sciogliersi fra le nostre dita, in una regressione infinita di referenze”.

Lo stesso filosofo-Rovelli, in un “gioco prospettico di specchi”, deve quindi dover decidere e scegliere quale dei due Rovelli in conflitto deve buttare giù dalla “torre” poco incantata della filosofia.

Avvocato del diavolo: “In ogni caso il soggetto pensante non può uscire da se stesso, mai e poi mai”.

Mario Dal Prà aveva giustamente notato, fin dal 1937 e in piena epoca fascista, che se idealismo soggettivo e realismo avevano in comune il punto di partenza, ossia il pensiero, proprio il pensiero implica necessariamente un pensato diverso dal pensiero, che quindi si differenzia dal pensiero e che trascende il pensiero, come del resto anche la pratica sociale fa comprendere a quasi tutti i “soggetti pensanti”.

Notò altresì Dal Prà che “tolto l’essere, tolte tutte le cose, il pensiero necessariamente scompare”: affermando l’identità di essere e pensiero, l’idealismo soggettivo “si autocondanna al solipsismo” e all’ontofobia più autodistruttiva.[28]

Viceversa qualunque visione materialistica determina la convinzione del pensiero umano, come aveva notato acutamente Mario Cingoli: «a) che esiste una realtà indipendente dall’uomo; b) che questa realtà (e questo non sembra sia stato sufficientemente sottolineato) ha una sua struttura (la parola “ontologia” non dovrebbe, quindi, destare scandalo); c) che questa struttura è propria della realtà stessa, non le è data da una Intelligenza trascendente».[29]

La realtà è materia, intesa in senso einsteiniano come concessione dialettica tra massa ed energia, ivi compresa quella espressa dai neuroni e sinapsi umane: e il concetto di materia viene da lontano.

La materia (hyle, in greco), costituita da livelli diversi ma interconnessi tra loro di organizzazione e interconnessione degli enti naturali, partendo dai quark fino ad arrivare mano a mano ai superammassi di galassie, costituisce una categoria teorica elaborata da Aristotele per indicare la sostanza originaria e la componente di base elementare che stava dietro la pluralità di tutti gli oggetti ed enti, ossia una sorta di archè come era ad esempio l’acqua come principio originario di tutte le cose per Talete, l’aria per Anassimene, e così via.[30]

Già il genio di Aristotele aveva indicato alcuni degli elementi necessari per il processo di costruzione di un’ontologia materialistica, quali ad esempio potenzialità e struttura, ma lasciamo il processo di analisi accurato e di ampio respiro rispetto a questa stimolante tematica a una futura attività teorica, per forza di cose.[31]

Avvocato del diavolo: “Ma serve davvero parlare ancora di idealismo soggettivo, al di fuori della letteratura fantastica?”

Tutta una serie di filosofi e di scienziati ha sostenuto via via nel passato l’antirealismo ontologico, partendo dalla scuola yogacara citata in precedenza, mentre altri pensatori sostengono posizioni teoriche analoghe ancora ai nostri giorni, come nel caso di una parte consistente dei fisici; siamo dunque in presenza di una corrente ben radicata anche all’interno di una sezione della scienza occidentale.

Essa ha gettato ad esempio il fisico e filosofo R. Penrose in un particolare delirio complottista, portandolo a esprimere la sua incredibile tesi secondo la quale «la realtà è una cospirazione creata dall’illusione dei sensi», mentre uno scienziato come il sopracitato John Wheeler ha affermato a sua volta che «lo spazio non esiste. Il tempo non esiste. Non è stato il cielo a consegnare la parola “tempo”».[32]

Di fronte alle derive idealiste del tipo di quelle sostenute dal fisico J. H. Poincare, per il quale «tutto ciò che non è pensato è puro nulla» e da W. K. Heisenberg, secondo cui «nessun osservatore, nessuna realtà da osservare», il fisico austriaco E. Schrödinger si sentì in dovere di dimostrare, con un brillante esperimento mentale, le assurdità teoriche e pratiche che derivano inevitabilmente dal confondere il livello subatomico e quantistico della realtà con quello invece macroscopico.

Proprio per illustrare il “collasso” e i limiti paurosi della meccanica quantistica, se applicata al mondo molecolare e ordinario, Schrödinger aveva immaginato «di chiudere un gatto in una scatola. All’interno della scatola, oltre al gatto, c’è una fialetta di cianuro collegata a un marchingegno con una sostanza radioattiva. Il marchingegno funziona così: quando la sostanza radioattiva decade, ossia quando emette almeno una radiazione, la fialetta si rompe, il cianuro esce e il gatto muore. Però la sostanza è molto poco radioattiva e ha un tempo di dimezzamento alto, che significa che emette particelle radioattive molto lentamente. Diciamo, per esempio, che il tempo di dimezzamento sia di dieci minuti. In questo caso la probabilità che la sostanza emetta una radiazione dopo dieci minuti è del 50%. Significa che dopo dieci minuti c’è il 50% di probabilità che la sostanza abbia emesso una particella radioattiva e il marchingegno abbia rotto la fialetta di cianuro e il 50% che non l’abbia fatto. Testa o croce, insomma. Può averlo fatto, come no.

Se dopo dieci minuti non apriamo la scatola non c’è modo di sapere se la sostanza è decaduta o meno. Quello che sappiamo è solo la probabilità che l’abbia fatto, il 50%. In questo caso non possiamo dire che la sostanza è decaduta, ma nemmeno che non lo sia. La Meccanica quantistica interpreta questa situazione nel modo seguente: “la sostanza è decaduta, ma anche no”, con una probabilità del 50%. Se volessimo descrivere lo stato della sostanza, questo è tutto ciò che potremmo dire. Questa è la sua funzione d’onda probabilistica.

E il gatto?

La vita del gatto però, si trova appesa allo stesso filo: se la sostanza è decaduta, la fiala di cianuro si è rotta ed è morto, altrimenti è vivo. Se non apriamo la scatola possiamo dire se il gatto è vivo? No, possiamo solamente dire che c’è il 50% di probabilità che lo sia. Anche il gatto quindi ha una funzione d’onda e si trova in una sovrapposizione di stati. Non è vivo e non è morto. È entrambi, contemporaneamente, con una probabilità del 50%. Almeno finché non apriamo la scatola.

Beh, apriamo la scatola.

Aprendo la scatola possiamo controllare se il gatto è vivo o morto. Questa azione corrisponde, in Meccanica quantistica, a un atto di misura: abbiamo misurato lo stato del gatto. Nel momento in cui facciamo una misura la descrizione probabilistica scompare. A quel punto otteniamo un risultato certo: vivo o morto, decaduto o non decaduto, 1 o 0, c’è o non c’è. L’atto di misurare fa collassare la funzione d’onda in uno degli stati probabili. Se si ripetesse l’esperimento tante volte, si scoprirebbe che la metà delle volte il gatto sopravvive, la metà muore, esattamente come la funzione d’onda ci stava dicendo.

Eh no.

Potreste rispondermi: “È una sciocchezza che il gatto sia vivo che morto prima di aprire la scatola. Non c’è alcuna sovrapposizione di stati e nessun collasso della funzione d’onda. Il gatto è già vivo o già morto, solo che noi non lo sappiamo e quando apriamo la scatola semplicemente lo scopriamo”.

Avreste ragione, perché infatti il mondo macroscopico funziona così e il gatto è appunto solo una metafora.»[33]

Infine gli enormi limiti ontologici del primo principio di indeterminazione sono emersi con particolare evidenza anche rispetto al mondo subatomico fin dal 1951/54, attraverso l’invenzione del maser da parte di Charles Townes e, in modo indipendente, dei fisici sovietici N. G. Basov e A. M. Prokhorov, violando attraverso un’indiscutibile praxis scientifica proprio il principio di indeterminazione come veniva inteso dalla scuola di Copenhagen di Heisenberg e Bohr.

Studiando nel 1951 la modalità con cui interagivano le radiazioni a microonde e le molecole, Charles Townes infatti comprese che poteva essere possibile creare fasci coerenti e precisi di radiazioni e di particelle subatomiche. Alcuni dei fisici più importanti del tempo, tra cui Niels Bohr, il padre fondatore della teoria quantistica, affermarono tuttavia che un fascio di questo tipo era impossibile, in quanto violava il principio di indeterminazione di Heisenberg, mentre altri si lamentavano affermando che si trattava di un esercizio inutile e senza apparente utilizzo pratico: ma Townes era convinto che il suo fascio concentrato di radiazioni sarebbe stato importante nello studio della struttura di atomi e molecole, quindi con il suo team iniziò a lavorare sul suo dispositivo nel 1954, dimostrando che Bohr si era sbagliato, creando i primi raggi a microonde amplificati tramite emissione a cui accollò il nome di maser.[34]

Passiamo ora ad analizzare le due forze motrici principali che alimentano l’antirealismo ontologico.

Innanzitutto l’idealismo soggettivo e il mortifero solipsismo del “esisto solo io”, che ne costituisce il figlio legittimo, si generano e si riproducono carsicamente in molti esseri umani al livello di “filosofia spontanea” (Gramsci) per una particolare e unilaterale riflessione, più o meno fuggevole, sull’esperienza della morte: tematica che a sua volta accompagna teoria e praxis sociale dell’Homo sapiens fin dai tempi dei Neanderthal e delle loro (protofilosofiche) sepolture di circa 300.000 anni or sono, esaminate in modo splendido dal paleontologo J.L. Arsuaga.[35]

Non si tratta di un caso dato che proprio la filosofia costituisce una sorta di “terra di confine” e un particolare punto di interconnessione della pratica teorica, posta tra il campo scientifico, il settore politico-sociale e l’esperienza diretta di tutti gli esseri umani riguardo al senso della vita, al problema della morte e al rapporto tra bene e male.

Essa dunque si rivela come il settore della praxis riflessiva che ricerca la verità e le possibili soluzioni per le mutevoli questioni fondamentali e per le variabili domande essenziali che, mano a mano, hanno interessato e assillano tuttora il genere umano, mediante il processo composito di elaborazione autocosciente di concetti e categorie teoriche dotate di un raggio d’azione generale e costruite via via in base alle conoscenze ed esperienze, alle capacità intellettuali e all’immaginazione creativa dei diversi filosofi; a volte, come nel caso della filosofia di matrice irrazionalista, arrivando a conclusioni demolitorie proprio rispetto ai poteri e potenzialità della ragione umana, ma sempre tentando di dimostrare tali tesi per via autonoma e utilizzando almeno in parte degli argomenti che si appellano alla riflessione e al giudizio critico degli esseri umani, come nel caso di Pascal, Schopenhauer e Kierkegaard.[36]

L’oggetto e le questioni fondamentali, che suscitano da millenni l’interesse della nostra specie, formando le “meraviglie” specifiche delle lotte e del processo di sviluppo della filosofia, della sua caccia al senso/ordine e immagine del mondo, in una continua dialettica tra domande e risposte di respiro generale, risultano di varia natura e assai variegate. Possono essere comunque sottolineati più importanti problemi filosofici, e cioè:

  • la questione della priorità tra materia e spirito (il “Cielo”, nella terminologia confuciana): Engels, nel suo breve ma splendido saggio intitolato Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia tedesca, la definì correttamente come il problema centrale e decisivo per la storia filosofica, partendo proprio da Talete e dai “presocratici”;[37]
  • il correlato problema dell’esistenza/inesistenza di divinità (o di una sola divinità) superpotenti e superiori al genere umano: le domande/risposte sull’esistenza di Dio, in altri termini;
  • la possibile esistenza di infiniti universi, oltre al nostro: Democrito e Giordano Bruno, gli innumerevoli universi paralleli immaginari dal comunista L. A. Blanqui nel 1872, ecc.;
  • la connessione dialettica esistente (o non-esistente) tra l’essere e il nulla, partendo dalla polarità dialettica tra atomi e vuoto, individuata dal materialista Democrito già nel V secolo a.C., oltre che dalla provocatoria affermazione del sofista Gorgia su “nulla è”, per arrivare fino alla domanda del filosofo idealista Leibneitz sul “perché vi è qualcosa piuttosto che niente” (1714);[38]
  • il “problema-morte” e le questioni correlate dell’esistenza-inesistenza dell’anima e della sua immortalità, da Pitagora in poi;
  • la possibilità/impossibilità di conoscere in modo adeguato sia l’uomo che la realtà esterna dell’uomo, oltre ai criteri utilizzabili per accertare la verità (la praxis sociale di Marx, ecc.);
  • l’autoanalisi dello stesso pensiero umano, e cioè la logica formale e dialettica (da Pitagora ed Eraclito) con lo studio delle corrette modalità di funzionamento ed espressione della ragione umana;
  • il dubbio “diabolico” (Cartesio) rispetto alla stessa esistenza, autonoma e indipendente, dell’uomo e/o dei fenomeni, processi ed oggetti diversi da quest’ultimo: il problema del primo film della serie Matrix, se si vuole, o dei “cervelli in una vasca” di H. Putman.[39]

Alcuni “dubbi diabolici”, che a volte tracimano sia nell’idealismo soggettivo che anche nel vero e proprio solipsismo, si creano anche attraverso una particolare tipologia di riflessioni sbagliate, ma comprensibili, aventi per oggetto proprio l’ineliminabile realtà della morte, quando esse non tengono conto e non partono dal presupposto ontologico del realismo secondo cui “l’oggetto esiste anche senza il soggetto”, intendendo in questo caso specifico per soggetto proprio il singolo individuo umano, e portando dunque a conclusione egocentriche del tipo “dopo di me, il diluvio” e “morto io, morti tutti”: tali convinzioni mentali risultano molto più diffuse di quanto si creda comunemente, attraverso la violenta e duplice spinta costituita dalla sicura morte degli altri esseri umani e dalla previsione individuale della propria inevitabile dipartita soggettiva.[40]

Il processo di evoluzione del particolare legame creatosi via via, nel pensiero occidentale, tra morte e solipsismo teorico – vero e proprio convitato di pietra del pensiero antirealista – è stato analizzato con grande lucidità da Paolo Masini, il quale ha correttamente sostenuto che «ci sono alcuni temi fondamentali, alcuni discorsi importanti, che nel senso comune, nel nostro quotidiano interloquire con altri, ma anche almeno in parte nel pensiero filosofico, vengono perlopiù elusi, forse sostanzialmente rimossi. O perché affrontarli può essere forse inquietante. Oppure perché, d’altro lato, almeno al livello di un discorso o sentire più superficiali, affrontarli è ritenuto lezioso, o inutilmente “accademico”. O magari semplicemente un po’ ingenuo.

Due temi fra questi sono la tesi del solipsismo teorico (non tanto nella variante del solipsismo trascendentale, ma anche più direttamente e banalmente nella forma del solipsismo empirico) e il tema della morte come nullificazione assoluta. Nonché la questione del legame essenziale che i due temi hanno fra loro.

Che la questione del solipsismo sia elusa è, a mio avviso, chiarissimo in Schopenhauer, che peraltro è uno dei pochi, che io conosca, che esplicitamente la pone.

Ne Il mondo come volontà e rappresentazione infatti a un certo punto – prima di passare a dimostrare (o meglio a ipotizzare) che la volontà, che il soggetto riconosce essere in lui la cosa in sé, si manifesta allo stesso modo in tutti gli esseri viventi – prende esplicitamente in esame la tesi filosofica dell’“egoismo teorico”, ossia del solipsismo. La tesi cioè secondo cui esiste solo l’Io, l’Io chiuso nella sua insuperabile assolutezza e solitudine. La tesi secondo cui cioè non esiste null’altro che l’Io, essendo tutto il resto null’altro che rappresentazione contenuta nell’Io.

In questo contesto Schopenhauer la dichiara tesi inconfutabile. Ma tuttavia inaccettabile. Paragona infatti tale tesi a una cittadella inespugnabile; ma tuttavia ritiene anche che il filosofo perciò non abbia bisogno di attaccare tale fortezza, che può (anzi deve) piuttosto soltanto aggirare, per proseguire così la sua ricerca lungo altre, percorribili, strade. Il solipsismo sarebbe dunque per lui come una fortezza di frontiera che ci si può lasciare tranquillamente alle spalle; perché il terreno su cui sorge ha sì tali asperità che è impossibile espugnarla, ma tali asperità impediscono anche alla sua guarnigione di uscirne (per il solipsismo nessun territorio esiste al di fuori della sua fortezza) e ciò consente di non doverla mai affrontare.

Schopenhauer afferma pure che chi alla verità del solipsismo crede è un folle. Ma evidentemente un folle di una lucida follia, chiuso in una cittadella che non comunica per davvero con nulla ma la cui logica è inespugnabile.

Il tema della possibilità (o la realtà) del solipsismo evocato da Schopenhauer è quindi in realtà immediatamente rimosso e la filosofia, come farebbe il senso comune, qui se ne allontana subito dopo averlo adombrato.

E in effetti, come sostenevo all’inizio, in generale parlarne dandogli dignità di problema sa sempre un po’ di inappropriato. Perlopiù si sorride di chi tale questione pone o, peggio, tale tesi sostiene (per Mach, ad esempio, il sostenitore del solipsismo è lo strano personaggio che scrive libri sapendo che non c’è nessuno che li legge, o ringrazia per onori ricevuti sapendo che non provengono da nessuno). In fondo si tende a far notare come il comportamento di chiunque smentisca in quanto tale l’eventuale reale credenza nel solipsismo. Si ritiene così di far notare come esso non sia creduto vero per davvero da nessuno. Se non da un pazzo, che appunto isolato in manicomio sta.

Si dà infatti in genere per scontato che la tesi non abbia fondamento. Ma, con ciò in realtà, almeno di fatto, il problema in cui la possibilità del solipsismo consiste, lo si elude solo. Come se l’argomento debba solo stare là dove è, cioè fuori di scena. Fuori di scena come ciò che è o-sceno. Osceno e rimosso.

Solipsismo. Morte (un certo modo di concepire la morte). Entrambi in fondo rimossi.

A me pare evidente un legame tra le due idee, che tende a connettere le due rimozioni. Ma, di più, mi pare anche che, seppure quasi mai esplicitate, solipsismo e una certa idea della morte siano due convinzioni radicate e diffuse, ben più di quanto si sia disposti ad ammettere, nella profondità (inconscia?) delle credenze reali (che guidano atteggiamenti, azioni, emozioni), magari appunto inespresse, ma non perciò meno presenti, di ognuno.

“Morto io, morti tutti”, si sente dire a volte. Si intende dire, solipsisticamente, che la mia morte coincide con la fine del mondo. Con me muore tutto, la mia assenza dal futuro lo rende un nulla e tutto diventa come se non fosse mai stato.

Non c’è da stupirsi quindi se molte tra le voci più significative della filosofia contemporanea esprimono lo stesso sentire verso la morte, per la capacità della filosofia di esprimere l’essenza profonda dell’epoca.

Per Derrida ad esempio: “ogni morte è, ogni volta unica: la fine del mondo”. Nessun Io, nel momento in cui non abita più nessun punto del mondo per cui per esso non vi è più mondo, potrà mai dire “io sono morto”. Ma non potrà dirlo perché, con la sua fine, il mondo in un unico concomitante irrevocabile evento in toto finisce.

Magari sapere questo può pure servire nella “farmacia di Epicuro” (ma mantenendo l’ambiguità preziosa del termine “farmaco”, curativo e benefico) nella consapevolezza che ove c’è morte non vi sono più io; ma peraltro certo tale visione implica anche in fondo appunto l’identificazione (solipsistica) dell’Io con il tutto. Un unico, solo, Io, dunque. Oltre la propria morte perciò non vi è più un altrove che consenta alcunché e in qualche modo mi tocchi e riguardi. Oltre all’Io, laddove non c’è Io, c’è solo nulla e nel nulla non c’è più alcunché. Ma in fondo anche Heidegger è già, almeno potenzialmente, attestato a questo sentire; nel momento in cui pone da un lato che l’unico ambito ove sia esperibile in qualche modo la morte stia nella situazione del vedere altri morire e dall’altro lato evidenzia l’impossibilità di esperire davvero la morte altrui. Nessuno sguardo da fuori è quindi davvero possibile sulla morte perché nessuno sguardo può inoltre scorgere il proprio morire. L’autentica reale morte è sempre e solo una possibilità (della propria impossibilità) e mai un fatto di cui si abbia esperienza. L’esserci non va mai oltre il limite della propria morte e perciò posso pensare che con essa scompaia definitivamente la totalità del mondo e che nulla sia possibile oltre l’unico Io che si spegne.

Ma è in Wittgenstein che forse emerge più nettamente che in qualsiasi altro caso il nesso che lega tra loro solipsismo e certo modo di pensare la morte. È Wittgenstein che infatti dice esplicitamente essere il solipsismo “esatto e indicibile” (per cui noto che anche qui esso viene, seppure per motivi diversi che in altri, escluso e rimosso dal dire). Perciò “io sono il mio mondo” (ed il mio mondo dunque sono io), e quindi “la morte non si vive” perché oltre il mio mondo, che la morte conclude, non vi è vita e cioè non vi è nulla di altro, perché altro non vi è oltre me.

Anche se è soprattutto Sartre che, non limitandosi dunque ad accennarvi, produce argomentazioni circa la necessità del nesso. Ed è Sartre a proporre in un certo senso l’idea che sia innanzitutto l’intendere in certo modo la realtà della morte a comportare il confluire di tale modo di intenderla nel solipsismo. Secondo tale argomento il fatto che dell’altro che muore mi resti solo il ricordo, mi rende consapevole che anche di me solo questo resterà. Altro non vi sono dunque che i miei ricordi, il mio io e la mia consapevolezza che negli altri di me nulla resterà se non un ricordo. Ciò sancisce la separazione assoluta tra sé (l’in sé e per sé) e l’altro, separazione che è e resterà invalicabile, dove il fatto che l’altro sia sempre solo mia rappresentazione mi chiude in una solitudine insuperabile, che porta con la mia fine la fine dell’unico mondo, quell’unico e solo (mio) mondo che sono.

Ma se è in questi modi che sostanzialmente il nesso tra solipsismo e certo modo di pensare la morte è annodato, è però da vedere se sia a partire dal solipsismo empirico che si produca questa visione ed idea della morte. Potrebbe infatti sembrare che il nesso si stringa nella forma: siccome non ci sono che io, la mia di morte è nullificazione di tutto.

Eppure, a ben pensarci, il solipsismo di per sé non implica necessariamente una concezione nichilistica della morte. Anzi in fondo non implica neppure la necessità di una fine dell’unico Io. Non implica la necessità di una morte, perché tale necessità non è ricavabile su base empirica (non c’è esperienza passata del proprio morire) e neppure e nemmeno è fondata sull’impossibilità del contrario, perché l’Io, dal punto di vista logico, può essere pure sviluppo infinito.

Ma c’è un altro modo di concepire la morte? In che altro modo si può concepire la propria morte? In che altro modo si può uscire dal proprio solitario e solipsistico sole?

Se questo altro modo c’è esso deve anche affrontare a viso aperto la forza della posizione dell’“egoismo teorico” – forza da Schopenhauer almeno riconosciuta – e la persuasività del modo di intendere la morte come nullificazione assoluta. Ma poi deve mostrare anche cosa in queste posizioni (in queste radicate e terribili convinzioni) vi sia di sbagliato, laddove io credo che qualcosa di sbagliato vi sia nell’impostazione di fondo stessa del modo di pensare a tutto ciò.

Sarebbe da vedere in che modo sia concepibile la morte come uno “slittamento”, ma non in un prosieguo del proprio sé – che resterebbe ancora perciò concepibile unico e solo – e bensì come uno sconfinare nell’esperire dell’altro.

Ma forse, per uscire davvero dal solipsismo, serve anche l’altro che deve venire incontro, nell’evento dell’esperienza dell’essere trovati da qualcuno – l’altro – che invade».[41]

Una sola correzione da parte nostra, ossia che per uscire davvero dal solipsismo bisogna utilizzare in modo dialettico proprio l’indispensabile “farmaco epicureo” costituito dal realismo ontologico, collegandolo strettamente alla praxis collettiva umana.

Per fare un solo esempio di medicina filosofica, i nostri fratelli Neanderthal purtroppo si estinsero circa quarantamila anni fa ma ci regalarono, tra le altre cose, anche le pregnanti e utilissime sepolture rituali di Sima de los Huesos in Spagna, risalenti a 300.000 anni or sono: “oggetti rimasti senza soggetto”, intendendo per oggetto tali sepolture paleolitiche e per soggetto invece gli estinti Neanderthal.

“Oggetti di soggetti morti”, dunque. Morti e scomparsi da decine di migliaia di anni, ma in grado di lasciarci una loro preziosa oggettivazione sociale mediante le loro sepolture, utilissime tuttora anche sul piano filosofico contro il solipsismo e l’idealismo soggettivo: per dirla con gli splendidi e paleolitici Moody Blues del 1969, nel loro album To our children’s children’s children, i nostri fratelli Neanderthal hanno creato a Sima de los Huesos una vera e propria strada di eternità per i loro discendenti e una candela di luce costituita paradossalmente da cadaveri e sepolcri, che brilla e illumina ancora ai nostri giorni persino il livello della riflessione teorica.

Infatti tali cadaveri di trecentomila anni or sono, tali sepolture rituali di trecentomila anni fa indicano di per sé e in modo immediato, senza pietà e con la loro nuda materialità, la follia di qualunque ipotetico solipsista che, ai nostri giorni, affermasse di essere l’unico (pazzo, invasato) soggetto a esistere, e quindi a scrutare i suoi stessi pensieri malati: ivi compresi quelli relativi sia alle paleolitiche tombe di Sima de los Huesos che a queste stesse pagine, a queste stesse righe ora dedicate ai nostri lontani antenati, oltre che all’album del 1967 intitolato Days of future passed.[42]

In ogni caso non il solipsismo, ma viceversa il nichilismo si è dimostrato il peggior nemico della filosofia occidentale contemporanea.

Come si è già ricordato nella prefazione a questo saggio, Hegel stesso definì l’idealismo come volontà di non considerare il finito, ossia gli enti finiti e gli oggetti finiti, come la vera realtà, ma egli non si limitò a esporre tale tesi: infatti sempre il grande filosofo di Stoccarda altresì notò, nella sua Scienza della logica e rispetto proprio a tali cose finite che «esse sono, ma la verità di questo essere è la loro fine, il finito non solo si muta, come il qualcosa in generale, ma perisce; … ma l’essere delle cose finite, come tale, sta nell’avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l’ora della nascita è l’ora della loro morte».[43]

In tal modo, purtroppo, Hegel aprì la strada teorica al nichilismo disperato di Heidegger e di buona parte della filosofia occidentale contemporanea, dimenticandosi di sottolineare ed evidenziare come qualunque cosa finita, persino nel suo perire, interagisca con le altre, si trasformi e lasci dunque almeno un’increspatura nel tessuto globale e infinito dell’esistenza. Parafrasando il grande storico cinese Sima Qian e Mao Zedong, a volte tale trasformazione è lieve come una piuma quantistica e a volte invece pesante come una montagna, come ad esempio nel caso concreto della fusione e del perire hegeliano di due buchi neri che, più di un miliardo di anni or sono, collassando hanno prodotto la cosmica onda gravitazionale registrata dagli scienziati nel settembre 2015.

Ma a questo punto passiamo a esaminare una seconda fonte e un’altra sorgente dell’antirealismo ontologico, oltre a quella legata alla morte sopra esaminata.

Infatti l’idealismo soggettivo riconosce ed evidenzia un lato innegabile e reale del processo infinito della conoscenza umana, seppur rendendolo assurdo e grottesco: assolutizza infatti la reale e concreta dinamica di riproduzione creativa del reale da parte dell’azione gnoseologica umana, impedendo di comprenderne la vera natura e l’effettiva valenza ontologica di quest’ultima.

Nei suoi splendidi Quaderni filosofici Lenin aveva notato giustamente che «la coscienza umana non solo rispecchia il mondo oggettivo ma lo crea anche».[44]

Dunque, da un lato, Lenin ha dimostrato svariate volte che la coscienza/conoscenza collettiva umana, principalmente attraverso la praxis sociale, riflette e rispecchia un mondo oggettivo che esiste prima e indipendentemente del genere umano, dai suoi sensi e dalla sua coscienza.

Ma dall’altro il grande filosofo e rivoluzionario russo ha chiarito che, seppur parzialmente, il processo di conoscenza umana riproduce creativamente il mondo esterno formandone un’immagine che può anche distorcere la realtà, esaltandone ad esempio certi aspetti o riducendone invece altri.

Lo “specchio” gnoseologico umano riflette sicuramente il mondo esterno ma non certo come una macchina fotografica, la quale in ogni caso a sua volta cambia, ricrea e trasforma la realtà, togliendo qualunque forma di movimento agli oggetti immortalati da essa.

Il lato rilevante e importante, anche se subordinato e secondario, del processo continuo di ricostruzione gnoseologica del mondo da parte del genere umano è stato ben descritto da Robert Havemann, nel suo stimolante anche se a volte confuso libro intitolato Dialettica senza dogma: il filosofo marxista tedesco sottolineò infatti il fenomeno sensoriale dell’anisotropia (e dello “spazio psichico”), che porta gli uomini a sopravvalutare notevolmente le distanze verticali rispetto a quelle orizzontali.

«“Lo spazio psichico” non è neppure identico allo spazio euclideo. Del resto esso è stato già studiato dagli psicologi e appare come uno spazio anisotropo in cui le dimensioni orizzontali e verticali sono valutate in modo affatto diverso. L’uomo considera le distanze orizzontali notevolmente inferiori a quelle verticali. Se guardiamo giù da una casa o da un’alta torre, vediamo apparire minuscoli oggetti che alla stessa distanza orizzontale ci appaiono di grandezza quasi immutata. A 25 metri di distanza un uomo è vicino e grande. Visto dall’alto di una casa a sei piani, ci appare piccolo come un pollo. Anche se guardiamo in alto, gli oggetti ci appaiono straordinariamente staccati e molto lontani. È una debolezza dell’uomo, di sentirsi tanto elevato rispetto a tutto ciò che gli sta sotto, ma anche di ammirare l’alta maestà di tutto ciò che gli sta sopra.

Anche la nota “illusione lunare”, il fatto cioè che la luna ci appare grandissima all’orizzonte e tanto piccola allo zenit, è dovuta all’anisotropia del nostro modello spaziale psichico, che evidentemente è molto ben adattato alle necessità vitali degli uomini, delle scimmie e di tutti i nostri antenati. La psicologia animale ha indagato se lo spazio psichico presenti in tutti gli animali, come nell’uomo, questa struttura a forma di campana coprivivande. In realtà non è così. Animali per i quali il superare distanze verticali è facile, hanno struttura spaziale del tutto opposta. Essi valutano meno le distanze verticali.

Possono gettarsi su un topo da grande altezza. Quindi il topo, visto da grande altezza, appare già a portata di artigli all’uccello da preda; da una scarsa distanza orizzontale, invece, il topo gli è poco visibile perché coperto da piante o da rilievi del terreno: esce dal suo spazio. Lo “spazio” di un animale è a forma di pan di zucchero.

Le strutture spaziali che si sviluppano negli esseri viventi non sono dunque semplici riproduzioni razionali della struttura oggettiva, ma si formano in rapporto con i bisogni della vita, le abitudini e le possibilità dei vari esseri viventi.»[45]

Molte interconnessioni e complessi di sensazioni dipendono dall’interazione dialettica tra mondo esterno e pratica soggettiva dei sensi umani. Lo scienziato Stephen Palmer ad esempio ha notato che il colore costituisce “una proprietà psicologica dell’esperienza visiva che abbiamo quando guardiamo gli oggetti e la luce”, basata su “proprietà fisiche degli oggetti e della luce” (esterno e indipendente ontologicamente da noi umani) che “fanno sì che li vediamo come colorati, ma tali proprietà fisiche differiscono in modo significativo dai colori che noi percepiamo”.

L’idealismo soggettivo prende dunque in considerazione un solo elemento veritiero, ossia la riproduzione creativa del mondo da parte dei sensi e della praxis umana, sopprimendo tuttavia totalmente l’altro e decisivo aspetto del processo gnoseologico, ossia il mondo esterno, e spezzando quindi in modo grottesco i due lati inscindibili e necessari del processo gnoseologico umano.

Ad esempio è indiscutibile che l’uomo non vede senza luce e che quest’ultima esista indipendentemente dai sensi e praxis umana, sul piano ontologico: ma lo spettro meraviglioso dei colori costituisce a sua volta il sottoprodotto e il risultato del processo creativo della riproduzione del reale da parte dell’uomo.

Il lato valido dell’idealismo soggettivo, il suo unico aspetto positivo venne analizzato in un breve ma splendido scritto, intitolato A proposito della dialettica di Lenin, indicando correttamente la tendenza unilaterale e negativa dell’idealismo di qualunque genere, che apriva la strada al clericalismo e al “pretume” (come avvenne nel caso concreto dell’attualismo di Giovanni Gentile, filosofo importante nell’Italia fascista, alleatasi all’inizio del 1929 del Vaticano); ma simultaneamente il rivoluzionario russo mostrò come lo stesso idealismo costituisse “un rigonfiamento eccessivo” di uno dei “punti-limite” della conoscenza umana, ossia la componente attiva di tale praxis gnoseologica.

Lenin infatti sottolineò che «l’idealismo filosofico, dal punto di vista del materialismo rozzo, elementare, metafisico, non è altro che assurdità. Viceversa, dal punto di vista del materialismo dialettico, l’idealismo filosofico è uno sviluppo (un enfiagione, un rigonfiamento) unilaterale, eccessivo, überschwengliches (Dietzgen) di uno dei tratti, di uno degli aspetti, di uno dei punti-limite, reali e importanti, della conoscenza, ed assoluto, sciolto dalla materia, dalla natura, divinizzato. Idealismo significa pretume. D’accordo! L’idealismo filosofico è tuttavia (“più esattamente” e “inoltre”) una via verso il pretume attraverso una delle sfumature della conoscenza (dialettica) infinitamente complessa dell’uomo.

La conoscenza dell’uomo non è una linea retta, ma una curva, che si approssima infinitamente a una serie di circoli, a una spirale. Ogni segmento, ogni frammento, ogni tratto di questa curva può essere trasformato (unilateralmente trasformato) in una linea retta a sé, indipendentemente, che (se gli alberi impediscono di vedere la foresta) porta allora nella palude, al pretume (dove viene ancorata dall’interesse di classe delle classi dominanti). Il carattere rettilineo e unilaterale, la rigidità e la fossilizzazione, il soggettivismo e la cecità soggettiva, voilà le radici gnoseologiche dell’idealismo. E il pretume (=idealismo filosofico) ha naturalmente le sue radici gnoseologiche; esso non è senza humus; indubbiamente, è un fiore sterile, ma un fiore sterile che cresce sull’albero vivo della vivente, feconda, vera, potente, onnipotente, oggettiva assoluta conoscenza umana».[46]

Una delle contraddizioni più importanti del genere umano è individuabile in quella tra iperpotenza mentale (specie della fantasia creativa) e scarsità relativa di mezzi materiali: diventa pertanto relativamente facile dimenticarsi, almeno a livello cerebrale, del secondo lato della contraddizione in oggetto e cadere in un particolare stato mentale nel quale l’universo diventa una nostra rappresentazione, per dirla con Schopenhauer.[47]

Emergono molti aspetti dell’iperpotenza intellettuale umana, iniziando con l’immaginazione selvaggia capace di creare e distruggere, con un battito di ciglia, migliaia e migliaia di universi partoriti dal nostro fenomenale cervello. Oppure della capacità di concentrare la storia globale del nostro pianeta in un istante, risalendo in un baleno la catena temporale fino a circa 13,7 miliardi di anni fa e al Big Bang iniziale. E ancora, di ricordare eventi lontani scaturiti durante la nostra prima infanzia di singoli esseri umani e/o di specie, facendo scaturire una particolare dialettica tra passato e presente, oppure di sognare il futuro a occhi aperti. Di prendere coscienza della propria immagine riflessa in un torrente d’acqua e in uno specchio.

Di creare la logica dialettica, intesa in senso hegeliano come sapere preso in tutta l’ampiezza del suo sviluppo. Di costruire simboli che abbraccino l’infinito e l’eternità, oppure rosse speranze di giustizia e fratellanza. Di progettare strumenti in grado di creare con altri strumenti, salendo dai primitivi ciottoli scheggiati con un’altra pietra da un solo lato fino alle moderne astronavi.

Forza potenziale devastante, dunque una prodiga e lussureggiante superenergia mentale che si confronta/scontra costantemente con la conoscenza dei limiti umani, ma a volte li dimentica creando alcune deformazioni più o meno grottesche nelle quali rientra a pieno titolo l’idealismo soggettivo.

Avvocato del diavolo: “L’aggancio e la connessione con le scoperte scientifiche createsi nell’ultimo secolo, comprese le centinaia di miliardi di galassie che pretendete garantiscano l’esistenza oggettiva della realtà materiale, rimangono in ultima istanza, come qualsiasi altra scoperta scientifica (riguardante quindi anche la biologia, la chimica, ecc.), una serie di dati provenienti e filtrati dall’essere umano: quindi non si esce e non si trascende il soggetto elemento decisivo del processo gnoseologico”.

Non c’è peggior sordo di chi fa finta di non capire, avvocato del diavolo: lei merita dunque una scossa (soggetto comprendo oggetto senza soggetto vita antecedente) ontologica molto forte, una sorta di laser filosofico.

Innanzitutto è stato proprio il soggetto umano, sia collettivo che individuale (Curtis, Hubble, e così via…) a scoprire nel corso dell’ultimo secolo Andromeda e almeno cento miliardi di altre galassie: la soggettività umana, dunque, non certo un “demone maligno” o una qualsiasi divinità.

Secondo elemento indiscutibile: è stato sempre lo stesso soggetto umano a fornire la distanza sicura, seppur con un minimo margine di approssimazione, delle cento miliardi di galassie da lui rinvenute finora.

Terzo punto: tale distanza, superiore sempre ai due milioni di anni luce, costringe inevitabilmente lo stesso soggetto a comprendere che quasi sempre le galassie esistevano prima della sua nascita come specie, compresi persino i preominidi: momento di genere e datazione antropologica a sua volta indiscutibile e frutto sempre del soggetto umano, non certo di un “demonietto maligno” di origine cartesiana o maileriana.

Sempre lo stesso soggetto umano, riflettendo come soggetto autonomamente sui dati empirici e sugli elementi di fatto sopracitati, ha concluso dunque sul piano filosofico, in modo logico e inevitabile, che i miliardi di galassie da lui rinvenute dopo il 1916 esistevano prima di lui e, quindi, indipendentemente da lui stesso, dalla sua soggettività e azione epistemologica.

In altri termini proprio la soggettività umana ha scoperto, “con dati scoperti e filtrati dall’essere umano”, la trascendenza ontologica dell’oggetto-galassie rispetto alla sua stessa soggettività, alla sua stessa esistenza e praxis, di natura individuale e collettiva.

Detto in altri termini, proprio la pratica soggettiva e la riflessione soggettiva dell’uomo ha creato e scoperto autonomamente la sopracitata “SCOSSA” ontologica: e cioè che il Soggetto Comprende l’Oggetto Senza Soggettività Antecedente, senza un soggetto antecedente all’oggetto-cento miliardi di galassie.

In altri termini, risulta lo stesso soggetto umano che attesta, prove e dimostra con la sua attività scientifica – e l’analisi teorica connessa e legata ad essa – che non è certo lui stesso a creare come una novella divinità la realtà delle galassie, per i duplici e combinati motivi che queste ultime esistevano, ruotavano nel cosmo ed emettevano luce prima dello stesso soggetto umano oltre a risultare ignote, prima del 1917 alla nostra specie che si auto-conosce come Homo sapiens.

Per una volta anticipiamo l’avvocato del diavolo, sulla questione dei “dubbi radicali”.

Il soggetto può infatti essere incerto, sull’aver via via scoperto realmente e per davvero cento miliardi di galassie, dopo il 1916.

Il soggetto può altresì dubitare sulla lontananza e datazione delle galassie da lui rinvenute, oltre che sulla sua stessa “età di specie”, indicata dalla scienza antropologica contemporanea.

Il soggetto può altresì dubitare della sua stessa autonomia, avendo il sospetto di essere vittima di un complotto cosmico, ordito ai danni del demoniello di Cartesio, dal dio di Harlot, dal Matrix o dal “lanciatore di cervelli in una vasca” di Putnam, a piacere e secondo i gusti.

Il soggetto può infine mettere in discussione la sua stessa esistenza, urlando e/o scrivendo “io non esisto”.

Ma con tali operazioni mentali non siamo posizionati all’interno della relazione ontologica soggetto/oggetto, ma viceversa in quella ben diversa tra soggetto e soggetto: abbiamo quindi davanti un processo di dislocazione e un trasferimento del problema ontologico più a monte, ossia dall’oggetto allo stesso soggetto umano.

Infatti nei “dubbi radicali” non risulta più in gioco e non si analizza più l’oggetto, e quindi svaniscono le sofisticherie degli idealisti soggettivi sul fatto indiscutibile per cui, all’interno del genere umano, tutte le informazioni e i dati sono provenienti e filtrati dallo stesso Homo sapiens: stiamo viceversa ormai affrontando il processo di autoanalisi del soggetto rispetto ovviamente a se stesso, non certo riguardo ad Andromeda e ai cento miliardi di galassie esistenti nel cosmo.

E dove portano dunque tali dilemmi radicali del soggetto rispetto al soggetto?

Ai vecchi manicomi e alle nuove cliniche psichiatriche, verrebbe subito da dire scherzando solo parzialmente.

Ma per fortuna l’attività pratica e la riflessione teoretica su di essa, a partire da Cartesio, hanno già spazzato via i proteiformi sostenitori dei “dubbi radicali”.

“Io non esisto”.

Dilemma esistenziale, certo, ma che si autodistrugge subito riflettendo su chi allora parla dicendo “io non esisto”, su chi allora scrive mettendo, nero su bianco, la frase e le tre semplici parole in via di esame.

“Noi umani abbiamo creato le galassie e l’universo”.

Sveglia, terrapiattisti ontologici.

Nel 2021 l’Homo sapiens non riesce neppure ancora a vincere gli uragani e i terremoti, che colpiscono e uccidono carsicamente anche gli idealisti soggettivi, e sarebbe stato invece capace  nel passato di autoprodurre ex-novo miliardi e miliardi di galassie? E ancora: per quale motivo chi è colpito da tale delirio di onnipotenza non crea a sua volta una galassia, o almeno una stella, o almeno un pianeta, oppure almeno un satellite, o almeno un piccolissimo micro asteroide, dimostrando in tal modo concretamente la sua (presunta e irreale) onnipotenza di carattere divino?

La paranoia cosmica culmina poi in affermazioni del tipo: “Un essere divino e/o superpotente ci ha ingannato e ci inganna tuttora, rispetto alle scoperte astronomiche di miliardi di galassie”.

A tal proposito tuttavia non ci ripetiamo, visto che abbiamo già esaminato in precedenza i “dubbi radicali” di matrice filosofica che possono nascere dalla splendida ma letteraria, dalla meravigliosa ma inventata ad arte e per scopi letterari “favola del dio Harlot”, prodotta dal genio creativo di Norman Mailer.


[1] G. Fornero e S. Tassinari, op. cit., vol. primo, p. 445

[2] Autori Vari, “Fede e scienza”, p. 86, ed. Einaudi; A. Banfi, “L’uomo copernicano”, ed. Il Saggiatore

[3] A. Pannekoek, “Lenin filosofo”, cap. VI, in http://www.marxists.org

[4] N. Mailer, “Il fantasma di Harlot”, p. 1024, ed. Bompiani

[5] S. Zizek, “Meno di niente”, libro secondo, p. 490, ed. Ponte alle Grazie

[6] S. Zizek, op. cit., vol. secondo, p. 486

[7] S. Jaquinto e G. Torrengo, “Filosofia del futuro”, pp. 27-28 e 32, ed. Cortina

[8] C. Mangione, op. cit., pp. 334 e 353

[9] G. Bertone, op. cit., p. 80

[10] G. Tonelli, “La nascita imperfetta delle cose”, p. 18, ed. Rizzoli

[11] N. Vassalli, “Filosofia della scienza”, pp. 124 e 125, ed. Einaudi

[12] S. Zizek, “Meno di niente”, op. cit., vol. secondo, p. 479

[13] M. L. Dalla Chiara e G. Toraldo di Francia, “Introduzione alla filosofia della scienza”, pp. 173-174, ed. Laterza

[14] Op. cit., p. 177

[15] A. Costantini, “Creata una particella esotica con quattro quark charm”, 11 luglio 2020, in tech.everyeye.it; “Quark explosion, fusione potente che non possiamo sfruttare”, in tomshw.it; “INFN: LHCb ha osservato i penta quark”, in astrocometal.blogspot.com

[16] “Scoperta nuova particella esotica al CERN, composta da 4 quark charm”, 1 luglio 2020, in notiziescientifiche.it

[17] S. King, “L’ultimo cavaliere”, p. 238, ed. Sperling & Kupfer

[18] M. L. Dalla Chiara, op. cit., p. 180

[19] J. Owen Weatherall, “La fisica del nulla”, p. 109, ed. Bollati Boringhieri

[20] G. Tonelli, “La nascita…”, op. cit., p. 42

[21] Gorgia, “Sul non essere”

[22] H. P. Lovecraft, “La città senza nome”, in “Opere complete”, p.62, ed. Sugarco

[23] P. Greco, “Quanti”, pp. 282-283 ed. Carocci

[24] P. Greco, op. cit. pp. 305-306

[25] C. Rovelli, “Helgoland”, p. 163, ed. Adelphi

[26] E. Barone, Discussione sull’articolo di Paolo Pecere, “La meccanica quantistica, la realtà fisica, la mente umana”, 24 settembre 2020, in http://www.sinistrainrete.info

[27] P. Pecere, “La meccanica quantistica, la realtà fisica, la mente umana”, 18 settembre 2020, in http://www.sinistrainrete.info

[28] C. Mangione, “Scienza e filosofia”, pp. 116 e 124, ed. Garzanti

[29] Op. cit., p. 209

[30] P. Impara, “Il pensiero filosofico prima di Socrate”, pp. 56-57 e 77, ed. Armando

[31] F. Fronterotta, “Aristotele, Metafisica”, in http://www.filosofiainmovimento.it

[32] D. Hoffman, “L’illusione della realtà: Come l’evoluzione sul mondo che vediamo”, p. 159, ed. Bollati Boringhieri

[33] F. Bussola, “Il gatto di Schrödinger”, in http://www.francescobussola.it

[34] R. McCormick, “The nobel prize-winning inventor of the laser dies at 99”, 29 gennaio 2015, in theverge.com

[35] J. L. Arsuaga, “I primi pensatori e il mondo perduto di Neanderthal”, ed. Feltrinelli

[36] G. Lukács, “La distruzione della ragione”, op. cit., p. 100; A. Smirov, “La filosofia mistica e la ricerca della verità, in http://www.estorest.net; S. Veca, “L’immaginazione filosofica”, p. 29, ed. Feltrinelli; G. De Michele, “Filosofia”, pp. 14 e 15, ed. Ponte alle Grazie

[37] L. Arena, “La filosofia cinese”, op. cit., p. 20

[38] S. Zizek, “Meno di niente”, op. cit., vol. primo, p. 54

[39] W. Irwin, “Pillole rosse”, p. 3, ed. Bompiani

[40] R. Sidoli, D. Burgio, L. Leoni, “Pitagora, Marx e i filosofi rossi”, Prefazione, in http://www.robertosidoli.net

[41] P. Masini, “Ogni morte… ogni volta unica: la fine del mondo”, 15 luglio 2009, in prismi.wordpress.com

[42] V. Ferro, “The Moody Blues/Days of future passed”, 24 febbraio 2016, in psycanprog.com

[43] G. W. Hegel, “Scienza della logica”, vol. primo, p. 155, ed. Laterza

[44] V. I. Lenin, “Quaderni filosofici”, p. 206, ed. Einaudi

[45] R. Havemann, “Dialettica senza dogma”, pp. 59-60, ed. Einaudi

[46] V. I. Lenin, “Quaderni filosofici”, op. cit., p. 347

[47] C. J. Preston, “L’età sintetica”, pag. 23, ed. Einaudi