Archivi Mensili: gennaio 2016

CAPITOLO QUARTO Mosca, Pareto e Orwell: l’elitismo borghese nell’epoca imperialistica.

Con l’interessante produzione teorica di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto ci spostiamo in piena “linea nera” filosofica, dato che i due pensatori italiani in via d’esame costituirono un serio e prestigioso punto di interconnessione politico-filosofica tra il liberismo borghese dell’Ottocento e le tendenze apertamente reazionarie, di matrice fascista a partire dal 1921, che attraversarono e conquistarono una parte significativa dei ceti privilegiati occidentali durante la prima metà del Novecento.

Gaetano Mosca nacque a Palermo da una famiglia borghese nel 1858 e morì nella Roma fascista nel 1941, attraversando gli otto decenni che portarono la storia italiana dall’unificazione della penisola nel 1859-70 fino alle tragiche e criminali avventure dell’imperialismo fascista in Spagna, Grecia e Unione Sovietica: decenni di esperienza politico-sociali contraddittorie e a volte tumultuose, che fin dal 1883 e dal suo celebre “Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare” contribuirono a ispirarlo nella sua importante e lucida “teoria delle classi politiche” e nel suo esplicito elitismo politico, di  matrice intrinsecamente borghese e dichiaratamente anticollettivistica, antisocialista.

La tesi di partenza di Mosca risulta allo stesso tempo semplice e creativa.

Criticando infatti, nella sua analisi sulla struttura e le dinamiche del potere politico, la tripartizione aristotelica delle diverse forme di governo (e cioè il trittico composto da monarchia, oligarchia e democrazia), egli sostenne invece che esisteva da sempre una sola e unica forma di governo e di classe politica, e cioè l’oligarchia.

Mosca fece tale affermazione perché sostenne simultaneamente che in qualunque società sussistono e si riproducono due classi fondamentali di persone, i governanti – che sono le élite che detengono il potere politico – e i governati, il  resto della società privo di potere politico.

Tali élite, denominate da Mosca con il termine di classe politica, hanno come loro fine principale il processo di autoriproduzione a breve e lungo termine della loro posizione politica dominante: secondo il filosofo e teorico della politica siciliano, esse cercano infatti sempre di conservare il dominio politico e di tutelare i loro particolari interessi, anche utilizzando a tal fine i mezzi statali a loro disposizione.

In base a tale presunta legge, eterna e ineliminabile, dell’autoconservazione delle élite Mosca ritenne che ideologie e pratiche sociopolitiche come la democrazia, il parlamentarismo e soprattutto il socialismo-marxismo costituissero solo delle mere utopie, utili e comode al fine di legittimare la lotta per l’acquisizione o il mantenimento del potere politico da parte di alcune e particolari “classi politiche” e gruppi organizzati contro i detentori del potere in una certa fase storica.

Cercando coscientemente di  ridurre l’influenza crescente del pensiero e pratica politica socialista, che in Germania fin dal 1875 aveva portato alla costituzione di un serio e ben strutturato partito socialdemocratico in via di crescente sviluppo, Mosca notò non a caso che via via erano emersi due casi ricorrenti nei multiformi processi politici apparentemente in contrasto con la sua tesi, e cioè:

  • la presenza di un solo uomo al comando;
  • la rimozione del potere delle élites dalla massa, spinta dal malcontento popolare.

Rispetto al primo caso, Mosca notò anche che “l’autocrazia si basa in ogni caso su una classe politica: chi è a capo del governo non si può muovere contro la classe politica, in base al principio dell’organizzazione. Nel secondo caso, invece, la massa nonostante che crede di poter scalzare definitivamente un élite, emanerà di nuovo una ristretta classe politica, perché senza classe politica non si governa”.

Mosca pertanto dichiarò che “è vero, come ci ha insegnato Karl Marx che la storia dell’umanità è una storia di lotta, ma non si tratta di lotta economica, bensì di lotta politica. È lotta tra una minoranza che vuole continuare ad essere classe politica, e un’altra minoranza che aspira a diventarlo”.

In terzo luogo, Mosca sviluppò una concezione peculiare del primato della “classe politica” e dell’élite politica in base alla quale quest’ultima “distinta per alcune qualità speciali, coordinata e agente sempre con tutte le forze sopra gli individui isolati e disgregati, assorbendo una parte delle loro risorse economiche e delle loro forze materiali ed impiegandole e suo pro, riesce a rendere la sua azione potente e irresistibile. […] Coloro i quali fanno parte della classe politica [hanno] la passione naturale dell’uomo per il potere e pei vantaggi che vi vanno annessi. Gli obbediscono perché ne sentono la superiorità, della quale necessariamente subiscono l’influenza; pure appunto per questa ragione, oltre all’incalcolabile prestigio che dà alla classe politica la sua coordinazione e organizzazione, gli elementi che la compongono devono distinguersi per una specie di superiorità inerente alle loro persone”.

Da dove derivi tale “superiorità” Mosca non lo spiega, se non in astratti e confusi termini storici: “la classe politica si va costituendo mercé la riunione dei capi ed i capi nello stato barbaro e selvaggio sono i più forti, i più valorosi, così il valor militare viene a essere i criterio di reclutamento della classe dominatrice; poi lo sviluppo della cultura intellettuale e della ricchezza vanno creando i mezzi per i quali [i pochi] si possono imporre ai molti”.

La diseguaglianza a suo avviso emerge dunque, prima tra i più forti e i più valorosi e poi tra i più colti e i più ricchi, da una parte, e coloro che lo sono invece meno dall’altra. La minoranza all’interno dei primi è quella dei “governanti” mentre la grande maggioranza dei secondi costituisce la classe dei “governati”, secondo le due uniche categorie politiche che Mosca ritiene essenziali”[1].

Oltre a questa filosofia, mutuata anche da Nietzsche e imperniata sulla disuguaglianza naturale tra gli uomini, e alla simultanea tesi sul surplus di potenza garantito dall’organizzazione e dal coordinamento della praxis di una serie di individui, Mosca analizzò inoltre i caratteri generali della carsica lotta tra diverse élite notando che essa avveniva non per questioni ideologiche o di reddito/ricchezza, ma viceversa tra due tipologie di classi politiche così individuabili:

  • quella che detiene il potere, che Mosca chiama “materiale”, ovvero la  “classe burocratica” che detiene il potere;
  • quella che detiene invece il potere “intellettuale”.

Chi detiene il potere “intellettuale” aspirerebbe ad ottenere quello “materiale”, mentre a sua volta chi detiene il potere “materiale” necessita di giustificarlo “mercé il sussidio di qualcuna almeno delle forze intellettuali o  morali”, e quindi mediante compromessi e concessioni al gruppo “intellettuale”.

L’insieme di questi due gruppi viene da lui definita come “classe politica”.

In ogni caso, almeno secondo il filosofo siciliano, l’organizza-zione politica e le sue modalità di legittimazione non costituiscono “una pura e semplice mistificazione”, ma viceversa un principio di legittimità che si basa sulla natura umana, propensa a credere “che si obbedisca piuttosto a un principio astratto, che a una persona la quale vi comandi perché ne ha le attitudini”, più nello specifico la tesi del governo della maggioranza costituisce a suo avviso una formula razionale che si distingue da quelle che si fondano sul soprannaturale, come ad esempio il diritto divino dei re.

I limiti e le lacune della teoria elitaria di Mosca risultano subito evidenti e facilmente individuabili.

In primo luogo Mosca, per evidenti ragioni di classe, evita completamente di effettuare anche una sommaria analisi delle élites economiche e della loro influenza, diretta o mediata, in campo politico e nei confronti dell’apparato statale; in questo settore le tesi di analisti come Wright Mills, o anche di politici come Eisenhower con la sua lucida individuazione del peso crescente del “complesso militar-industriale”, distanziano e superano di anni-luce lo scarno ed esile processo di focalizzazione teorica di Mosca sulle élite nelle società classiste.

Inoltre risulta assente, e sempre non per caso, nella teoria delle élite di Mosca la categoria decisiva del rapporto costante che si riproduce tra élites politiche e classi sociali di cui le prime rappresentano interessi generali (o particolari) e prospettive sociali delle seconde: la fondamentale relazione che si riproduce costantemente tra mandatari politici e mandatari sociali non si presenta in alcun modo nella teorizzazione di Mosca.

Anche se nell’Italia post-risorgimentale la connessione e la simbiosi quasi costante tra gruppi politici dirigenti e borghesia-aristocrazia fondiaria si mostrava particolarmente evidente, il teorico siciliano evitò invece con cura di entrare in questa materia scottante: anche solo la semplice ed elementare focalizzazione sul nesso sociale esistente, seppur in forme sempre variabili, tra élite-gruppi partiti e determinate classi-gruppi sociali, di cui i primi curavano e difendevano gli interessi generali e/o corporativi, avrebbe infatti subito ed inevitabilmente fatto esplodere le contraddizioni intrinseche nella storia elitaria di Mosca, evidenziando come essa copriva cosciente-mente e nascondeva volutamente il “cuore” di tutti i sistemi politici classisti: e cioè il sostegno e la cooperazione reciproca che si riproduce costantemente tra élite politiche (anche di tipo militare) dominanti e gruppi sociali dominanti, tra governanti e ricchi, tra governanti e classi sociali privilegiate.

L’analisi elaborata da parte di Lenin sulla funzione e sul ruolo specifico svolto dalle avanguardie e dai partiti politici si dimostrò non a caso di livello nettamente superiore e più sofisticato di quella espressa dal teorico palermitano, quando il grande rivoluzionario russo prese in esame la concreta connessione esistente e via via riprodottasi all’interno delle società classiste (e di quelle socialiste-deformate) tra masse, classi, partiti e leader politici.

Nel suo splendido e geniale libro intitolato “L’Estremismo, malattia infantile del comunismo”, un vero e proprio gioiello di scienza politica, Lenin sottolineò infatti che “tutti sanno che le masse si dividono in classi, […] che le classi sono dirette di solito e nella maggior parte dei casi, almeno nei paesi civili moderni, dai partiti politici, che in linea generale i partiti politici sono diretti da gruppi più o meno stabili di persone più autorevoli, influenti, esperte, elette ai posti di maggior responsabilità e chiamate capi. Questo è l’abbiccì. Tutto ciò è semplice e chiaro”[2].

Nella breve frase di Lenin, che riassume e sintetizza in modo eccezionale l’abc e i principi più elementari della scienza politica, viene chiaramente sottolineato lo stretto legame e il nesso dialettico di cooperazione seppur con margini di autonomia variabili da ambo le parti, esistente da molti millenni – e tanto più nei tempi moderni – tra determinate classi e determinate élites-partiti politici, visto che questi ultimi rappresentano i mandatari dei primi e li dirigono nel campo della gestione degli affari comuni della società, oltre alla connessione altrettanto dialettica (sempre con margini di autonomia variabili da ambo le parti) che si forma via via tra partiti e dirigenti politici, tra le organizzazioni politiche e i loro leader.

Ma il vero limite dell’analisi di Mosca, difetto che costituisce allo stesso tempo il perno centrale del suo processo di elaborazione filosofica-politica, risulta proprio il corollario indispensabile della sua teoria elitaria: e cioè il carattere non solo inevitabile e necessario delle élite politiche, ma anche la loro sostanziale equivalenza e uniformità, per cui si crea una “notte nera” (Hegel) nella quale tutti i diversi ceti e “classi” politiche si assomigliano, almeno nei loro tratti fondamentale. Anche se la massa beota, e soprattutto la massa socialista può credere e illudersi di riuscire a scalzare le vecchie élite attraverso dei processi rivoluzionari, secondo Mosca essa non farà altro che produrre in modo inevitabile dei nuovi padroni e delle nuove élites dominanti, cambiate solo di “colore” e di ideologia rispetto alle precedenti. Si tratta di un’analisi di Mosca che risulta ovviamente un’arma di classe della borghesia contro il crescente movimento socialista di fine Ottocento e inizi del Novecento, e cioè un astuto strumento ideologico teso a produrre alienazione disincanto nelle masse inquiete e negli intellettuali progressisti verso i loro reali (o potenziali) mandatari politici, nei confronti del partiti socialisti e del marxismo.

“È inutile ribellarsi, visto che non cambierà mai niente in campo politico, se non il colore delle nuove élite dominanti”: questa è l’architrave reale del messaggio e dell’ideologia politica di Mosca, anche se essa venne collegata simultaneamente a un esame almeno in parte realistico rispetto alle dinamiche concre-te dei sistemi politici – ivi compreso quello parlamentare e democratico borghese – operanti all’interno delle società classiste, e in particolar modo di quelle capitaliste.

Il messaggio politico e l’ideologia classista di Mosca, con la sua apologetica indiretta ma efficace delle classi dominanti e della borghesia, venne in seguito ripresa e popolarizzata anche da altri autori e pensatori, che ne svilupparono e declinarono una serie di varianti di “sinistra” e apparentemente anticapitalistiche.

Un primo esempio concreto del “moschismo” di sinistra venne costituito da Robert Michels (1876-1936).

Dopo aver aderito alla socialdemocrazia tedesca ed essersi trasferito in seguito in Italia Michels elaborò ed espresse nel 1911, nel suo libro “Sulla sociologia dei partiti politici”, la cosiddetta “legge di ferro delle oligarchie”, attraverso la quale egli sottolineò esplicitamente, e non certo in termini elogiativi, che anche all’interno dei “partiti sovversivi” moderni e delle forze politiche marxiste e “socialiste rivoluzionarie” si esprime-vano delle chiarissime “tendenze all’oligarchia”, in modo sostanzialmente identico alle dinamiche di funzionamento nei “partiti conservatori”. Ancora una volta “tutte le vacche diventavano nere” e quasi identiche nella “notte nera” dell’ “oligarchia politica” in una tesi dagli evidenti risvolti qualunquisti e che spiega almeno in parte il successivo passaggio di Michels nelle file fasciste, dopo il 1921.

Nella sua “Sociologia del partito” fu proprio lo stesso Michels a sintetizzare con efficacia la sua particolare – e allora “di sinistra” – concezione generale politica elitista,  sottolineando che “la forma democratica su cui si basa la vita dei partiti politici fa prendere facilmente abbaglio sull’inclinazione all’aristocrazia o per dir maglio, all’oligarchia, a cui soggiace l’organizzazione d’ogni partito. Il campo d’osservazione più adatto ed efficace a chiarire tale tendenza ci è offerto appunto dall’intima essenza dei partiti democratici e, fra questi, dal partito operaio socialista rivoluzionario. Nei partiti conservatori le tendenze all’oligarchia si manifestano con quella naturale schiettezza che corrisponde al carattere oligarchico per principio, di tali partiti. Ma anche nei partiti sovversivi appare il medesimo fenomeno, con evidenza non minore. Il constatare simili tendenze in questi ultimi è un dato di ben maggiori rilievo per l’immanente presenza di tratti oligarchici in ogni aggregato umano costituitosi per raggiungere scopi di ordine che essa compie, ha bisogno di organizzazione tanto nel campo economico che in quello politico. La tendenza burocratica e oligarchica assunta dall’organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d’una necessità, tecnica e pratica. Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell’organizzazione. Il moderno partito politico è altresì un’organizzazione di guerra. Come tale, esso deve piegarsi alle leggi della tattica. Ora, la legge fonda-mentale della tattica è la prontezza alla battaglia, la indefessa preparazione della lotta.

Senonché democrazia e prontezza sono concetti assolutamente inconciliabili. Così adunque, per motivi d’indole tecnico-amministrativa e di tattica, si forma un corpo direttivo di professione, il quale sulla base di procure, accudisce da padrone agli affari della massa. Le masse delegano un piccolo numero di singoli individui che le rappresenta permanentemente. Ora l’inizio della formazione di un corpo direttivo di professione denota il principio della fine della democrazia. E ciò in prima linea per la logica in possibilità dello stesso concetto di rappresentanza. Rousseau e i socialisti francesi della metà del XIX secolo hanno enunciato una profonda verità quando sostenevano che una massa che deleghi la propria sovranità, ossia la conferisca ad un esiguo numero di individui, abdica alla sovranità. Ciò vale in grado ancor maggiore per un epoca ove la vita politica assume forme ogni giorno più complesse e quindi ogni giorno più insensato diventa voler “rappresentare” una massa di tutte le miriadi dei più svariatissimi problemi. Rappresentare significa spacciare la volontà d’un singolo per volontà d’una massa. Una rappresentanza prolungata significa senz’altro il dominio dei rappresentanti” politici, anche se si presentano come “partiti sovversivi” e “democratici”[3].

Un altro caso interessante e conosciuto a livello di massa di “moschismo” di sinistra venne espresso dall’inglese E. A. Blair, meglio conosciuto come George Orwell, nel suo osannato libro “1984”.

Spiegando la teoria e la pratica del “collettivismo oligarchico” propria dell’orrendo regime imperniato sulla figura del “Grande Fratello”. Orwell copiò in larga parte Mosca quando espose una teoria e filosofia generale della storia allo stesso tempo qualunquista ed elitaria.

Orwell notò infatti che “nell’intero corso del tempo, forse a partire dalla fine del  neolitico, sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Essi si sono ulteriormente suddivisi, ricevendo un numero infinito di nomi diversi, mentre la consistenza di ogni singolo gruppo, così come l’atteggiamento di un gruppo verso l’altro, hanno conosciuto cambiamenti di epoca in epoca. La struttura fondamentale della società è però rimasta inalterata. Perfino dopo svolgimenti enormi e dopo mutamenti all’apparenza irreversibili, questo schema si è costantemente riproposto, come un giroscopio che, in qualunque direzione e con qualunque forza lo si spinga, ritorna sempre in perfetto equilibrio…

Gli obiettivi di  questi tre gruppi sono assolutamente inconciliabili fra loro. Lo scopo principali degli Alti è quello di restare al loro posto, quello dei Medi di mettersi al posto degli Alti. Obbiettivo dei bassi, sempre che ne abbiano uno (è infatti una caratteristica costante dei Bassi essere troppo disfatti dalla fatica per prendere coscienza, se non occasionalmente, di ciò che esula dalle loro esistenze quotidiane), è invece l’abolizione di tutte le distinzioni e la creazione di una società in cui tutti gli uomini siano uguali fra loro. In tal modo nel corso della storia si ripropone costantemente una lotta sempre uguale a se stessa nelle sue linee essenziali. Per lunghi periodi si ha l’impressione che gli Alti siano saldamente al loro posto, ma prima o poi giunge il momento in cui o smarriscono la fiducia in se stessi, o perdono la capacità di governare, o si verificano entrambe le cose. Sono allora rovesciati dai Medi, che attirano i Bassi dalla loro parte fingendo di lottare per la giustizia e la libertà. Conseguito il loro obiettivo, i Medi ricacciano i Bassi alla loro condizione di servaggio, diventando a loro volta Alti. Ben presto da uno dei due gruppi rimanenti, o da entrambi, ne germina uno nuovo di Medi, e la lotta ricomincia da capo. Dei tre gruppi, soltanto quello dei Bassi non riesce mai a realizzare i propri fini, nemmeno temporaneamente. Sarebbe eccessivo sostenere che nel corso della Storia non ci siano stati miglioramenti materiali di alcun genere. Perfino in un periodo di decadenza quale quello attuale, l’uomo medio si trova in condizioni materiali migliori rispetto a qualche secolo fa. Ma nessun incremento nel benessere, nessun addolcimento dei consumi, nessuna riforma o rivoluzione hanno minimamente favorito l’uguaglianza fra gli uomini. Dal punto di vista dei Bassi, ogni mutamento storico ha prodotto solo un cambiamento per quanto riguardava il nome dei loro padroni. Alla fine del XIX secolo il carattere ricorrente di questo schema era diventato ovvio agli occhi di molti osservatori sorsero allora scuole di pensiero che identificarono la Storia con un processo ciclico e sostennero con forza l’idea che l’ineguaglianza fosse  una legge inalterabile della vita. Una simile teoria aveva sempre avuto i suoi sostenitori, naturalmente, ma era stato introdotto ora un cambiamento significativo nel modo di proporla. In passato erano stati soprattutto gli Alti a farsi assertori della dottrina che proclamava la necessità di una società organizzata gerarchicamente. L’avevano predicata i re, gli aristocratici e i loro parassiti, vale a dire preti, giuristi e personaggi consimili, in genere mitigandola con la promessa di una ricompensa post mortem. Nel corso delle varie lotte per la conquista del potere, i Medi avevano sempre utilizzato termini come libertà, giustizia e fratellanza. Ora, però, il concetto di fratellanza fra gli uomini cominciò ad essere attaccato da persone che non avevano ancora posizioni egemoni, ma coltiva-vano semplicemente la speranza di giungervi quanto prima. In passato i Medi avevano fatto delle rivoluzioni sotto la bandiera dell’uguaglianza, salvo poi imporre una nuova tirannia non appena quella vecchia era stata abbattuta. I nuovi gruppi Medi, invece, manifestavano in anticipo le loro intenzioni tiranniche.

Il Socialismo, una teoria apparsa all’inizio del XIX secolo, ultimo anello  di una catena di pensiero che risaliva all’indietro fino alle rivolte degli schiavi del mondo antico, era ancora profonda-mente imbevuto delle tendenze utopistiche del passato. Eppure, in tutte le varianti del Socialismo che comparvero all’incirca dal 1900 in poi, il fine di stabilire la libertà e l’uguaglianza venne negato in maniera sempre più aperta. I nuovi movimenti che fecero la loro comparsa durante la metà del secolo, e cioè il Socing in Oceania, il Neobolscevismo in Eurasia e il Culto della Morte, come lo chiamano in Estasia, perseguiva in maniera del tutto conscia il fine della mancanza di libertà e della ineguaglianza. Ovviamente questi nuovi movimenti si generarono da quelli precedenti, il più delle volte serbandone il nome e difendendone formalmente l’ideologia. Tutti, però proseguivano lo scopo di arrestare il progresso e congelare il divenire storico. La ben nota oscillazione del pendolo doveva verificarsi per una volta ancora, poi il pendolo si doveva fermare. Come al solito, gli Alti dovevano essere cacciati dai Medi, stavolta, però, in conseguenza di una strategia ben programmata, gli Alti sarebbero riusciti a mantenere le loro posizioni per sempre”[4].

Il passo in oggetto risulta relativamente famoso ancora ai nostri tempi, con il feroce attacco al “neobolscevismo” (derivato da Lenin, oltre che da Stalin): meno conosciuto risulta invece un brano successivo nel quale Orwell espose, per via mediata, il suo unico approfondimento creativo alle tesi di G. Mosca, notando che proprio l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione permetteva la conservazione nel lungo periodo dell’odiosa oligarchia del “Grande Fratello” e dei suoi gerarchi. In pratica Orwell riuscì nella notevole impresa di scavalcare a destra, in senso qualunquista e reazionario, il già di per sé con-servatore Gaetano Mosca sostenendo che proprio l’abolizione della proprietà privata e il “crollo del capitalismo” aveva prodotto un nuovo regime, quello del “socing”, nel quale “l’ineguaglianza economica è diventata permanente”.

Con una fraseologia apparentemente “radicale” e di sinistra, Orwell cercò – con un certo successo, tra l’altro – di inculcare nella testa degli operai e degli intellettuali progressisti che il “crollo del capitalismo” – parole testuali di Orwell – avrebbe pro-vocato solo un male peggiore e un sistema sociopolitico ancora più diseguale e ingiusto del capitalismo: e per non lasciare spazio ad alcun dubbio, Orwell sottolineò che proprio il “socing”, il nuovo tirannico regime con a capo il Grande Fratello, non aveva “fatto altro che tradurre in pratica l’istanza di fondo del Socialismo, con il risultato, scientificamente previsto e programmato, che l’ineguaglianza economica è diventata permanente”.

Sono sempre parole testuali di Orwell, il cui “risultato”, “scientificamente previsto e programmato” in anticipo dallo scrittore inglese, non poteva che essere uno solo: “ribellarsi al capitalismo, e soprattutto rovesciarlo, non solo non è giusto ma provoca solo dei disastri peggiori di quelli causati in precedenza dalla borghesia”.

In altri termini: “non c’è alternativa”, positiva e liberatoria, al capitalismo, come affermò in seguito anche la signora Thatcher.

In altri termini: l’«abolizione della proprietà privata» determina necessariamente che “l’ineguaglianza economica” diventi “per-manente” (Orwell) e ancora peggiore che nel capitalismo.

Leggiamoci assieme il passo in questione, degno di entrare a pieno titolo in un antologia del pensiero conservatore di matrice borghese. Dopo aver sottolineato che dopo “la fase rivoluzionaria”, che portò al potere il socing, la “nuova” società “si ricompattò, come al solito, nei gruppi degli Alti, dei Medi e dei Bassi” (ancora una volta ritorna il “moschismo”…), Orwell affermò che “stavolta, però, e a differenza di quelli che li avevano preceduti, gli Alti sapevano perfettamente come agire per conservare le proprie posizioni e non fecero il benché minimo affidamento all’istituto. Si era ormai capito da tempo che solo il collettivismo poteva garantire all’oligarchia il suo potere. Il benessere e il privilegio si difendono meglio quando sono un bene comune. Con la cosiddetta “abolizione della proprietà privata”, introdotta intorno agli anni ’50, si intendeva in realtà la concezione della proprietà in mani molto meno numerose che in passato, con questa differenza: che i nuovi padroni non erano più una massa di individui, ma un gruppo ristretto. Preso individualmente, nessun membro del Partito possiede nulla, a esclusione di insignificanti effetti personali. Collettivamente, però, in Oceania il Partito possiede tutto, perché controlla ogni cosa, disponendo dei beni di produzione come meglio gli aggrada. Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione era possibile assurgere a questa posizione di dominio senza eccessive difficoltà, perché l’intero processo veniva presentato come un processo di collettivizzazione. Si era sempre tenuto per certo che l’eventuale crollo del capitalismo avrebbe prodotto automaticamente il Socialismo. Sul fatto che i capitalisti fossero stati sconfitti non c’era dubbio: le fabbriche, le miniere, la terra, le case, i trasporti, tutto era loro stato sottratto e, poiché questi beni non erano più proprietà privata, ne conseguiva che dovessero essere pubblici. Il Socing, che sorse dai primi movimenti socialisti e ne ereditò la fraseologia, non ha fatto altro che tradurre in pratica l’istanza di fondo del Socialismo, con il risultato, scientificamente previsto e programmato che l’ineguaglianza economica è diventata permanente”[5].

Viste tali posizioni politiche, non risulta certo casuale che il “piccolo fratello” di nome George Orwell fornì un aiuto servizievole agli uffici statali britannici, stilando una lista nera su tutta una serie di intellettuali di sinistra nell’Inghilterra del 1948/49: ma anche la venuta alla luce di tale fatto eclatante non ha finora scosso sostanzialmente la fama di Orwell tra il popolo della sinistra, che pur si autorappresenta come colto e smaliziato[6].

Non risulta certo casuale che il “progressista” George Orwell abbia espresso delle posizioni ideologiche e una visione del mondo molto simile non solo a quella di Mosca, ma anche alle teorie elitarie di matrice borghese che vennero sviluppate da Vilfredo Pareto. Un pensatore politico iperconservatore che, partendo da posizioni liberali, effettuò apertamente una scelta di campo fascista nel 1921-23, appoggiando senza troppi problemi la sanguinosa azione anticomunista e antioperaia del fascismo, armato da agrari e industriali, e arrivando nel novembre del 1922 fino al punto di rendere “lode grandissima all’onorevole Mussolini” per avere allontanato “il pericolo della cosiddetta dittatura del proletariato”[7].

Accanito avversario del socialismo, ostile all’introduzione al suffragio universale visto come nuovo strumento di pressione delle temute masse popolari e fiducioso invece nelle virtù del liberismo e del libero mercato, Pareto sviluppò una teoria della “circolazione delle élite” a cui si ispirò Orwell e secondo la quale le società presentano invariabilmente una struttura elitaria, visto che le masse sono incapaci di governarsi da sole.

Vista la legge naturale ed eterna, almeno a giudizio di Pareto, della competizione e della selezione dei più forti, al pari delle nazioni le diverse élite sono destinate invariabilmente ad ascendere e poi a decadere, in un processo di “circolazione” e di ricambio reciproco che a suo avviso non può conoscere fine. I popoli, sostenne Pareto sulla “Rivista italiana di sociologia” del luglio del 1900, ad eccezione di brevi periodi di tempo, sono sempre guidati da un’aristocrazia, intendendo questo termine come indicativo dei più forti, dei più energici, dei più capaci sia nel positivo sia nel negativo. Ma per legge fisiologica le aristocrazie non reggono all’onda lunga e perciò la storia umana procede “mentre una gente sale e l’altra cala. Tale è il fenomeno reale, benché spesso a noi appaia sotto altra forma. La nuova aristocrazia, che vuole cacciare l’antica o anche solo essere partecipe dei poteri e degli onori di questa, non esprime schiettamente tale intendimento, ma si fa capo a tutti gli oppressi, dice di voler procacciare non il bene proprio ma quello dei più: e muove all’assalto non già in nome dei diritti di una ristretta classe, bensì in quello dei diritti di quasi tutti i cittadini. S’intende che, quando ha vinto, ricaccia sotto il giogo gli alleati o al massimo fa loro qualche concessione di forma. Tale è la storia delle contese dell’aristocrazia, della plebs e dei patres a Roma; tale, fu ben notata dai socialisti moderni, è la storia della vittoria della borghesia sull’aristocrazia di origine feudale”[8].

Pareto notò nel corso del 1916 come la storia fosse un flusso continuo di lotte fra élite, oltre a un vero e proprio “cimitero di élite” e di “aristocrazie politiche” che, dopo aver brillato per un periodo più o meno lungo, decadevano e venivano distrutte da altri concorrenti politici.

“Le aristocrazie non durano. Qualunque ne siano le ragioni, è incontrabile che dopo un certo tempo spariscono. La storia è un cimitero di aristocrazie. Non è solo per il numero che certe aristocrazie decadono, ma anche per la qualità, nel senso che in esse scema l’energia. La classe governante viene restaurata non solo in numero, ma, ed è ciò che più preme, in qualità dalle famiglie che vengono dalle classi inferiori, che recano in essa l’energia necessaria per mantenersi al potere. Ove uno di questi cessi e, peggio ancora, se cessano entrambi, la parte governante si avvia verso la rovina, che spesso trae seco anche quella dell’intera nazione. È causa potente di turbamento dell’equilibrio l’accumularsi di elementi superiori nelle classi inferiori, e, viceversa, di elementi inferiori nelle classi superiori. Per via della circolazione delle classi elette, la classe eletta di governo è in uno stato di continua e lenta trasformazione, essa scorre come un fiume e questa d’oggi è diversa a quella di ieri. Ogni tanto si osservano repentini e violenti turbamenti come sarebbero le inondazioni di un fiume e, dopo la nuova classe eletta di governo torna a modificarsi lentamente: il fiume, tornato nel suo letto, scorre di nuovo regolare. Le rivoluzioni seguono perché, sia per il rallentarsi della circolazione della classe eletta, sia per altra causa, si accumulano negli strati superiori elementi scadenti che rifuggono dall’uso della forza, mentre crescono negli strati inferiori gli elementi di qualità superiore che sono disposti ad adoperare la forza”[9].

In questa girandola multicolore di lotte di élites, non cambiava tuttavia secondo Pareto lo status concreto delle “classi inferiori”, che al massimo potevano aspirare a vedere elevarsi alcuni dei loro “elementi superiori”, senza in ogni caso acquisire livelli crescenti di consapevolezza e maturità politica, di organizzazione e partecipazione collettiva al processo di gestione degli affari co-muni della società.

Nella visione politico-filosofica di Pareto, tutto cambiava, meno che… le cose essenziali e fondamentali, a partire dal dominio sociopolitico esercitato dalle élite privilegiate di diversa provenienza e “colore” politico.

  1. Lukàcs aveva notato giustamente che, dopo il 1870/1880, la proteiforme ideologica borghese aveva adottato principalmente il metodo dell’apologetica indiretta rispetto al sistema capitalistico, sostenendo che le caratteristiche “sgradevoli” di quest’ultimo risultavano certo innegabili, ma in ogni caso inevitabili e connesse alla “natura umana” e/o a (presunte) leggi “eterne” dell’azione della nostra specie.

“L’ideologia borghese è entrata nell’ultimo secolo XIX, in una fase dell’apologetica del capitalismo. La dottrina dell’armonia sostenuta dall’economia volgare, come pure la dottrina della crescita organica nella sociologia atteggiata a scienza ideologica, si sono rivelate insufficienti, anzitutto ai fini della lotta contro le idee socialiste, e sono rimaste inefficaci su vaste cerchie di quel pubblico a cui la sociologia borghese rivolgeva il suo appello. La ragione di questo insuccesso della dottrina dell’armonia sostenuta dall’economia volgare, come pure dalla sociologia organica, risiede nell’aggravarsi delle contraddizioni del capitalismo e nell’acuirsi delle lotte di classe che ne consegue; fatti questi che si manifestano con sempre maggiore violenza e svelano sempre più chiaramente  l’inconsistenza della dottrina dell’armonia.  Se il capitalismo deve essere giustificato come il miglior sistema economico e sociale che si possa pensare, se la sociologia – come è costretta a fare in quanto scienza apologetico borghese – deve condurre a una conciliazione col sistema capitalistico e persuadere i dubbiosi sull’impossibilità che esso venga superato, le contraddizioni e specialmente gli aspetti inumani del capitalismo non possono più essere negati e taciuti, ma debbono essere necessariamente presi come punto di partenza dall’apologetica. Insomma: mentre finora l’apologetica del capitalismo ne negava i “lati cattivi”, la nuova apologetica prende lo spunto proprio da essi e vuole condurre gli intellettuali borghesi ad approvarli, o almeno ad accettarli come qualcosa che si pretende immodificabile, naturale ed eterno”[10].

Se le tesi politico-filosofiche espresse da Mosca e Pareto costituiscono la variante conservatrice di tale astuta apologetica indiretta, le teorizzazioni elaborate da Michels e Orwell rappresenta a loro volta la versione di “sinistra”, più accettabile per i lavoratori e gli intellettuali progressisti, di un’intelligente opera-zione ideologica della borghesia monopolistica, che non a caso ha dato ampio spazio alle posizioni espresse da E. Blair sia nel suo libro “1984” che nella “Fattoria degli animali”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] G. Mosca, “Sulla teoria dei governi e sul governo parlamentare”, cap. I, ed. Giuffrida

[2] V. I. Lenin, “L’Estremismo: malattia infantile del comunismo”, cap. quinto

[3] G. Galli, “Storia delle dottrine politiche”, pp. 201-202, ed. Mondadori

[4] G. Orwell, “1984”, cap. nono

[5] G. Orwell, op. cit., cap. nono

[6] “La lista nera di Orwell”, 22 giugno 2003, in ricerca.repubblica.it

[7] F. Ferraresi, “Gaetano Mosca”, in http://www.treccani.it

[8] “Pareto”, http://www.filosofico.net

[9] G. Galli, op. cit., pp. 200-201

[10] G. Lukàcs, “La distruzione della ragione”, p. 692, ed. Einaudi