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MODROW, RIZZO E LA FINE DELLA DDR

MODROW, RIZZO E LA FINE DELLA DDR

Nov 22, 2019 | articolo

Centro culturale Concetto Marchesi, Milano, 17 novembre 2019. Iniziativa con Hans Modrow e Marco Rizzo. Si presenta il libro H. Modrow, La perestrojka e la fine della DDR, Come sono andate veramente le cose, Mimesis, Milano-Udine, 2019 [1° ediz. Die Perestroika. Wie ich sie sehe, Edition Ost, Berlin 1998].

Alle 15.08 la sala è gremita e il responsabile chiede che vengano limitati gli accessi. Da una rapida occhiata le presenze si aggirano tra le 150 e le 200 persone. Molti stanno in piedi e alcuni alla fine non riescono proprio ad entrare; ciò nonostante sia stata organizzata la diretta streaming sulla pagina facebook del Partito Comunista – Milano, dove i video rimangono a disposizione dei curiosi.

L’iniziativa, prima ancora di essere iniziata, è già un successo e mostra le potenzialità di un paradigma politico non rinunciatario alla lotta contro il revisionismo storico, che è una lotta anche per ravvivare la riscoperta di un paradigma politico per il presente.

Lo spazio politico c’è insomma.

Nell’introduzione fatta da Manolo Morlacchi, responsabile della casa editrice Mimesis, si precisa che il libro è stato pubblicato originariamente nel 1998, a meno di 10 anni dalla caduta del muro di Berlino. L’opera costituisce la testimonianza dell’ultimo presidente della DDR sulla stagione storica vissuta da protagonista.

Bruno Casati, presidente del centro culturale Concetto Marchesi ricorda il valore storico dei locali della cooperativa Aurora, dove si sta svolgendo l’iniziativa. Siamo nella sala in cui si riunivano i dissidenti del PCI berlingueriano che avrebbe portato ai «sacrifici senza contropartite». Risale ad allora infatti la «presa di posizione del centro» interno al partito e all’intero ceto dirigente italiana; Lipsia era un punto di riferimento per i compagni di Milano, nell’ambito dell’associazione Amici Italia-DDR.

«Noi eravamo addolorati nel 1989 perché avevamo già capito che sulle macerie del muro sarebbe passata la globalizzazione e la guerra. Non abbiamo festeggiato il 9 novembre perché per noi c’è soltanto una data di novembre da festeggiare: il 7 novembre 1917».

Applausi del pubblico.

Coordina il tavolo Morlacchi, che ricorda un breve curriculum di Modrow: studia negli anni ’50 a Mosca economia e alla fine del decennio (1958) diventa parlamentare. Nell’arco della sua vita svolge 61 ruoli dirigenziali per il partito, facendo una severa gavetta. Diventa membro del Comitato centrale della DDR dal 1967 fino al 1989, quando diventa Presidente del Consiglio dei Ministri dal 13 novembre 1989 al 12 aprile 1990.

AVVERTENZA: nel testo che segue il discorso di Modrow è stato riportato nella traduzione fatta in istantanea da un collaboratore. In generale si è cercato il più possibile di riportare la traduzione letterale degli interventi, adattando in certi punti lo stile parlato allo scritto, ma senza modificarne i contenuti sostanziali.

Segue la prima domanda: quali sono le ragioni profonde del crollo repentino, avvenuto in tutta Europa orientale? Perché Cuba e Cina hanno resistito?

Modrow inizia ringraziando per l’invito, poi dopo i convenevoli inizia. Questa la sua riposta:

La questione non è solo storica ma riguarda il presente e il futuro dei nostri paesi. Serve una riflessione collettiva sulle decisioni prese dalla SED. La DDR fu fondata nel 1949. Dal ’45 al ’49 c’erano autorità sovietiche a dettare le condizioni di quel periodo nel paese. Non voglio prendere le distanze dalle decisioni dell’URSS, anzi bisogna ricordare che era prevista l’espropriazione delle banche, delle fabbriche, la collettivizzazione della terra e anche la punizione per i criminali di guerra nazisti per i loro crimini. Bisogna partire da questi elementi per capire gli sviluppi successivi.

Nel 1949 la Germania è stata divisa: a occidente si era creato uno Stato che si presentava come la continuazione dell’antico Reich tedesco. Nella parte orientale nel ’49 pensavamo di compiere una rivoluzione socialista, creando un ordine antifascista e anticapitalista. La decisione fondamentale fu presa al II Congresso della SED nel 1952. Così inizia la costruzione del socialismo.

Quel periodo corrisponde all’inizio della guerra fredda. Ci domandavamo sul rischio che la guerra fredda diventasse una guerra calda. Ciò ha sempre influito molto sui processi politici decisionali della dirigenza.

Lo sviluppo della DDR è caratterizzato dal cambiamento dell’ufficio politico della SED. La prima fase è caratterizzata dalla presenza di Ulbricht fino al 1971, sostituito poi da Erich Honecker che mantiene le redini fino al 1989. C’è stata poi una breve fase di Egon Krenz: dal 24 ottobre 1989 al 6 dicembre 1989.

4 fasi [l’ultima è quella di Modrow, ndr] a cui corrispondono 4 modi di portare avanti la costruzione del socialismo.

È sempre stata importante per noi sempre la solidarietà dei nostri amici nel mondo. Non solo comunisti. Abbiamo sempre lavorato con loro: io ero di Dresda e ho avuto rapporti con Firenze; eravamo uno dei pochi legami con l’Alsazia e Strasburgo (francesi); la SED era presente come partito attivo anche a Berlino ovest e si candidava alle elezioni politiche.

Modrow chiude facendo i ringraziamenti ai compagni presenti e a coloro che hanno dato solidarietà o hanno collaborato con la DDR. Il presente incontro lo considera un’occasione per rinsaldare i legami e capire come si possa collaborare meglio per il futuro, come marxisti e socialisti.

Segue il primo intervento di Rizzo: è giusto fare una riflessione legata a quanto è stata commemorata la caduta del muro dopo 30 anni. Il senso comune ci dice che il comunismo ha fallito, che è un’idea che non c’è più, annichilita dalla Storia. C’è una domanda che dobbiamo porci: se hanno così stravinto perché in questa fase prosegue la campagna propagandistica sulla caduta del muro e sulla svolta della Bolognina? Il PCI ha vissuto una mutazione genetica in un processo collegato ad avvenimenti dell’est Europa. Perché rimarcare questa storia se siamo così sconfitti? Perché il parlamento europeo si è messo a costruire un’analisi storica che equipara comunismo e nazismo? Originale che un parlamento scriva la storia, compito che spetterebbe agli storici. Evidentemente c’è consapevolezza che questa nostra idea di un mondo diverso, non basato sul profitto, oggi, grazie alla tecnologia e alla scienza, potrebbe portare ad un progresso diverso. Forse di questo hanno paura.

Spero che il M5S sia transitorio ma il comunismo rimane l’unico nemico che costituisce un modello di alternativa della società. Sono terrorizzati dalle contraddizioni interne del sistema. L’apologia è il loro modo di reagire a questa crisi. Dobbiamo quindi rispondere. La nostra tesi, come PC, è molto semplice: il socialismo che abbiamo conosciuto non è fallito; è fallita la sua revisione. Dopo il ’56 ci sono stati tentativi di revisionare il socialismo con l’introduzione dell’economia parallela e la decostruzione dell’idea di partito; tutto ciò ha portato a Gorbacev e alla perestrojka. Noi ci rifacciamo alla storia italiana: il partito comunista italiano di Gramsci finisce a Renzi e Zingaretti e Gramsci si rivolta nella tomba. I tentativi del PRC si sono rivelati trascurabili. Il processo di degenerazione parte da lontano: come una foglia di carciofo si è tolta una foglia alla volta: si è cominciato a mettere da parte gli uomini della Resistenza, i loro quadri, poi è arrivato l’eurocomunismo. La terza via non esiste. Sono fallite le socialdemocrazie. L’eurocomunismo è stato un balbettio ma è servito a far cadere il socialismo. L’idea che la democrazia sia un valore universale… Quale democrazia? Quella borghese?!

Se oggi ci fosse l’URSS non sarebbero avvenuti i fatti come quelli della Bolivia o della Libia.

Quando c’era il muro di Berlino non c’era la globalizzazione capitalistica e rimaneva ancora l’articolo 18. L’URSS era un contrappeso. Noi non abbiamo nostalgia. Quelle idee sono oggi ancora più attuali di ieri, grazie alla tecnologia e alla scienza: si può lavorare tutti, meglio. Il socialismo è la società in cui chi produce la ricchezza del paese decide cosa, come, quanto produrre. Siamo gli unici a dirlo nel contesto di una sinistra che resta dentro il mainstream della globalizzazione capitalistica. Hanno cancellato la storia: ad esempio la guerra civile in Spagna. Ci sono ampie omissioni sulle responsabilità inglesi e francesi sull’ascesa della Germania di Hitler. Si pensi all’Austria, ai Sudeti, all’accordo di Monaco…

Hanno cercato di distruggere l’idea del comunismo, l’unica concretizzazione capace di sconfiggere il nazismo. Senza la memoria non c’è futuro.

Morlacchi passa alla seconda domanda sulla perestrojka e sugli eventi dell’ultimo periodo, ricordando come il libro sia un documento storico di valore eccezionale in quanto contiene un resoconto delle riunioni interne al partito. Modrow era all’inizio un sostenitore della perestrojka, ritenuto un processo ineludibile, necessario per riformare una situazione che risultava stagnante. Il ripensamento è radicale e la figura di Gorbacev ne esce con le ossa rotta. Modrow ha avuto diversi colloqui con lui, tracciandone un quadro desolante.

La domanda è: quando Modrow ha capito che Gorbacev era un trucco?

Modrow: il mio libro è stato scritto nel 1998 ed era un momento in cui pensavo fosse importante fare un bilancio di quel che era successo e di riproporre gli ideali del socialismo, coinvolgendo tutte le forze marxiste, comuniste, socialiste, socialdemocratiche, per fare analisi seria degli errori compiuti per evitare di ripeterli in futuro. Le considerazioni sul passato non sono facili. Quando ho scritto il libro non è stata una passeggiata. Ho dovuto farmi forza per analizzare con un certo distacco, con spirito critico e autocritico gli errori e le manchevolezze del nostro sistema. Un confronto fatto con gli altri e con me stesso.

Gorbacev arrivava dopo il susseguirsi di tre segretari del PCUS in pochi anni. Lui era il quarto, giovane, che proponeva cose nuove, innovazioni nel campo della costruzione del socialismo, delle idee; un vento nuovo che non ci lasciava indifferenti nella DDR. Era un discorso interessante.

Nella SED qualcuno non accettava così facilmente queste idee innovative. Pensavano che fosse tutto giusto e che non ci fosse bisogno di riforme. C’era dibattito nel partito.

Noi della DDR avevamo ottimi rapporti con l’URSS, dove mi recavo spesso per consultarmi con amici e compagni. Dal 1987 constatavo un netto declino economico e problemi sociali sempre più marcati. Percepivo un’atmosfera piuttosto critica nei confronti di Gorbacev. Contemporaneamente notavo come nel mondo occidentale Gorbacev venisse visto come il grande eroe, in lotta per la pace e per il cambiamento. Cominciai a pensare di dover portare avanti una riflessione su basi scientifiche. Le mie riflessioni sono un invito a dibattere e confrontarsi.

Rizzo ha iniziato a parlare della caduta del muro ma bisogna prenderla in maniera più larga. Perché era stato costruito il muro? Ci sono dati necessari per trarre adeguate conclusioni finali.

Ero presente a Berlino est il 5 giugno 1961, giorno in cui Chruscev e Kennedy si sono incontrati a Vienna: la questione era se iniziare una nuova guerra per Berlino. Chruscev ha detto a Kennedy di aver visto già tre guerre (1° g.m., guerra civile 1918-21, 2° g.m. a Stalingrado) e di non volerne vedere una quarta. Il muro diventò un modo per garantire la pace da parte dei sovietici.

La creazione di una frontiera che andava dal Mar Baltico fino al Mar Nero è un’operazione che portato più sicurezza e pace in Europa. La costruzione di questa cortina di separazione ha però anche approfondito la guerra fredda. Bisogna tener presente un altro momento storico: nell’agosto 1989 a Bucarest si incontrano i rappresentanti delle nazioni che avevano costituito il patto di Varsavia: Gorbacev dichiara che da questo momento ogni paese del patto può agire secondo la propria ispirazione e non ritiene più i paesi del patto legati dalla solidarietà e responsabilità nei confronti degli altri. Subito dopo l’Ungheria apre le sue frontiere ricevendo come regalo 2 miliardi di marchi tedeschi.

Arriviamo al 9 novembre. Incapacità di alcuni membri della direzione della DDR: alcuni (tra cui Krenz) hanno detto “apriamo le frontiere” senza però dare chiare indicazioni alle guardie di frontiera, che per evitare confusioni le hanno aperte totalmente.

La mia posizione politica in quei momenti: il 17 novembre ’89, una settimana dopo la caduta del muro vengo eletto presidente dei ministri della DDR. Ho dichiarato subito che la DDR non dovesse essere distrutta, doveva continuare ad esistere; ho dichiarato la necessità di mantenere il socialismo ma di avviare riforme per migliorare le condizioni delle masse popolari. Questa posizione era appoggiata dal 70% dei cittadini. Un mese dopo l’80% dei cittadini approvava queste decisioni.

A metà dicembre il ministro degli affari esteri degli USA viene in DDR per confrontarsi con me sul futuro della DDR. Ciò significava riconoscere che la DDR in quel momento veniva ancora considerata uno Stato con tutte le sue funzioni. Il 23 arriva Mitterrand. A gennaio il ministro degli esteri inglese. Con tutti ci siamo rappresentati e confrontati come rappresentanti di Stati sovrani. Gli occidentali non avevano una strategia unica.

Ci sentivamo abbandonati dall’URSS, che non ci dava indicazioni e valutazioni sugli avvenimenti in corso.

Gorbacev incontra Bush a Malta il 2 dicembre ’89: si presenta impreparato senza avere una posizione sulla questione tedesca. Il 4 dicembre incontro Gorbacev e mi rendo conto della sua insicurezza; ho la sensazione che le cose stanno andando male. Qualche giorno dopo avviene il ritrovo del Comecon: ci rendiamo tutti conto (compreso Ceausescu) che l’URSS non era più interessata a mantenere un’integrazione economica dei nostri paesi. Il 30 gennaio incontro con Gorbacev a Mosca: insisto dicendo che DDR deve rimanere unita. Se dovesse avvenire un processo di unificazione con l’altra Germania bisognerebbe prevedere un periodo lungo (4-5 anni) e insistere sul fatto che la Germania unita avrebbe dovuto essere neutrale a livello militare, non aderente cioè alla NATO. Queste le indicazioni che ho dato ai miei collaboratori. Il ministro americano intanto si reca a Mosca e Gorbacev apre all’idea che la Germania unificata possa entrare nella NATO. La Germania federale inizia a muoversi in tal senso. La DDR viene abbandonata e il rapporto di forza lavora contro di noi.

Questione che riguarda l’Europa: si è creato un nuovo rapporto di forze che purtroppo ha portato ad una confusione da un lato, alla mancanza di sviluppo di libertà oltre che allo sviluppo di forze nazistoidi di destra: in Austria, in Germania (dove sono diventati il primo partito di opposizione). Occorre non partire dalle fantasie ma dalla situazione reale, considerando anche lo sviluppo della lotta di classe; occorre intervenire sulle situazioni concrete. Sono stato in Russia per l’anniversario della Rivoluzione e ho parlato con i compagni eredi del PCUS per rinnovare i legami di solidarietà e collaborazione internazionalista.

Il secondo intervento di Rizzo: emerge la responsabilità enorme di Gorbacev, uno che ha tutti gli argomenti per capire in che mondo viva. Oggi in Italia non ci rendiamo conto dell’aggressività dell’imperialismo perché i fatti che ci vengono posti davanti sono tutti da una parte sola. Si dimentica facilmente. Il 99% degli italiani è convinto che la NATO sia nata dopo il Patto di Varsavia. La NATO è un’alleanza politico-militare aggressiva nata nel ’49, il Patto di Varsavia 6 anni dopo. Nessuno sa che il muro di Berlino fosse interno alla DDR, non al confine tra i due Stati. Nessuno conosce le provocazioni che avvenivano quotidianamente a Berlino.

In Germania ovest era stato preservato l’apparato nazista, a seguito del tradimento degli accordi della conferenza di Potsdam che prevedeva l’arresto e il giudizio dei dirigenti del partito nazista; questi invece sono stati inglobati attivamente nei servizi segreti di quei paesi.

Ci ricordano Budapest, Praga. Ma in quegli anni l’imperialismo aveva una forza bestiale. Oggi non lo sappiamo ma all’epoca Gorbacev sapeva. Prende in mano il paese in un contesto di palese difficoltà. Non c’è stato però rinnovamento nella continuità del socialismo ma ha abbandonato tutto; anzitutto ha responsabilità grosse nella scelta dei gruppi dirigenti. Errore che in Italia ha fatto anche Berlinguer. Shevarnadze e Eltsin sono stati cooptati da Gorbacev, che ha messo l’ideologia nelle mani di Jakovlev, uno che al tempo di Breznev era stato mandato in punizione a fare l’ambasciatore per 6 anni in Canada. Jakovlev probabilmente è stato cooptato dai servizi segreti occidentali. Questi tre (Shevarnadze, Eltsin, Jakovlev) fondano un altro partito: Piattaforma democratica.

A quel punto lo Stato cerca nel ’91 di riprendere il controllo ma era troppo tardi. Le infiltrazioni occidentali erano troppo forti. Gorbacev è un traditore, uno che magari non è stato pagato dall’inizio ma che ha tradito le sue idee. A Malta vende la testa di Ceausescu con Bush. In quei paesi non avvengono rivoluzioni colorate; viene selezionato un rapporto specifico tra le polizie segrete di quei paesi. Emergono accordi tra le fazioni interne “gorbacioviane” di quei paesi, in contatto tra loro, che irrompono e destabilizzano i servizi d’ordine locali, che a quel punto crollano.

Luttwak è un politologo vicino alla CIA. In un’intervista ammette di aver finanziato il terrorismo islamico in Afghanistan, perché è servito per distruggere il male costituito dall’URSS, che altrimenti avrebbe trionfato nel mondo.

Ciò si collega a quello che accade in Bolivia e ai limiti del socialismo del XXI secolo in America Latina. Morales ha governato per 15 anni ma non è riuscito a controllare le forze dell’ordine. La democrazia è limitata. Non c’è spazio per chi vuole davvero cambiare il sistema. L’alternanza è solo tra figure compatibili. Il socialismo dal volto umano non esiste. Chi parla di ciò è un incompetente.

Morlacchi ricorda una telefonata di Falin con Gorbacev: «ci stanno accollando il peso dell’annessione. La fusione meccanica di due economie profondamente diverse darà senza dubbio origine a conflitti sociali e ad altri problemi di natura strutturale. Tutti i costi morali e politici saranno attribuiti all’Unione Sovietica e alla sua creatura, la DDR. […] diverse centinaia di migliaia di persone rischiano di essere messe sotto processo».

Gorbacev: «ho capito, vai avanti».

Fallinn: «il minimo su cui occorre insistere è la non partecipazione della Germania a un’organizzazione militare, come per esempio non vi prende parte la Francia [riferimento alla NATO, ndr]. Il minimo del minimo è almeno il non stazionamento di armi nucleari su tutto il territorio tedesco. Secondo i sondaggi, l’84% dei tedeschi è per la denuclearizzazione del paese.

Terzo: tutte le questioni relative alla nostra proprietà, in particolare nella DDR, devono essere risolte prima della firma di qualsiasi accordo politico. Altrimenti, a giudicare dall’esperienza della Cecoslovacchi e dell’Ungheria, ogni questione relativa alle relazioni tra paesi rimarrà imbrigliata in dibattiti senza risultati. I nostri esperti dovranno imparare a fare la contabilità non meno degli americani e, per esempio, quando si solleveranno le questioni ecologiche, dovranno preparare un inventario specifico dei danni ambientali causati dall’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler, nel caso in cui i tedeschi sollevino questioni ecologiche».

Gorbacev: «farò il possibile. Temo che ormai abbiamo perso il treno».1

Domanda di Morlacchi: Honecker non era d’accordo con la perestrojka. Perché il Politburo vota all’unanimità per le dimissioni di Honecker?

Modrow: sono d’accordo con Marco sulla questione di Potsdam. Noi non abbiamo permesso a nessun ex nazista di avere posti di responsabilità nello Stato.

Vorrei parlare di quello che mi è successo dal 1956 al 2012: sono stato posto sotto sorveglianza dai servizi segreti della RFT, che monitoravano 71 mila cittadini della DDR. Certo anche noi facevamo operazioni di sorveglianza: volevamo vedere ad esempio quanti ex nazisti entravano dentro i servizi militari della NATO. Il nostro servizio di sorveglianza doveva garantirci contro un’eventuale aggressione.

Ho intentato una causa contro il governo della repubblica federale tedesca per avere accesso ai dati che mi riguardavano. Non è stato concesso. I servizi non vogliono far sapere che mi spiavano. Conoscere i modi operativi con cui agiscono i servizi potrebbe portare a farmi capire come funzionavano: è a rischio la sicurezza dello Stato federale. La lotta di classe tuttora è in atto. Gli stessi servizi di prima sono quelli di oggi. La lotta di classe non è per niente finita.

Ho voluto avere accesso agli atti non per curiosità ma per potermi confrontare sugli eventi passati. Ad esempio per poter difendere degli agenti della STASI e per capire meglio le dinamiche interne della DDR.

Nel mese di luglio del ’91 ero in Crimea, durante quello che viene chiamato il putch di Mosca. Finora circolano più leggende che fatti reali sugli accadimenti. Rivelare i fatti reali potrebbe meglio dimostrare il tradimento di Gorbacev e dei suoi collaboratori.

Quello che è successo in quei giorni è che già all’inizio di luglio Gorbacev aveva escogitato un nuovo programma per il partito dell’URSS: Gorbacev lavorava ad un suo partito socialdemocratico per poter determinare i futuri governi dell’URSS. Anche un altro punto del programma, rivelato il 20 agosto, prevedeva nuove strutture per l’URSS e i popoli che ne facevano parte. Dopo aver presentato questi punti Gorbacev se ne è andato in ferie in Crimea, lasciando la situazione in mano ai suoi collaboratori.

Il 4 agosto ’91 ho incontrato Janaev, il braccio destro di Gorbacev di quel periodo. Mi ha confermato che era proprio questa l’intenzione di Gorbacev: già nel mese di agosto avrebbe dovuto nascere una nuova confederazione di Stati socialisti, ponendo fine all’URSS. Anche in ottobre ci sarebbe dovuto essere un congresso per trasformare i partiti comunisti in chiave gorbacioviana.

Si è creata a quel punto una situazione molto particolare: né Gorbacev né i “putchisti” hanno preso il potere. Si introduce Eltsin, d’accordo con i rappresentanti della Bielorussia e Ucraina, che gli danno pieno appoggio. Questa presa del potere è stata l’effetto degli errori di Gorbacev, che ha fatto implodere l’URSS. Gorbacev ha tolto la stabilità all’URSS. Cosa ha comportato nel mondo? Una trasformazione dei rapporti di forza: manca poco per vedere le truppe della NATO ai confini con la Russia. I pericoli di guerra da allora sono cresciuti in modo esponenziale a tutte le latitudini ed in ogni area del mondo.

Questa sua incapacità ha fatto sì che il 25 dicembre ’91 la bandiera rossa del Cremlino venisse ammainata, sostituita dalla bandiera della Russia. 4 anni dopo Gorbacev sperava ancora di svolgere un certo ruolo nelle vicende russe. Si è presentato con il suo partito socialdemocratico prendendo meno dell’1% dei voti. Il popolo russo aveva capito che non poteva fidarsi di quest’uomo. Per l’Occidente nonostante ciò Gorbacev rimane un grande uomo che ha inciso sulla realtà del mondo. Lui ora si è sistemato, ha avuto fondi per la sua fondazione, ha una bella villa.

Terzo intervento di Rizzo: leggo la prima pagina de La Stampa di Torino al tempo del tentato golpe: «Urss, colpo di Stato», «caos in borsa». Andreotti: «fatti loro». Andreotti aveva capito che il ruolo dell’Italia dopo la guerra fredda sarebbe cambiato radicalmente.

Tutta quella dirigenza dei paesi socialisti è una dirigenza che arriva dai processi della destalinizzazione. Ho letto il libro Il crollo (1991) di Honecker. Racconta come avesse un ritratto di Stalin che ha tenuto sempre coperto. Nel ’91 l’ha “scoperto”, togliendone la copertura. È un fatto indicativo. Cosa è successo in questi, in quegli anni? Noi non siamo storici, siamo militanti politici della più grande idea: il cambiamento del mondo in senso socialista. Dobbiamo dire chiare le cose. Di fronte al “nuovo” e al “vecchio”, diciamo che il comunismo è un’idea giovane. Il capitalismo ha più di 800 anni. Diffidate di quelli che vi parlano di innovazione. Io non sarò mai uno innovativo. Le nostre idee non hanno bisogno dell’aggettivo “nuovo”. Noi abbiamo le ragioni della Storia dalla nostra parte. Se noi non siamo indipendenti e convinti delle nostre idee. Noi siamo irriducibili ai nostri principi, tanto quanto siamo creativi e aperti per costruire il comunismo anche con i non comunisti. Occhetto diceva che noi dovevamo farci contaminare dalle altre idee. Ci hanno contaminato [sottinteso purtroppo, ndr]. Noi abbiamo la ragione dalla nostra parte: l’idea del nuovo sta dentro di noi.

DOMANDE DAL PUBBLICO E RISPOSTE

C’è stato tempo anche per alcune domande dal pubblico:

1) cosa fare per evitare il ripetersi dell’ascesa del nazifascismo?

2) si è parlato delle cause del crollo del muro e del socialismo nell’est. Si è parlato meno delle cause della costruzione del muro. È vero il mito per cui il muro sia stato un modo per evitare ai cittadini DDR di scappare?

3) perché Honecker venne esautorato ad un certo punto? Cosa si dissero nell’ottobre ’89 Ligacev e Honecker in un fondamentale incontro?

Modrow: alla prima domanda risponde che ogni paese deve sviluppare i propri anticorpi. Bisogna sempre ricordare che il nazismo è stato sconfitto nel ’45 a Berlino, non nel ’44 con lo sbarco in Normandia. Bisogna sempre ricordare il peso portato dall’URSS nella sconfitta del fascismo. Non ci sono paragoni storici a tal riguardo.

Alla seconda sul muro: si dice sia stato distrutto per garantire la libertà dei cittadini della DDR, cosa ripetuta dai partiti borghesi. Non dobbiamo però dimenticare, e oggi molti cittadini se ne rendono conto, che avevano molti più diritti ieri di adesso. Il diritto al lavoro oggi è inesistente; i diritti delle donne, che erano molto più tutelate e avevano ampie protezioni sociali, oggi sono scomparsi. Il territorio dell’ex-DDR si sta spopolando: 2 milioni di cittadini dell’est si sono trasferiti all’ovest negli ultimi anni. Si è passati da 16 a 14 milioni di abitanti perché non c’è sviluppo. Si vuole cancellare le conquiste di quella parte del paese. Ciò a seguito dello smantellamento del settore industriale costruito in epoca socialista.

Sulla terza domanda: il trattato che era stato votato in parlamento per unificare le due “Germanie” non ha visto il mio voto favorevole. Non sono d’accordo con quanto sta succedendo oggi nella Linke: si verifica uno spostamento verso il centro di questo partito. Non è necessario tornare indietro verso Marx, ma andare avanti con Marx, guardando al futuro. Lo spostamento al centro comporta sempre più compromessi con le forze che rappresentano il capitalismo sfrenato da animale selvaggio che sottolinea l’aspirazione al carattere imperiale della Germania che fu. Si dice spesso che la Germania stia diventando europea. Si sta verificando che l’Europa sta diventando tedesca. Qui a Milano c’è un’atmosfera positiva di confronto. Dobbiamo continuare a dialogare, litigando se necessario, ma sempre nel rispetto degli avversari che ci si trova davanti. Le discussioni vanno fatte sapendo mantenere l’unità.

Interviene anche Rizzo che alla prima domanda risponde che dobbiamo dire una cosa importante: occorre distinguere i fascismi e il nazismo, due cose diverse dalla democrazia borghese. Il capitalismo è diverso dai fascismi e dal nazismo? No. Nel momento in cui il capitalismo è in difficoltà nei confronti di un movimento operaio comunista che possa imporne il cambio, il capitalismo utilizza il fascismo per frenare e bloccare tale processo. Probabilmente l’Europa non ha ancora bisogno del nazismo e del fascismo. L’importanza oggi è il consumo, non un conflitto. L’ultimo tentativo di colpo di Stato in Europa è del 1981 in Spagna, ma il nascente capitalismo spagnolo non aveva più bisogno del fascismo. Oggi in Europa non ce n’è bisogno ma non escludo che in futuro possa essere un’ipotesi tenuta in considerazione delle classi dirigenti. Pensiamo all’esempio dell’America latina.

Sulla vicenda del muro: c’erano provocazioni. Gli americani ne combinavano di tutti i colori. Occorre parlare del fenomeno alla luce di quel che accade oggi: l’ostalgie. Preferivano quell’altro sistema. Come mai allora poi votano per i fascisti? Non è la stessa cosa qua da noi? Gli operai, le periferie, i lavoratori sono incazzati. Votano la Lega perché noi non riusciamo ancora a costituire una vera alternativa che parli alla nostra gente con linguaggio, titoli e sostanza che la nostra gente si aspetta. Il partito comunista non è il partito dei gusti sessuali e alimentari. È il partito della classe operaia e dei lavoratori [applausi dalla sala, ndr]. Se ricominciamo dal lavoro come punto nodale, principale, possiamo trovare il sostegno della gente e far capire che la Lega è il piano B del Capitale.

CONSIDERAZIONI FINALI

Il fatto stesso che Hans Modrow, presidente onorario della Linke, partecipi ad un’iniziativa con Marco Rizzo, segretario nazionale del PC, è in sé una notizia. I due partiti non appartengono infatti ad organizzazioni comuni. Linke è oggi assieme a Syriza l’organizzazione più moderata non solo del GUE-NGL, ma anche della Sinistra Europea, e al suo interno è forte la pressione per stringere accordi di governo con la socialdemocrazia tedesca ed europea. Il PC invece, dopo le prime aperture sulla Cina, sta tentando di allargare il campo e aprirsi al confronto con altre organizzazioni (vd i colloqui, pur infruttuosi, con PCI e PaP), forte degli ultimi risultati elettorali (Europee e Regionali in Umbria) e delle iniziative di piazza (vd 5 ottobre 2019 a Roma) che lo hanno accreditato come la principale forza politica nel campo della sinistra anticapitalista e comunista.

L’incontro con Modrow, scettico sullo spostamento al centro di Linke, apre ad un dialogo importante con il PC e, si spera, con l’intera area della Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa. Certamente le posizioni di Modrow non necessariamente rispecchiano la maggioranza di Linke, e c’è da chiedersi quanti anche dentro la Sinistra Europea le farebbero proprie. È però importante che continuino ad esistere certi orientamenti anche in organizzazioni che mantengono una presenza politica significativa in uno dei cuori dell’imperialismo occidentale.

Il PC non ha problemi invece a cavalcare le posizioni di Modrow, portandole ad esempio per confermare le proprie tesi. Nonostante non sia ancora un’organizzazione capace di incidere significativamente sulla società italiana la sua crescita in termini di radicamento territoriale e di organizzazione si accompagna ad un’incidenza elettorale che si attesta intorno all’1%. Nella debolezza maggiore in cui si muovono le altre organizzazioni, specie dal punto di vista ideologico, il PC sta emergendo come punto di riferimento politico per migliaia di compagne e compagni. Questo è un dato di fatto, che viene per ora solo parzialmente scosso dalle recenti dimissioni del numero due del partito, Alessandro Mustillo, uno dei fondatori del Fronte della Gioventù Comunista.

La riscoperta della Storia e la condanna del revisionismo che ha caratterizzato le vicende del movimento operaio e comunista dal 1956 in poi sono alcuni dei grandi punti di forza del PC, che gli permette di offrire una vulgata forse non ancora pienamente soddisfacente, ma che ha i suoi punti di solidità senz’altro più avanzati di chi ancora condanna senza appello il “socialismo reale”. Dire le cose come stanno, ossia che Gorbacev è stato effettivamente un traditore, è sicuramente un passo avanti. I dati sono sufficienti per fare una simile asserzione senza esagerare. La messa a punto della questione conferma la tesi che la caduta dell’URSS e del blocco socialista non fossero degli esiti inevitabili, ma che in una certa misura siano stati politicamente precipitati e manovrati in modo da portare ad un’implosione del sistema. La fine dell’URSS, come della DDR, non erano insomma esiti obbligatori, tant’è che tutti, anche in Occidente, si sono stupiti della rapidità del loro processo di disgregazione. Le storture e le inadeguatezze del sistema socialista, che bisognerebbe affrontare in maniera più approfondita, potevano e dovevano essere superati con una serie di riforme, ma non certo nelle modalità avviate da Gorbacev.

È certamente motivo di discussione capire quali riforme sarebbero state più adeguate, ma è altrettanto fondamentale capire come sia stato possibile che uno come Gorbacev, dichiaratosi a posteriori esplicitamente socialdemocratico, sia riuscito a scalare le vette del partito. Se vogliamo spostare il discorso, vale lo stesso discorso per Chruscev e, in Italia, per la generazione post-berlingueriana. Non è stata data inoltre risposta alla domanda posta due volte da Modrow: perché l’intero Comitato Centrale della SED ha votato unanime per rimuovere Honecker dai suoi incarichi istituzionali? Possibile che il partito non fosse in grado di ragionare e sopravvivere autonomamente senza il supporto e il “consiglio” dell’URSS? Addossare la colpa alla degenerazione del PCUS non fa che mostrare o che la SED non avesse autonomia politica, o che il suo gruppo dirigente si sia rivelato inadeguato per poter gestire la situazione da solo. Rimane aperto il problema, precedente al 1956, che ho segnalato nelle conclusioni politiche sulla costruzione del socialismo in URSS:

«Il Partito di avanguardia leninista si era rivelato il mezzo migliore per fare la Rivoluzione, ma il passaggio al Partito di massa, tanto necessario per dirigere un Paese immenso, diventò assai problematico, scontrandosi in primo luogo con la difficoltà di fornire un livello di formazione e preparazione politica adeguati alla base militante, ma anche ai quadri intermedi e superiori».

La questione va insomma sicuramente problematizzata e analizzata ulteriormente. Sul tema ho ragionato nelle conclusioni dell’opera Storia del Comunismo. Nel frattempo la testimonianza di Modrow è sicuramente di massima importanza e costituisce una fonte preziosa per comprendere meglio gli ultimi giorni della DDR e le cause contingenti che hanno precipitato il blocco socialista alla sua disgregazione in Europa. L’analisi del passato e la confutazione delle falsità borghesi sono aspetti necessari per qualsiasi tentativo serio di ricostruzione per il presente. Costruire progettualità politiche con chi invece continua a sostenere tesi storiografiche e politiche controrivoluzionarie e borghesi non può portare ad altro che a costruire castelli di sabbia destinati ad infrangersi alla prima mareggiata. In certi casi è meglio andare da soli che male accompagnati, come mostra il caso di Gorbacev e di tanti compagni di viaggio che alla fine si sono dimostrati più opportunisti che comunisti.

Alessandro Pascale

1Dialogo riportato a pp. 132-133 della presente edizione Mimesis.

Lenin, Rockefeller e la politica-struttura

 

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli.

 

La storia pluridecennale della nazione di regola considerata più liberista e antistatalista, e cioè gli Stati Uniti del periodo 1776-1918, serve a supportare concretamente le splendide e geniali tesi leniniste secondo le quali la politica costituisce “l’espressione concentrata dell’economia” (Lenin 1921, “Ancora sui sindacati”) e che quindi di conseguenza, oltre alle sovrastrutture politiche si riproduce costantemente anche una “politica-struttura”, una politica rinvigorita con dosi massicce di potenza economica e scelte economiche.

In altri termini l’esperienza concreta degli Stati Uniti dei lunghi decenni compresi tra il 1776 e il 1918, nell’epoca del presunto “liberismo economico” e dei miliardari “creatisi da soli”, quali ad esempio i celebri Vanderbilt e Rockefeller, rappresenta e si dimostra una sorta di pesantissimo stress-test e una verifica empirica particolarmente impegnativa per la sofisticata ma realistica teoria leninista, in questo settore attualmente quasi sconosciuta e quasi mai utilizzata tra i marxisti, relativa all’importanza costituita per la  sfera produttiva e sui rapporti sociali di produzione e distribuzione dalla politica, da intendersi come politica-struttura ed espressione concreta dell’economia.

Rispetto al preliminare processo di definizione teorico, si è già notato come all’interno della specifica categoria di politica-sovrastruttura, nelle società di classe oppure socialiste, rientrino le teorie, ideologiche e utopie politico-sociali, gli scontri per l’acquisizione o per il mantenimento del potere e del controllo degli apparati statali, l’aspetto strettamente diplomatico e/o militare dei rapporti internazionali tra stati,  oltre alle lotte costituzionali e quelle aventi per oggetto la modifica/conservazione delle modalità di relazioni tra i diversi nuclei di potere e apparati statali.

Per quanto riguarda invece il processo di focalizzazione sulle coordinate della politica-struttura, tale settore della sfera politica, sia delle società classiste che di quelle socialiste, più o meno deformate, riguarda l’azione e la pressione esercitata dai governi e dagli apparati statali sui rapporti sociali di produzione e distribuzione, a partire dalla difesa o attacco alla proprietà privata e/o pubblica.

È già stato ricordato che, almeno per quanto riguarda le formazioni economico-sociali capitalistiche, molti degli anelli più importanti della politica-struttura e della politica-espressione concentrata dell’economia erano stati esposti da Marx, nel ventiquattresimo capitolo del primo volume del Capitale.

La politica-struttura venne intesa infatti da Marx come periodici interventi dei poteri pubblici, del governo e degli apparati statali sulla proprietà pubblica, con l’espropriazione dei produttori autonomi rurali e dei piccoli contadini inglesi dal 1500 al 1815.

Politica-struttura valutata dal geniale pensatore di Treviri anche come creazione e riproduzione del debito pubblico, strumento molto efficace fin dal Quattrocento per la borghesia,  oppure come politica doganale e relazioni commerciali con l’estero di ciascun stato.

Politica-struttura intesa anche come tasse e fisco, “esazioni fiscali” secondo la terminologia marxiana utilizzato nel ventiquattresimo capitolo del Capitale, oltre che in qualità di politica monetaria, tassi d’interesse, ecc.: politica, certo, ma politica economica.

Politica-struttura intesa come il lato strettamente economico e finanziario delle dinamiche internazionali e delle relazioni tra stati, ivi comprese quelle “guerre commerciali” descritte da Marx anche nel suo ventiquattresimo capitolo del primo libro del Capitale, oltre che a “continente” teorico-pratico che si materializza e si concretizza anche nel macrosettore delle infrastrutture (porti, ferrovie, autostrade, sistemi satellitari, ecc.) e negli appalti pubblici indirizzati verso il settore civile e militare, nel secondo caso creando la principale base materiale per quel “complesso militar-industriale” descritto da Eisenhower nel gennaio del 1961.

A questo punto si può passare alla verifica e a un particolare stress-test empirico delle tesi in esame utilizzando un ottimo libro del 2002, scritto dal ricercatore statunitense Kevin Phillips e intitolato “Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano”: un testo ben documentato e simultaneamente insospettabile sul piano politico visto che, come ha sottolineato anche Michele Salvati nella sua breve introduzione all’eccellente saggio in oggetto, sicuramente “Phillips non è un radicale, non è un populista di sinistra che ce l’ha con i ricchi per partito preso”.[1]

Primo elemento di riscontro concreto per la teoria della politica-struttura: durante la guerra di indipendenza americana contro il colonialismo britannico, a partire dal 1776 gli approvvigionamenti e gli appalti statali di tipo civile e bellico crearono grandi fortune e ricchezze, assieme alla pirateria appoggiata e legittimata dal nascente governo statunitense e attuata con successo dai “predoni-corsari-capitalisti” della costa orientale degli Stati Uniti.

Phillips attesta che “ancora una volta, la finanza di guerra e le responsabilità degli approvvigionamenti diedero i frutti attesi. A Filadelfia, il beneficiario numero uno fu Robert Morris, inizialmente capo della commissione acquisti del Congresso e poi (dal 1781) sovraintendente alle finanze. Tra 1775 e 1777 quasi un quarto degli appalti concessi da Morris andò alla sua stessa ditta, la Willing and Morris; e il suo portafoglio venne ulteriormente gonfiato dalle predazioni, coordinate in gran parte dal suo socio William Bingham, nominato agente principale del Congresso nei Caraibi. Come vedremo, Morris aveva una partecipazione nella Bank of North America, un istituto di credito formalmente privato ma in realtà quasi pubblico. Tali erano le sue vanterie in campo finanziario che Morris si sarebbe potuto ritenere l’uomo più ricco d’America nel biennio 1782-83. Non è affatto da escludere che abbia messo assieme il primo milione prima dell’armatore Derby. Viene ricordato come «il finanziatore della Rivoluzione», ma uno storico afferma che la verità «è esattamente opposta: fu la Rivoluzione a finanziare Morris».

Un altro importante beneficiario della guerra fu William Duer, fornitore principale del commissariato militare di New York. Poi veniva Jeremiah Wadsworth, capo commissariato per il Connecticut, lo «stato degli approvvigionamenti di guerra» dal 1775 al 1779. Gli storici hanno collocato sia Duer sia Wadsworth in un vero e proprio «network degli acquisti», che operava in collusione con l’ufficio di Morris e che sarebbe tornato a collaborarvi nella gestione della finanza postbellica.

Benché le generazioni successive l’abbiano dipinta in modo assai più nobile, la Rivoluzione americana fu un altro grande intreccio di interesse pubblico e profitto privato; e come nelle guerre contro i francesi, la corsareria avrebbe costituito il business più redditizio in assoluto. I sette anni successivi l’autunno 1775 videro salpare, sotto le insegne degli Stati Uniti o di uno dei tredici stati coloniali, quasi duemila vascelli di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, dal bialbero alla fregata”.[2]

Per quanto riguarda invece il secondo livello di controllo dell’“intreccio di interesse pubblico e profitto privato” derivante dalla storia dell’importante città di Boston nel 1783-1813, Phillips rilevò che “l’analisi dei primi registri tributari della città per gli anni 1771, 1780, 1784 e 1790, lo storico delle colonie John Tyler documentò, due secoli dopo, una sostanziale rivoluzione nella composizione della ricchezza bostoniana. Nel 1780 diversi uomini legati alla corsareria e al business delle forniture militari stavano entrando nell’alta società. Nel 1784 erano ormai proiettati verso i massimi livelli. I cinque maggiori contribuenti del 1790 erano, nell’ordine: Thomas Russell, mercante e capitano di nave corsara; John Hancock, mercante, contrabbandiere e capitano di nave corsara; Joseph Barrell, appaltatore di forniture per la flotta francese; Mungo Mackay, distillatore e capitano di nave corsara; e Joseph Russell, mercante e capitano di nave corsara.

Quello di Boston non è certo un caso isolato. Negli anni Novanta del Settecento, i patrimoni derivanti dalla  corsareria e dall’amministrazione delle finanze governative rappresentavano la principale fonte di ricchezza degli Stati Uniti. Gustavus Myers, in History of the Great American Fortunes, accomunava le fortune derivanti dalla corsareria e le fortune derivanti dall’attività armatoriale perché era impossibile stabilire quanto si guadagnava dalla cattura di un mercantile britannico carico di zucchero nel 1781 e quanto si guadagnava dalla vendita di un carico di caffè, di cotone e di pepe giavanese vent’anni dopo.

Oltre a mostrare un «evidente» sovrapposizione tra la predazione del periodo bellico e la conseguente ricchezza, l’analisi dei primi registri tributari della città di Boston metteva in evidenza il secondo elemento: gli appalti governativi e le ricche forniture di guerra. Thomas Russell, l’uomo più ricco di Boston, era stato anche il fiduciario occulto di Robert Morris, il capo della commissione acquisti del Congresso e l’uomo più ricco di Filadelfia. Joseph Barrell riceveva una provvigione del 5% –  in luigi d’oro (la moneta francese)  – sulle forniture acquistate per conto della flotta francese. Altri due super ricchi, posizionati poco al di sotto dei cinque che abbiamo elencato prima, erano Caleb Davis, concessionario di stato per la vendita delle navi catturate e rappresentante su Boston del ministero continentale della Guerra, e John Bradford, concessionario delle prede per la marina continentale. Nathan Appleton, che sarebbe stato uno dei protagonisti dell’industria tessile del Massachusetts, nel 1813 «doveva gran parte della sua ascesa economica e sociale al ruolo di funzionario continentale dei prestiti per il Massachusetts». In sostanza, «gli appalti governativi offrivano un accesso ancora più sicuro alla ricchezza di quanto non facesse la corsareria».[3]

Quindi “appalti governativi” per e nei “liberisti” Stati Uniti del 1776-1815

Terzo test: proprio la guerra di Secessione, che oppose dal 1861 al 1865 il “libero” nord capitalista al sud schiavista degli Stati Uniti, “oltre a costituire un significativo spartiacque economico “fu anche un grande incubatore di imprese e imprenditori. Un gran numero di finanzieri e di imprenditori saliti alla ribalta alla fine del XIX secolo (J.P. Morgan, John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, Jay Gould, Marshall Field, Philip Armour, Collis Huntington, e molti altri notabili del business ferroviario) erano giovani benestanti del Nord che avevano evitato il servizio militare, quasi sempre pagando dei sostituti, e avevano utilizzato la guerra per muovere i principali passi sulla scala delle loro future ricchezze. Quasi tutte le fortune già consolidate ebbero ulteriore impulso. Quella di Vanderbilt, già stimata in 15 milioni di dollari nel 1861, aumentò di cinque volte durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo, soprattutto grazie ai profitti delle ferrovie; e nel 1877, quando l’audace commodoro morì, valeva l’incredibile somma di 105 milioni di dollari. Ma l’effetto incubazione era ancora più importante”.[4]

Morga, Rockefeller, ecc. avevano dunque “utilizzato la guerra” per creare le basi fondamentali “delle loro future ricchezze”: ancora una volta, viva il “liberismo” statunitense.

Ma non solo: nel 1870, e quindi ancora prima dello scoppio della guerra civile americana, “si contavano a New York City un centinaio di milionari. Alla fine della guerra il loro numero era triplicato. Nel 1863 l’1% dei più ricchi abitanti di Manhattan (seicento famiglie), ingrassato dalla presenza dei nuovi ricchi, deteneva il 61% della ricchezza cittadina, contro il 40% del 1845. I componenti di quella «aristocrazia trasandata» erano particolarmente inclini a circondarsi di servitori in livrea e pasteggiare presso il lussuoso ristorante Delmonico’s, dove il piatto più richiesto era l’anatra farcita ai tartufi. Uno storico ha calcolato che quasi metà del miliardo di dollari intascato dagli appaltatori privati tra 1861 e 1865 andò in profitti. Le espressioni di biasimo di Lincoln richiamavano da vicino le invettive contro i profittatori di guerra pronunciate da Washington ottant’anni prima”.[5]

La quinta verifica empirica è sempre relativa agli Stati Uniti ma avendo per oggetto il periodo “pacifico” del 1865-1888 e il gigantesco processo di accumulazione di ricchezza da parte delle compagnie ferroviarie private (Vanderbilt, ecc.), supportate in ogni modo dagli apparati statali e dai diversi centri concentrici del potere politico americano per lunghi decenni sia attraverso finanziamenti pubblici che enormi concessioni di terre demaniali, come nel celebre caso del Pacific Railroad Act del 1862.

Infatti a partire dal 1860-64 “le compagnie ferroviarie divennero così i primi Golia del sistema economico americano, impossessandosi dei parlamenti e comprando i giudici con la stessa leggerezza con cui attraversavano i fiumi e by-passavano le città e le contee non disposte a «collaborare». La «guerra» scoppiata nel 1869 tra Cornelius Vanderbilt e Jay Gould per il controllo della Erie Railroad, nello stato di New York, si combatté senza esclusione di colpi: giudici corrotti, parlamenti comprati e decine di milioni di dollari in gioco, una posta straordinaria per un’epoca in cui la più grande azienda industriale aveva una capitalizzazione di 1-2 milioni di dollari. A inizio anni Settanta dell’Ottocento, il saccheggio della Union Pacific Railroad attraverso la holding Credit Mobilier fu ancora più redditizio: il gruppo di controllo, guidato dal parlamentare del Massachusetts Oakes Ames, avrebbe intascato 44 milioni di dollari. I profitti derivanti dalla speculazione sulle ferrovie dello stato di New York fecero di Vanderbilt il primo americano che  oltrepassò la soglia dei 100 milioni di dollari di patrimonio: era la metà degli anni Settanta.

Fino ai gloriosi anni Sessanta, con le ricche opportunità offerte dalle ferrovie (il panorama andava dai finanziamenti ai profitti senza precedenti, derivanti dalle generose concessioni governative e dalle ripetute emissioni azionarie, ai noli da estorsione e alle astuzie del mercato azionario), i 20 milioni di dollari attribuiti ad Astor nel 1848 costituivano il record assoluto della ricchezza.

È difficile esagerare il peso e l’influenza delle ferrovie. Non più tardi del 1880, come abbiamo visto, 17 compagnie ferroviarie capitalizzavano almeno 15 milioni di dollari, mentre una sola azienda industriale (la Carnegie Steel) ne capitalizzava almeno 5”.[6]

Passando infine allo stress-test della prima guerra mondiale, vista e vissuta (felicemente) dal punto di vista della politica borghese e del mondo degli affari degli Stati Uniti, per i diciotto mesi e quel sanguinoso biennio 1917-18 che vide l’intervento diretto di Washington nella Grande Guerra Phillips è stato costretto a evidenziare un clamoroso processo di accumulazione capitalista creato mediante soldi pubblici e statali, ammettendo che “l’indice dei titoli di nove aziende specializzate nelle forniture militari aumentò del 311% in diciotto mesi. Stuart Brandes, nella sua ricostruzione storica dei profitti di guerra degli Stati Uniti, parla di profitti volatili e «di giorni convulsi, a Wall Street e nelle borse merci regionali, in cui si fecero delle fortune e talvolta si persero delle fortune. Gli speculatori più abili e fortunati vennero chiamati, se uomini, “warhogs” (porci di guerra), e, se donne, “warsows” (scrofe di guerra)”.

I riformatori sostenevano che la guerra stesse per ristabilire le fortune dei capitalisti che l’era progressista aveva messo sulla difensiva, e gli studiosi che se ne occuparono successivamente catalogarono alcuni esempi clamorosi: più di un miliardo di dollari speso per un aereo da combattimento che non venne mai realizzato, e via dicendo. L’indignazione popolare si attenuò progressivamente insieme ai ricordi di guerra, ma riaffiorò quando il crac del 1929 riportò sotto i riflettori il comportamento delle banche e delle grandi aziende. Nel 1935 la popolare rivista «American Mercury» collocava la guerra al quarto posto tra le «ruberie della repubblica». L’espressione «mercanti di morte» entrò a far parte del lessico comune”.[7]

Dato che gli esempi concreti contenuti nel periodo 1776-1918 potrebbero essere moltiplicati a piacere a partire dalla politica fiscale, per non parlare poi del secolo seguente caratterizzato da quella “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite” made in Washington che ha visto finora l’apice nel 2007-2009 con i salvataggi per mano statale dell’intero sistema bancario statunitense, costati migliaia di miliardi di dollari ai contribuenti del paese, crediamo che lo stress-test di matrice americana sopraesposto dimostra anche nel caso limite dei presunti “liberisti-antistatalisti” USA del 1776-1918 la stretta simbiosi, il “tandem” (Salvati) e l’interconnessione dialettica tra politica e affari, tra apparati statali e processi di accumulazione accelerata del capitalismo USA, tra potenza economica e potere politico nella formazione statale americana, confermando dunque la teoria leninista riguardo a una sfera politica da intendersi sia come espressione dell’economia sia come politica-struttura, almeno in un segmento e in una parte molto consistente della sua espressione complessiva e della sua concreta dinamica globale.

Di fronte alla limpida evidenza empirica persino un riformista moderato ma onesto come Michele Salvati ha riconosciuto, nella sua prefazione del 2005 al libro di Phillips, che “molto spesso i ricchi e i politici hanno lavorato in tandem per creare e perpetuare situazioni di privilegio, talora a scapito dell’interesse nazionale, quasi sempre a scapito dei ceti meno prosperi”.

Meno male che il marxismo e il leninismo, fase superiore di sviluppo creativo del primo, ormai erano “superati e invecchiati” …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] K. Phillips, “Ricchezza e democrazia”, p. 10, ed. Garzanti

[2] Op. cit. pp. 54-55

[3] Op. cit., pp. 57-58

[4] Op. cit., p. 87

[5] Op. cit., p. 92

[6] Op. cit. pp. 448-449

[7] Op. cit. p. 114

Marx e l’effetto di sdoppiamento: il colonialismo occidentale in America Latina, India e Algeria.

Pubblichiamo in anteprima un breve capitolo del libro “Effetto di sdoppiamento, il “paradosso di Lenin” e la politica struttura.” con contributi di Giorgio Galli, Alessandro Pascale, Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, e che verrà pubblicato a fine anno.

Lo scritto in oggetto si intitola “Marx e l’effetto di sdoppiamento: il colonialismo occidentale in America Latina, India e Algeria”.

Buona lettura.

 

 

 

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

 

“Marx e l’effetto di sdoppiamento: il colonialismo occidentale in America Latina, India e Algeria”.

 

È stato sicuramente l’antidogmatico Karl Marx che ha creato i primi germi della teoria dell’effetto di sdoppiamento: oltre alle bozze di lettere e alla missiva inviata alla fine dal geniale scienziato-rivoluzio-nario tedesco a Vera Zasulich nel 1881, si possono utilizzare in tal senso anche gli estratti effettuati sempre da Marx, verso la fine del 1879, rispetto a un libro di Maksim Kovaleskij intitolato “La proprietà comune della terra. Cause, corso e conseguenze del suo declino”.

Non a caso, infatti, il grande comunista tedesco commentò ed estrapolò parte del lavoro di Kovaleskij e  principalmente le sezioni del saggio di quest’ultimo nelle quali veniva analizzata la questione centrale della proprietà della terra: Marx, focalizza la sua attenzione e loda apertamente l’opera dello storico russo specialmente riguardo all’indagine relativa a tre distinte aree geopolitiche del nostro pianeta, nelle quali si scatenò via via una durissima pluridecennale lotta socio-produttiva e politico-sociale tra gli invasori europei, alfieri della “linea nera” classista, e le comuni rurali “rosse” create e riprodotte invece per millenni dalle popolazioni autoctone, con una forte presenza al lato interno di rapporti di produzione collettivistici e cooperativi.

Come ha notato in una sua ottima (e discutibile, almeno in campo politico) biografia su Marx lo storico Marcello Musto, insospettabile di qualunque forma di simpatia per la teoria dell’effetto di sdoppia-mento, Marx iniziò a sezionare lo studio di Kovaleskij sulla proprietà comune della terra partendo dall’America Latina nell’epoca delle civiltà precolombiane e riportando che, con l’inizio dell’egemonia degli imperi (classisti) azteco e inca, “la popolazione rurale continuò, come in precedenza, a possedere la terra in modo comune, ma dovette, allo stesso tempo, rinunciare a una parte del suo reddito, sotto forma di pagamenti in natura a beneficio dei loro regnanti”. Secondo Kovalevskij, questo processo pose le «basi per lo sviluppo dei latifondi [realizzati] a spese degli interessi patrimoniali di coloro che possedevano la terra comune. La dissoluzione di quest’ultima venne soltanto accelerata dall’arrivo degli spagnoli». Le terribili ripercussioni del loro impero coloniale furono condannate sia da Kovalevskij, che denunciò la «originaria politica di sterminio degli spagnoli nei confronti dei pellerossa», che da Marx, il quale aggiunse di suo pugno che «in seguito al saccheggio dell’oro trovato [dagli spagnoli], gli indiani [furono] condannati a lavorare nelle miniere». A compimento di questa parte degli estratti dall’opera di Kovalevskij, Marx osservò che, ciò nonostante, vi era stata una «sopravvivenza (in larga misura) della comune rurale», resa possibile anche per la «assenza di legislazione coloniale (a differenza delle Indie orientali inglesi) relativamente a regolamentazioni che avrebbero dato ai membri dei clan la possibilità di vendere le porzioni di terreno che appartenevano a loro».

Oltre la metà degli estratti che Marx eseguì da Kovalevskij furono dedicati al dominio inglese in India.  Egli rivolse particolare attenzione a quelle parti del libro nelle quali era stata ricostruita l’analisi delle forme contemporanee della proprietà comune della terra, nonché alla storia del possesso della terra al tempo dei ragià. Utilizzando il testo di Kovalevskij, Marx osservò che anche in seguito alla parcellizzazione dei terreni, introdotta dagli inglesi, la dimensione collettiva del passato restava viva: «(tra questi atomi continua[va]no a esistere alcune connessioni) che, a distanza, rievoca[va]no i precedenti gruppi di proprietà comune della terra» […].

Infine, relativamente all’Algeria, Marx non tralasciò di porre in evidenza l’importanza che la proprietà comune rivestiva in quel Paese prima dell’arrivo dei colonizzatori francesi, così come dei cambiamenti che questi avevano introdotto. Al riguardo, da Kovalevskij egli ricopiò che «la formazione della proprietà privata della terra (negli occhi del borghese francese) è una condizione necessaria per tutto il progresso nella sfera politica e sociale. L’ulteriore mantenimento della proprietà comune “come forma che supporta le tendenze comuniste nelle menti” [era] pericolosa sia per la colonia che per la patria». Da La proprietà comune della terra. Cause, corso e conseguenze del suo declino, Marx trasse anche le seguenti considerazioni:

la distribuzione della proprietà ai clan è incoraggiata e persino ordinata; innanzitutto, come mezzo per indebolire le tribù soggiogate che, però, sono permanentemente sotto l’impulso della rivolta e, in secondo luogo, quale unico modo per un ulteriore trasferimento della proprietà fondiaria dalle mani dei nativi a quelle dei colonizzatori. Questa stessa politica è stata perseguita dai francesi sotto tutti i regimi […]. Lo scopo è sempre lo stesso: la distruzione della proprietà collettiva degli indigeni e la sua trasformazione in un oggetto di libero acquisto e vendita, il che significa renderne più semplice il passaggio finale nelle mani dei colonizzatori francesi.

Quanto al progetto di legge sulla situazione algerina, presentato al parlamento dal deputato della sinistra repubblicana Jules Wamier e approvato nel 1873, Marx riprese da Kovalevskij la denuncia che ciò avesse come unico obiettivo «l’espropriazione della terra alle popolazioni native da parte dei colonizzatori europei e degli speculatori». La spudoratezza dei francesi era giunta fino al «furto esplicito», ovvero alla trasformazione in «proprietà del governo» di tutte le terre incolte che erano rimaste in uso comune agli indigeni. Tale processo si prefiggeva di produrre un altro importante risultato: annullare il rischio di resistenza delle popolazioni locali. Sempre tramite le parole di Kovalevskij, Marx prese nota e sottolineò che:

la fondazione della proprietà privata e l’insediamento dei colonizzatori europei tra i clan arabi […] sarebbe divent[ato] il più potente mezzo per accelerare il processo di dissoluzione dell’unione dei clan. […] L’espropriazione degli arabi voluta dalla legge [serviva]: I) a procurare più terra possibile per i francesi; e II) a strappare gli arabi dai loro vincoli naturali con la terra, così da rompere l’ultima forza dell’unione dei clan e, dunque, dissolta questa, ogni pericolo di ribellione.

Marx osservò che questo tipo di «individualizzazione della proprietà della terra» avrebbe procurato, pertanto, non solo un enorme beneficio economico agli invasori, ma avrebbe favorito anche un «obiettivo politico […]: distruggere le basi di questa società».

Dalla selezione di appunti realizzata da Marx, così come dalle poche ma inequivocabili parole di condanna verso le politiche coloniali europee che aggiunse al testo di Kovalevskij, si evince il suo rifiuto a credere che la società indiana e quella algerina fossero destinate a seguire, ineluttabilmente, il medesimo corso di sviluppo di quella europea”. (M. Musto, “Karl Marx”, pp. 177-178-179, ed. Einaudi)

L’eccellente sintesi di Musto relativa alle posizioni di Marx e Kovaleskij, nella sostanza concordi sull’analisi della “lotta planetaria” scatenata dal colonialismo europeo (semifeudale, nel caso spagnolo) anche contro la proprietà comune della terra e rapporti sociali di produzione/distribuzione almeno in parte collettivistici e cooperativi, va in ogni caso integrata riportando alla luce anche la plurisecolare guerra, sanguinosa e orrenda, scatenata dal colonialismo britannico prima (fino al 1776) e dal capitalismo statunitense in seguito contro i nativi americani e i cosiddetti “pellerossa”, in uno degli esempi su scala geopolitica più vasta e di durata maggiore di quell’“opera sistematica e pianificata di distruzione e annientamento delle comunità sociali non-capitalistiche” descritta con grande forza polemica da Rosa Luxemburg nel 1913.

Un’opera sistematica pianificata di distruzione adottata dalla “linea nera” socioproduttiva e politica made in USA anche contro l’alterna-tiva “linea rossa”, quasi sempre ben presente e a volte egemone sul piano delle relazioni di produzione riprodottesi nei diversi clan dei nativi americani del 1620 al 1887, azione sistematica che trova una delle sue armi più efficaci nella “Dawes Act” del 1887: un provvedi-mento di politica economica con cui la borghesia e gli apparati statali americani privatizzò gran parte delle centinaia di migliaia di chilometri quadrati di terra di proprietà comune delle tribù dei cosiddetti “pellerossa” sostituendoli con piccoli lotti privati, destinati poi ad essere acquisiti a prezzi stracciati dai coloni e dagli speculatori bianchi.

Ancora una volta, “linea nera” socioproduttiva e politica contro “linea rossa”, come rilevò del resto anche l’ultimo Marx attraverso lo studio attento del libro di Maksim Kovalevskij, molto apprezzato – a ragion veduta – dal geniale pensatore di Treviri.