Critica e Anticritica –

Capitolo Ottavo

Contro la teoria dell’effetto di sdoppiamento si può subito muovere una prima obiezione: “il cosiddetto effetto di sdoppiamento sembra rivelarsi un’entità metafisica, che esiste da sempre ed esisterà per sempre.”

L’effetto di sdoppiamento esiste ed agisce storicamente “solo” dal 9000 a.C., con l’introduzione dell’agricoltura/allevamento e la produzione sistematica e costante di un surplus accumulabile da parte della forza-lavoro del genere umano, mentre esso scomparirà nella seconda e più avanzata fase della formazione economico-sociale comunista moderna, quando «con lo sviluppo omnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza» (Marx, Critica al programma di Gotha): tale dinamica liberatrice permetterà la piena soddisfazione dei bisogni sociali del genere umano (consumi, tempo libero, cultura e attività ludiche) e parallelamente disseccherà almeno a livello di massa la principale fonte della linea nera, ossia gli innegabili vantaggi di gruppo o personali derivanti da un’appropriazione “elitaria” dei mezzi di produzione e del tempo libero. Ovviamente a patto che il genere umano non si autodistrugga prima per effetto dell’uso delle mostruose armi di sterminio attualmente a disposizione dell’imperialismo contemporaneo, e che i produttori diretti riescano allo stesso tempo ad avviare un processo di transizione di lunga durata, utilizzando anche dei nuovi apparati statali e nuovi rapporti di potere, per la creazione nel lungo periodo del comunismo su scala mondiale ottenendo la progressiva estinzione dello stato.

Seconda possibile richiesta di chiarimenti: “su quali basi concrete si fonda la linea rossa, la tendenza collettivistica nel periodo post-Calcolitico?”

Innanzi tutto esso si basa su tre basi materiali combinate tra loro, oggettive (indipendenti dalla lotta di classe) e che si riproducono almeno come potenzialità virtuali:

–         la presenza costante della produzione di surplus-pluslavoro nel periodo post-Calcolitico e a partire dal 3700 a.C. determinò la conseguente possibilità storica di avviare anche processi di appropriazione collettiva del plusprodotto sociale (oltre che ovviamente  quella di matrice classista ed elitaria).

–         gli oggetti principali del lavoro sociale umano, la terra e le materie prime, i metalli preziosi e l’acqua, il lavoro universale e le conquiste della scienza/tecnologia potevano sempre essere appropriati per scopi cooperativi, almeno a livello potenziale.

–         forme di appropriazione collettiva erano sempre possibili per i risultati sia delle manifatture/industrie che per ogni attività combinata in campo produttivo, a partire dal settore agricolo (le “villae” degli schiavisti romani, le opere di irrigazione, ecc.).

La quarta “colonna” (soggettiva) della linea rossa post-Calcolitica è costituita dalla volontà e pratica collettiva dei “rossi”, dei milioni di donne e uomini nel periodo compreso tra il 3700 a.C. e l’inizio del III millennio d.C. orientati concretamente a sostegno della formazione e riproduzione di rapporti di produzione collettivistici.

Si è già accennato in precedenza alle comunità cooperativistiche che costituivano una parte importante del modo di produzione asiatico/feudale, ma ad esse vanno aggiunte tutte le antiche e nuove manifestazioni, utopistiche, teorico-religiose o rivoluzionarie del movimento comunista, la cui storia millenaria rimane ancora largamente da scrivere.

Per limitarsi alla zona occidentale e mediterranea si possono ricordare i grandi profeti ebraici Amos ed Isaia, con il loro ardente desiderio di giustizia sociale e il sogno di un mondo senza violenza, sfruttamento e proprietà privata; oppure le predicazioni apocalittiche che sempre in tale area geopolitica profetizzavano la fine violenta della società classista e l’avvento di una nuova epoca, le quali hanno interessato anche la storia delle prime comunità cristiane con l’Apocalisse attribuita a Giovanni, le lettere di fuoco attribuite all’apostolo Giacomo e la vita solidale degli ebioniti ebraico-cristiani, ecc.

«In tutta l’antichità, e per gran parte del medioevo, la voce dell’opposizione al prepotere delle classi privilegiate, quasi sempre celata sotto un rivestimento religioso, è stata soffocata e si è vista costretta, per sopravvivere, a ogni sorta di accorgimenti e di infingimenti: anonimato, attribuzione a personaggi mitici o al di sopra di ogni sospetto, accettati anche dai dominatori, come la Sibilla eritrea, che i poveri d’Israele avevano finito per identificare con una parente stretta di Noè e che i romani avevano confuso con la Sibilla cumana della quarta egloga di Virgilio. Eppure questa forma di protesta, che si avverte in tutta una serie di visioni, di profezie, di annunci di catastrofi cosmiche e sociali, nelle quali in modo più o meno aperto si prevedeva la fine della vecchia età e della sua classe dominante e l’avvento di una “nuova èra”, aveva raggiunto una tale diffusione, da toccare talora gli stessi strati culturalmente più sensibili dei ceti al potere, come è appunto il caso di Virgilio.

La Sibilla, secondo Ovidio, aveva il compito di guidare gli eroi agli inferi e di riportarli, dopo mille anni, alla felicità degli Elisi. Ma nel carme virgiliano troviamo qualcosa di più e di diverso: il vaticinio di “una nuova progenie discesa dal cielo” e di una restaurazione tra gli uomini della pace e delle libertà violate. Era questo il sogno delle masse schiacciate dall’economia schiavistica, che strappava gridi di rivolta, dopo i falliti tentativi d’insurrezione armata, non solo nella terra dei giudei, ma in tutti gli ambienti più miserabili del mondo greco-romano, dalla Scilla all’Asia minore, dall’Africa settentrionale al regno del Bosforo, che si estendeva sino all’attuale territorio dell’Unione Sovietica, dalla Gallia alle zone contese tra i parti e i romani, nella Mesopotamia e nella Siria, là dove nascerà un giorno il mito del “Nerone redivivo”, che farà scontare all’impero tutti i delitti commessi, spesso più sociali che politici.

Di qui anche il concetto del “millennio”, età felice di abbondanza e di giustizia per i poveri, che non ha nulla a che vedere con la supposta paura della fine del mondo alle soglie dell’anno mille, invenzione della scuola romantica.»[1]

Tornando più indietro nel tempo, ancora alla fine del terzo millennio a.c. in Egitto si verificò una vittoriosa ribellione di massa degli strati più umili della popolazione, che arrivarono a distruggere in modo “sacrilego” i corpi “divini” dei sovrani defunti. La sola testimonianza che ci è giunta di quel periodo, da parte di un certo Ipuer, affermò: «Ecco che si sono prodotti degli avvenimenti, che non erano mai esistiti dalla notte dei tempi: il re è stato rovesciato dalla plebe! Sì, Colui che era stato sepolto come Falco, l’hanno strappato dal sarcofago!»[2]

Nel II secolo a.C. si svilupparono nell’area mediterranea movimenti insurrezionali apertamente collettivistici, anche se sotto vesti mistico-religiose: si è già ricordato che attorno al 136 e 104 a.C. gli schiavi siciliani si ribellarono sotto la guida di Euno e Atenione e che in tali situazioni storiche la manodopera servile si appropriò in modo collettivo dei grandi possedimenti fondiari dei propri ex padroni romani continuando ad assicurare la prosecuzione del processo produttivo.

«Atenione era dotato di eccellenti qualità organizzative. Egli adottò un sistema completamente nuovo. Formò un esercito non ammettendo tutti senza scelta, ma limitandosi ad accogliere in esso solamente gli uomini più adatti alle armi. Agli altri ordinò di continuare a lavorare nelle tenute conservando il massimo ordine. In tal modo i possedimenti già organizzati su base schiavistica diventarono comunità di liberi ed avevano il compito di rifornire l’esercito degli schiavi di viveri ed armi. Atenione aveva dichiarato agli schiavi che le stelle gli avevano annunciato (Atenione aveva fama di esperto astrologo) che egli sarebbe diventato il re di tutta la Sicilia e che perciò era necessario risparmiare il paese e le ricchezze che in esso si trovavano, come fossero proprie.» [3]

Anche nel regno di Pergamo (Asia Minore) si verificò una sollevazione di schiavi e di liberi-poveri guidati da Aristonico (132-130 a.C.), che creò un effimero “Stato del Sole”, innescando un processo di aggregazione che coinvolse anche alcune città greche e trace prima di essere stroncato nel sangue dalle forze armate di Roma.

«Noi conosciamo molto male la base ideologica del movimento di Aristonico, ma che una base vi fosse lo dimostra il fatto che il filosofo stoico Blossio di Cuma, amico di Tiberio Gracco, e che aveva gli stessi suoi sentimenti, dopo la morte di quest’ultimo, raggiunse Aristonico. Quando poi il ribelle cadde nelle mani dei Romani, Blossio si uccise. Oltre a ciò, secondo la testimonianza di Strabone, “Aristonico chiama i suoi sostenitori eliopoliti”. Conoscendo l’importanza del culto della divinità solare in Asia e in Siria, si può supporre che il movimento avesse un programma utopistico sociale, ma che fosse, nello stesso tempo, abbellito da motivi religiosi. “Lo Stato del Sole”, doveva essere il regno della libertà e dell’uguaglianza dove non sarebbero esistiti né ricchi né poveri, né schiavi né padroni.»[4]

Amos ed Isaia, Aristonico e Atenione con i loro compagni di lotta rappresentano solo alcuni dei frammenti che compongono il quadro generale del movimento antagonista e collettivistico, sempre represso e soffocato con ferocia dalle classi dominanti e dai loro mandatari politici negli ultimi tre millenni di storia, che condensò e coagulò in modo aperto ed evidente le tendenze latenti e il livello più elevato dei bisogni politico-materiali delle masse popolari e del “proletariato storico”: contadini del modo di produzione asiatico, schiavi e servi della gleba, operai del periodo manifatturiero, operai e lavoratori dipendenti dell’epoca industriale e “post-industriale”.

Tali settori (europei, cinesi, arabi, ecc.) non hanno certo costituito delle vane astrazioni, ma rappresentarono invece donne e uomini in carne ed ossa la cui esperienza storica è stata continuata negli ultimi due secoli dal movimento comunista contemporaneo, nelle sue varie e contraddittorie articolazioni (marxiste, anarchiche e/o anarcosindacaliste, ecc.).

Terza obiezione. «La necessità vitale di effettuare lavori idraulici coordinati ed imponenti per l’irrigazione artificiale dei campi e per il processo produttivo agricolo conduceva inevitabilmente alla creazione di società di classe ed ai cosiddetti stati idraulici dell’antichità: pertanto la cosiddetta “linea rossa” era sconfitta in partenza da fredde ed oggettive necessità economiche.»

L’esperienza storica concreta dimostra invece che non esiste alcuna relazione necessaria tra la creazione di opere idrauliche su vasta scala e la formazione di rapporti di produzione classisti, come insegnano i progressi raggiunti in questo campo dagli Hohokam e Ubaid; del resto lo storico non-marxista J. Diamond ha demolito con efficacia la “teoria idraulica” sulla formazione storica delle classi e dello stato, basandosi su dati di fatto concreti ed inoppugnabili. A suo avviso «una particolare teoria sulla formazione degli stati,  ancora molto popolare, prende le mosse dal fatto assodato che in Mesopotamia, così come in Cina e in Messico, lo stato sorse più o meno contemporaneamente ai primi grandi sistemi di irrigazione, sistemi che richiedono un’organizzazione centralizzata per essere costruiti e mantenuti. Da questa osservazione si ricava un processo di causa ed effetto: alcuni popoli si accorsero di quanto sarebbe stato utile avere un sistema di irrigazione (che, per inciso, non avevano mai visto), e da veri lungimiranti tramutarono le loro inefficienti società in stati in grado di organizzare questi grandi lavori pubblici.

Questa “teoria idraulica” della formazione degli stati si presta alle stesse obiezioni di quella di Rousseau, perché si occupa solo dello stadio finale dell’evoluzione, e non parla dell’impulso fondamentale che spinse dalle bande alle tribù alle chefferie nel corso dei millenni, molto prima che l’idea dell’irrigazione potesse balenare in mente a qualcuno. Inoltre è smentita dai dati archeologici più precisi: in Mesopotamia, Cina, Messico e Madagascar esistevano sistemi di canalizzazione delle acque anche prima della nascita degli stati, e le grandi opere di irrigazione arrivarono più tardi. Tra i maya e sulle Ande, i sistemi idraulici rimasero sempre su scala locale, e ogni piccola comunità poteva costruirsene uno. Quindi la nascita delle grandi opere fu una conseguenza dell’arrivo degli stati, che deve essere spiegato in altro modo.»[5]

Quarta critica. “L’aumento demografico realizzato dalle società neolitiche-calcolitiche portava inevitabilmente alla creazione progressiva di società più complesse e stratificate, ed in ultima analisi alla inevitabile comparsa delle classi privilegiate e dei connessi apparati statali di controllo-repressione-direzione”.

Lo studioso J. Diamond ha aderito in larga parte a questa prospettiva teorica “demografica-sociale”, affermando che «mi sembra che si vada nella giusta direzione se si osserva che il semplice numero degli abitanti di una regione è tra i più sicuri indicatori di complessità della medesima. Abbiamo visto che nel passaggio della banda alle tribù, alle chefferies e agli stati, la popolazione aumenta in modo considerevole, da poche decine fino ad almeno 50.000. Oltre a questa correlazione generale tra numero e tipo di società, se ne osserva una analoga anche all’interno delle singole categorie: le chefferies più popolose, ad esempio, sono sempre le più socialmente stratificate e le più centralizzate.

Questo mostra con chiarezza che la popolazione e la sua densità hanno qualcosa a che fare con la nascita degli stati. Ma non ci dice nulla sul perché ciò accada, su quale sia la funzione precisa del numero nella catena di cause ed effetti che porta alle società complesse. Richiamiamo alla mente, però, cosa porta all’aumento di popolazione; potremo così capire perché una società numerosa ma poco strutturata non è in grado di sopravvivere, e quindi sapere perché la complessità deve per forza andare di pari passo con il numero.»[6]

Tuttavia una serie di dati di fatto storici dà torto a J. Diamond, visto che ad esempio nel periodo compreso tra l’8500 ed il 6000 a.C. Gerico arrivò a contare quasi tremila abitanti: cento volte in più della media delle “bande” e dei clan paleolitici, formati da un numero di individui che oscillava tra “cinque ed ottanta individui” (Diamond).

A dispetto dell’aumento esponenziale del numero delle interazioni individuali, della crescente complessità dei processi decisionali comuni e della progressiva creazione di un’economia redistributiva del surplus, la chefferie collettivista di Gerico seppe “assorbire” e superare con notevole efficienza e per archi temporali plurisecolari i nuovi problemi sociopolitici determinati dall’enorme incremento demografico rispetto al periodo paleolitico, in modo tale che si formò e si riprodusse per molti secoli una società “numerosa e molto strutturata” in assenza felice di classi privilegiate e di apparati statali.

Catal Hüyük arrivò a contare fino a cinquemila abitanti, il doppio di Gerico, ma il raddoppio della popolazione rispetto all’esperienza palestinese non creò sostanziali modifiche nei “vecchi” rapporti di produzione collettivistici, e dal canto loro le numerose città che formavano le culture Ubaid e di Harappa, strutture urbane interconnesse strettamente tra loro, arrivarono a superare complessivamente le decine di migliaia di abitanti: eppure le decine di migliaia di abitanti di Ubaid e di Harappa, un numero equivalente a quello indicato da Diamond, vissero e si produssero per secoli in (felice) assenza di classi privilegiate e stato, con rapporti di produzione prevalentemente collettivistici, ed in modo analogo a quello che avvenne in Cina per la civiltà Yangshao, o per le comunità gilaniche e collettivistiche sviluppatesi nei Balcani tra il 6000 ed il 4000 a.C.

Non esiste pertanto alcuna relazione inevitabile ed automatica tra l’aumento demografico e la creazione delle società di classe: tuttavia l’incremento della popolazione rese potenzialmente molto più facile la conquista militare e lo sfruttamento economico dei gruppi numericamente meno grandi da parte di entità politico-militari avvantaggiate dal controllo di una popolazione maggiore, specialmente se dimostratesi superiori anche dal punto di vista tecnologico-militare (il cavallo), visto che un notevole aumento della popolazione di una data unità politica può provocare una specie di effetto-risiko mediante l’assorbimento a catena per via militare delle strutture più piccole da parte dello stato dominante.

«Le tribù conquistano e si fondono con altre tribù per diventare chefferies, che a loro volta si combinano a formare gli stati, che infine diventano imperi: le unità sociali più grandi hanno molti vantaggi su quelle più piccole, se (ed è un “se” fondamentale) riescono a risolvere in modo efficiente i problemi legati all’aumento di popolazione, come le minacce al governo da parte di altri aspiranti al potere, il malcontento popolare per la cleptocrazia e i problemi dell’integrazione economica delle parti della società.

La fusione di piccoli gruppi in altri più consistenti è ben documentata dalla storia e dall’archeologia.»[7]

Il caso dell’Egitto, con l’unificazione coercitiva di una serie di città indipendenti del Nilo da parte di Narmer-Menes e di Aho, i primi faraoni (3150-3100 a.C.), è sotto questo profilo molto significativa.[8]

Quinta critica. «La presunta linea nera sembra essere un “frutto del demonio”, l’espressione moderna di una metafisica tendenza al Male ritenuta insita nell’animo umano e inventata da una visione del mondo manichea.»

La linea nera costituisce il sottoprodotto della combinazione storica di alcuni elementi materiali, iperconcreti ed antimetafisici.

Del “Grande Evento”, in primo luogo e della genesi e riproduzione costante di un surplus annuale, della nascita e sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento a partire dal 9000 a.C., visto che senza la rivoluzione tecnologico-produttiva del Neolitico non si sarebbe potuto assolutamente manifestare alcuna appropriazione del surplus e dei mezzi di produzione da parte di una minoranza del genere umano; a sua volta la redistribuzione del prodotto sociale e del surplus mediante la chefferie creò ulteriori basi politico-materiali per un possibile utilizzo del pluslavoro a fini privati e a vantaggio di una ristretta minoranza dei clan neolitici- calcolatici.

Il terzo “pezzo” della combinazione venne formato dall’insieme dei vantaggi concreti, materiali, politici e di prestigio sociale che sicuramente derivavano alla minoranza che fosse riuscita con successo ad impossessarsi del surplus e delle condizioni generali della produzione, degli oggetti del lavoro sociale e dei mezzi di produzione.

Nel caso di un “colpo” vittorioso alla roulette della storia, il gruppo diventato privilegiato sul piano socio-politico poteva completamente astenersi dalla partecipazione diretta-indiretta al processo produttivo, in una delle prime forme storiche di rifiuto collettivo del lavoro, mentre  allo stesso tempo era in grado di ottenere livelli di consumo molto più elevati rispetto alla massa della popolazione, godendo pertanto di un elevato status sociale e trovandosi in posizione privilegiata nella scelta sessuale-riproduttiva, oltre a disporre del potere politico, dei mezzi repressivi e di controllo: in ultima analisi il gruppo sociale vincente poteva realizzare la massimizzazione dei risultati con un minimo di sforzo, una volta che si fosse affermato nello scontro per il controllo del potere politico e per il possesso dei mezzi di produzione contro le resistenze degli “esclusi”, dei neo-sfruttati produttori diretti.

Nessuna metafisica del male, ma piuttosto un “egoismo razionale dei privilegiati” o aspiranti tali. Tra l’altro, sul piano storico-generale, la lotta epocale e plurimillenaria sviluppatasi tra la linea “rossa” e quella “nera” è stata affiancata anche da alcune forme di coesistenza di queste ultime nella stessa formazione statale, come dimostrano gli elementi minimali di disuguaglianze esistenti a Catal Hüyük e ad Harappa, o ai primi due “centauri”: “bene” e “male” sono a volte convissuti per secoli e millenni nello stesso corpo sociale, come del resto prevede l’autentica concezione manichea del mondo (senza tenere conto inoltre della riproduzione della proprietà privata della terra da parte dei contadini liberi, sviluppatasi specialmente in Europa occidentale dopo il 1300 a.C.).[9]

Sesta obiezione. “La teoria dell’effetto di sdoppiamento è antimarxista ed entra frontalmente in conflitto con le analisi storico-teorico sviluppate da Marx ed Engels.”

Proprio nella sua ultima fase di esistenza, il genio di Marx dimostrò concretamente come uno dei potenziali lati positivi del marxismo sia rappresentato proprio dalla sua creatività ed elasticità, dalla sua capacità di elaborare e sintetizzare le lezioni derivanti dalle nuove esperienze storiche (o da quelle non ancora conosciute, per vari motivi).

Il nuovo materiale venne fornito a Marx dalla Russia: anche se Marx ed Engels erano in contatto da decenni con svariati esponenti del movimento democratico-rivoluzionario russo, la loro costante attenzione per le lotte politico-sociali che via via si scatenavano nell’impero zarista era stata acuita al massimo grado dall’azione politica e militare espressa dall’intellighentsija russa della Narodnaja Volja (Volontà del Popolo), nel periodo compreso tra il 1879 ed il 1882.

Non solo i due rivoluzionari tedeschi ammiravano l’eroismo e l’abnegazione dei loro nuovi compagni di lotta russi, ma ritenevano anche che esistesse allora la possibilità – remota, ma reale – che l’azione “esemplare” di piccole minoranze potesse far precipitare le profonde contraddizioni che attanagliavano la formazione economico-sociale zarista, autocratica e semifeudale.

In queste condizioni si pose subito un problema teorico di fondo, che riguardò direttamente sia il populismo russo che i piccoli gruppi marxisti che stavano germogliando proprio agli inizi degli anni ottanta nell’impero zarista (Plechanov, V. Zasulic, Akselrod, ecc.), e cioè la domanda se la comune rurale russa, fondata sulla proprietà collettiva del suolo, sarebbe potuta servire da “punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia” (K. Marx, 8 marzo 1881).

Marx fu stimolato direttamente su questo punto proprio dai marxisti “ortodossi” russi che, attraverso una lettera di Vera Zasulic del febbraio 1881, chiesero con una certa trepidazione al loro “maestro” una risposta sui “destini possibili della nostra comune rurale” e, più in generale, “sulla teoria secondo la quale tutti i paesi del mondo devono, per legge storica inevitabile, attraversare tutte le fasi della produzione capitalistica”.[10]

Lo shock provocato dalla risposta di Marx negli “ortodossi” russi fu tale che la lettera (più volte modificata e già citata) di chiarificazione di quest’ultimo non fu mai da loro resa pubblica e rimase segreta e sconosciuta ai rivoluzionari per ben quattro decenni, fino al 1924 e con Stalin già al potere.

«Analizzando la genesi della produzione capitalistica io dico: “Al fondo del sistema capitalistico v’è dunque la separazione radicale del produttore dai mezzi di produzione… la base di tutta questa evoluzione è l’espropriazione dei coltivatori agricoli, dei contadini. Essa non si è finora compiuta in modo radicale che in Inghilterra… Ma tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale percorrono lo stesso movimento”…

La “fatalità storica” di questo movimento è dunque espressamente limitata ai paesi dell’Europa occidentale. Il perché di questa limitazione è spiegato nel cap. XXXII: “La proprietà privata fondata sul lavoro personale… sarà sostituita dalla proprietà privata capitalistica fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui, sul salariato” (op. cit., p. 340).

In questo movimento occidentale, si tratta quindi della trasformazione di una forma di proprietà privata in un’altra forma di proprietà privata. Per i contadini russi, si tratterebbe invece di trasformare in proprietà privata la loro proprietà comune.

Perciò, l’analisi data nel Capitale non fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale; ma lo studio apposito che ne ho fatto, e di cui ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia. Tuttavia, perché essa possa funzionare come tale, occorrerebbe prima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da tutte le parti, poi assicurarle condizioni normali di sviluppo organico.»[11]

Secondo botto teorico: secondo Marx la comune rurale russa poteva anche riuscire a spogliarsi dei suoi “caratteri primitivi” ed a trasformarsi in importante elemento della “produzione collettiva su scala nazionale”, in presenza e con l’appoggio di una eventuale trasformazione rivoluzionaria degli apparati statali russi e della distruzione dell’aristocrazia del paese.

«Rimontando nei secoli, la proprietà comune di un tipo più o meno arcaico si trova dappertutto nell’Occidente europeo; col progresso sociale, essa è dovunque scomparsa. Come potrebbe sfuggire alla stessa sorte in Russia? Rispondo: perché in Russia, grazie a una combinazione di circostanze uniche, la comune agricola, ancora stabilita sull’intera estensione del paese, può gradatamente spogliarsi dei suoi caratteri primitivi e svilupparsi direttamente come elemento della produzione collettiva su scala nazionale. È appunto grazie alla contemporaneità della produzione capitalistica, che essa può appropriarsene tutte le conquiste positive senza passare attraverso le sue peripezie terribili. La Russia non vive isolata dal mondo moderno, e non è nemmeno preda di un conquistatore straniero come le Indie Orientali…

Se, al momento dell’emancipazione, le comuni rurali fossero state messe subito in condizioni di prosperità normale; se, più tardi, l’immenso debito pubblico pagato in grande maggioranza a spese dei contadini, e tutte le altre somme enormi fornite per l’intermediario dello Stato – e sempre a spese dei contadini – alle “nuove colonne della società” trasformate in capitalisti, se tutte queste risorse fossero state poste al servizio dello sviluppo ulteriore della comune rurale, oggi nessuno penserebbe alla “fatalità storica” dell’annientamento della comune; tutti vi riconoscerebbero un elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalista.»[12]

Inoltre si è già riportato in precedenza il brano in cui Marx descrisse il dualismo intrinseco alla forma più avanzata della comune rurale, negando parallelamente l’inevitabilità della vittoria della “linea nera” (costituita da rapporti di produzione classisti) su quella “rossa”, ma vista la sua importanza è meglio rileggerne almeno la parte finale.

«Come… fase ultima della formazione primitiva della società, la comune agricola… è nello stesso tempo fase di trapasso alla formazione secondaria e, quindi, di trapasso dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata. La formazione secondaria, si intende, abbraccia tutta la serie delle società poggianti sulla schiavitù e sul servaggio.

Ma significa ciò che la parabola storica della comune agricola debba fatalmente giungere a questo sbocco? Nient’affatto. Il dualismo ad essa intrinseco ammette un’alternativa: o il suo elemento di proprietà privata prevale sul suo elemento collettivo, o questo s’impone a quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili.»[13]

Un primo embrionale riferimento all’effetto di sdoppiamento? Direi che la risposta non può che essere positiva…

Infine, sempre a giudizio di Marx, il destino storico della comune russa doveva decidersi proprio sul terreno politico, nelle relazioni di potere concrete che a suo giudizio assumevano una centralità indiscutibile per la riproduzione/dissoluzione della comune rurale: in questo senso egli si chiese nel 1881 se potesse verificarsi una rivoluzione russa, capace di creare le condizioni politico-sociali indispensabili affinché il mir potesse servire da “punto di appoggio per la rigenerazione sociale in Russia”.

«Ciò che minaccia la vita della comune russa, non è dunque né una fatalità storica, né una teoria: è l’oppressione da parte dello Stato e lo sfruttamento da parte di intrusi capitalisti, rafforzati a sue spese.

Qui non si tratta più di un problema teorico da risolvere; si tratta di un nemico da abbattere. Per salvare la comune russa, occorre una Rivoluzione russa. Del resto, il governo e le “nuove colonne sociali” fanno del loro meglio per preparare le masse alla catastrofe. Se la rivoluzione scoppierà a tempo opportuno, se l’”intellighentsija” concentrerà tutte le forze “vive del paese” nell’assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico.»[14]

Sembra di leggere Stalin e la teorizzazione del “socialismo in un solo paese”…

Anche se l’analisi raffinata di Marx ebbe per oggetto solo la specifica situazione ed evoluzione futura della Russia, il suo lascito e testamento teorico rappresenta indubbiamente un salto di qualità di grande importanza dato che nel 1881 vennero forgiate categorie quali la presenza di alternative e “biforcazioni” decisive nel processo storico, il dualismo potenziale/reale dei rapporti sociali di produzione nella comune rurale e la loro lotta-coesistenza dialettica, il primato della lotta politico-sociale per il successo o la scomparsa delle diverse relazioni sociali di produzione-possesso e la potenziale “carica progressista” del collettivismo rurale in presenza di determinate condizioni storiche: elementi teorici innovativi, già sottolineati dallo studioso T. Shanin nel suo interessante libro sugli ultimi anni di vita di Marx.

Non fu certamente per responsabilità di Marx se questa sua eredità venne lasciata nel congelatore della storia dalla forte componente dogmatica del marxismo, come non fu certo per responsabilità di Marx se egli ignorava, e non poteva non ignorare, una sequenza impressionante di fatti e dinamiche storiche che sono state conosciute solo dopo il 1883, dopo la sua morte.

Infatti il grande rivoluzionario tedesco non poteva assolutamente essere a conoscenza del distacco storico enorme che ha separato la genesi dell’agricoltura, dell’allevamento e del surplus accumulabile dall’apparizione delle prime formazioni economico-sociali classiste, con i correlati apparati statali: se nel 2008 sappiamo ormai con sicurezza che cinque millenni dividono temporalmente la nascita dell’agricoltura e del surplus dall’affermazione dello stato sumero nella sua prima fase teocratica, dato che il primo fenomeno storico si verificò attorno al 9000 a.C. e il secondo verso il 3700 a.C., Marx era invece forzatamente privo di questo dato storico di grande rilevanza, emerso solo nel corso del XX secolo.

Solo dopo la morte di Marx, inoltre, vennero alla luce tutte le scoperte storiche ed archeologiche che ci hanno fornito la necessaria massa critica di informazioni su Gerico. Su Catal Hüyük. Sugli Ubaid e la seconda rivoluzione produttiva del neolitico. Sugli Hohokam. Sugli Yangshao. Su Chavin. Su Harappa e il collettivismo europeo nell’area balcanica. Su Nevali Cori e sui mounds. Su Longshan e Jenne-Jeno.

Anche rispetto al processo di sviluppo neolitico-calcolitico ed ai grandiosi successi tecnologico-produtivi raggiunti tra il 9000 e il 3900 a.C. dalle formazioni collettivistiche neolitiche, Marx forzatamente non era in grado di disporre degli elementi empirici necessari per la costruzione di un corretto quadro di riferimento storico-generale e non poteva pertanto essere a conoscenza che fino al 3900 a.C. furono proprio società collettivistiche (o prevalentemente collettivistiche) a stimolare il progresso tecnologico e produttivo nel neolitico e calcolitico: furono proprio Gerico, Catal Hüyük, Ubaid, le civiltà gilaniche dei Balcani e degli Yangshao, per citarne solo alcune, che riuscirono a creare l’agricoltura, la ceramica e gli inizi della metallurgia con la fusione del rame, i primi torni e le prime piccole civiltà urbane, ma al grande rivoluzionario tedesco mancavano inevitabilmente questi dati empirici essenziali, emersi via via solo nel corso del XX secolo.

Infine Marx non ebbe il (dubbio) privilegio di assistere alla sostanziale “tenuta” dei rapporti di produzione capitalistici nelle loro punte avanzate occidentali e giapponesi, tra il 1883 ed il 2008 della nostra era, oppure di verificare con i propri occhi i paurosi effetti socio-politici creati dai giganteschi processi di privatizzazione innescati in Russia da Eltsin-Cubais, mandatari politici del capitalismo internazionale ed autoctono nella Russia ex-sovietica.

Marx no. Tutti noi… sì, a patto che si comprenda che il marxismo non rappresenta un dogma, ma viceversa una guida per l’azione e una concezione del mondo capace via via di sintetizzare tutte le reali “novità” che vengono fornite sia dai fronti della lotta di classe che della pratica scientifica e storica: solo sviluppandosi esso si conserva e si riproduce, anche eliminando alcuni suoi elementi superati attraverso l’incorporamento di (parziali) eresie.

Settima possibile critica. “Solo la cosiddetta linea nera, solo ed esclusivamente i rapporti di produzione classisti erano in grado di promuovere lo sviluppo delle forze produttive sociali, condizione indispensabile per il processo di liberazione del genere umano e per l’abolizione finale delle differenze di classe. In ultima analisi, la vittoria storica della “linea nera” su scala planetaria ebbe un carattere progressista, al pari della progressiva sconfitta-scomparsa dei rapporti di produzione collettivistici e della cosiddetta linea rossa neolitica-calcolitica. Detto in altri termini, la futura formazione economico-sociale comunista avrà per sempre un debito per la sua nascita-affermazione con la borghesia e con le società classiste che hanno preceduto storicamente il capitalismo, ivi compresa quella schiavistica, dato che esse hanno svolto inconsciamente un ruolo positivo per lo sviluppo generale del genere umano, seppur infliggendo e provocando lacrime, sudore e sangue per millenni e su scala mondiale alle masse popolari, mentre purtroppo la linea rossa era invece retrograda, reazionaria e soprattutto condannata dalla dialettica storica, in cui assume un ruolo centrale lo sviluppo delle forze produttive sociali: senza tale dinamica si riformerebbe sempre, prima o poi, la “vecchia merda” (Marx) della penuria, dell’avidità e delle disuguaglianze sociali, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E almeno fino al 1825, data della prima crisi economica generale del capitalismo, la borghesia ha svolto un ruolo decisivo nello sviluppo delle forze produttive sociali, ereditando tale funzione dalle precedenti formazioni economico-sociali classiste”.

Si possono fornire numerosi testi di Marx ed Engels in cui i due grandi rivoluzionari tedeschi sostennero realmente e senza esitazioni la tesi del carattere progressivo (in ultima analisi) dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata dei mezzi di produzione e del surplus-pluslavoro sociale, come ad esempio il passo del 1853 in cui Marx descrisse gli effetti rivoluzionari prodotti dal dominio coloniale inglese in India.

«Le comunità familiari erano basate sull’industria casalinga in quella peculiare combinazione di tessitura a mano, filatura a mano, agricoltura a mano, che le rendeva autosufficienti. L’intervento inglese, avendo collocato il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o spazzato via tanto il filatore quanto il tessitore indù, ha distrutto queste piccole comunità semi-barbare e semi-civili, facendone saltare in aria la base economica e in tal modo causando la più grandiosa e, a dire il vero, l’unica rivoluzione sociale che l’Asia abbia mai conosciuto.

Ora, per quanto sia sentimentalmente deprecabile lo spettacolo di queste miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive, disorganizzate e dissolte nelle loro unità, gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati ad un tempo della forma di civiltà tradizionale e dei mezzi ereditari di esistenza, non si deve dimenticare che queste idilliache comunità di villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base del dispotismo orientale, che racchiudevano lo spirito umano entro l’orizzonte più angusto facendone lo strumento docile della superstizione, asservendolo a norme consuetudinarie, privandolo di ogni grandezza, di ogni energia storica. Non si deve dimenticare l’egoismo barbarico che, concentrandosi tutto su un misero lotto di terreno, aveva assistito inerte alla rovina di imperi, alla perpetrazione di crudeltà indicibili, al massacro della popolazione di grandi città, senza rivolgere loro più attenzione che agli eventi naturali – facile preda esso stesso di qualunque aggressore si degnasse di prenderne notizia.

Non si deve dimenticare che questa vita priva di dignità, stagnante, vegetativa, questo modo di esistere passivo, evocava per contrasto selvagge, cieche e indomabili forze di distruzione, e dello stesso omicidio faceva, nell’Indostan, un rito religioso. Non si deve dimenticare che queste piccole comunità erano contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù; che assoggettavano l’uomo alle circostanze esterne invece di erigerlo a loro sovrano, e, trasformando uno stato sociale autoevolventesi in un destino naturale immutabile, alimentavano un culto degradante della natura il cui avvilimento si esprime nel fatto che l’uomo, il signore della natura, si prostra adorando ai piedi di Hanuman, la scimmia, e di Sabbala, la vacca. È vero: nel promuovere una rivoluzione sociale nell’Indostan, la Gran Bretagna era animata dagli interessi più vili, e il suo modo di imporli fu idiota. Ma non è questo il problema. Il problema è: può l’umanità compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione nei rapporti sociali dell’Asia? Se la risposta è negativa, qualunque sia il crimine perpetrato dall’Inghilterra, essa fu, nel provocare una simile rivoluzione, lo strumento inconscio della storia.»[15]

Verso il 1875-79, a mio parere, Marx cominciò a cambiare opinione sullo “strumento inconscio della storia”, ma la tendenza principale del suo lavoro teorico sul carattere progressivo delle formazioni economico-sociali classiste non poté certo essere capovolta dall’eccezionale lettera del 1881, rimasta tra l’altro ad uno stadio (genialmente) embrionale; non a caso nel 1875 Engels ribadì la “classica” analisi marxiana sul carattere rivoluzionario ed indispensabile assunto dal “regime borghese” per una lunga fase di sviluppo storico del genere umano proprio nel corso di una polemica con il blanquista russo Tkaciov, affermando che «la rivoluzione alla quale mira il socialismo moderno è, in sintesi, la vittoria del proletariato sulla borghesia, e il riordinamento della società mediante la soppressione di ogni differenza di classe. Essa presuppone non solo un proletariato che compia questa trasformazione radicale, ma una borghesia nelle cui mani le forze produttive sociali abbiano raggiunto un tale grado di sviluppo, che la soppressione definitiva delle differenze di classe sia possibile. Anche fra i selvaggi e semiselvaggi le differenze di classe spesso non esistono; tutti i popoli sono passati attraverso questo stadio, ma noi non ci sogneremmo neppure di ristabilirlo, se non altro perché appunto da quella base di partenza, con lo sviluppo delle forze di produzione sociali, le differenze di classe necessariamente si generano. Solo raggiunto un certo grado di incremento delle forze produttive sociali (e, per l’epoca nostra, un grado molto avanzato) si potrà aumentare la produzione al punto che l’abolizione delle differenze di classe non solo non provochi un arresto o, perfino, un ritorno indietro del modo di produzione sociale, ma rappresenti un progresso vero e duraturo. Ora, questo grado di sviluppo è stato raggiunto dalle forze produttive soltanto in regime borghese. Anche sotto questo profilo, dunque, la borghesia è non meno del proletariato una premessa necessaria della rivoluzione socialista, e dire che questa rivoluzione è più facilmente realizzabile in un paese appunto perché questo non possiede, è vero, un proletariato, ma non possiede nemmeno una borghesia, significa non conoscere neppure l’abbiccì del socialismo.»[16]

Tre anni dopo, nell’AntiDühring, Engels portò fino alle sue logiche conseguenze questa tesi generale sostenendo che senza la schiavitù non si sarebbero potute creare le condizioni materiali e produttive indispensabili per l’affermazione storica del socialismo moderno.

La critica in esame può essere scomposta in due sotto-tesi, tipiche del marxismo “ortodosso”:

–         i rapporti di produzione collettivistici non erano assolutamente adatti ad assicurare e stimolare il processo di sviluppo delle forze produttive sociali.

–         i rapporti di produzione classisti, viceversa, sono stati in grado di portare a termine questo essenziale compito storico, creando inconsciamente le condizioni necessarie per il futuro successo della formazione economico-sociale comunista (“a ciascun secondo i suoi bisogni”).

A questo proposito va riconosciuto apertamente che il marxismo “ortodosso” mostra due facce e rappresenta un Giano bifronte, visto che la sincera, lucida volontà rivoluzionaria tesa alla distruzione del modo di produzione capitalistico si collega in esso ad un particolare lato anticomunista, relativo alla storia passata del genere umano e secondo il quale quest’ultimo non poteva non passare per le forche caudine, crudeli ma “progressiste”, delle società classiste.

Ora, se Marx ed Engels avevano sicuramente ragione nel focalizzare l’attenzione sull’importanza decisiva e sulla centralità dello sviluppo delle forze produttive, correttamente inteso come supporto indispensabile per la crescita costante del livello di soddisfazione dei bisogni del genere umano (educazione, sanità, consumi, tempo libero, cultura, attività ludiche, sicurezza e previdenza sociale), essi purtroppo sbagliavano nell’individuare l’alfiere dello sviluppo progressista delle forze produttive sociali, il “campione” (volontario-involontario) del processo di liberazione del genere umano.

Partendo infatti dalla prima sotto-tesi, che erroneamente denigra la “linea rossa” (fino al 1883/1895, anche per un’incolpevole mancanza di dati empirici indispensabili/forzatamente indisponibili), si può subito osservare che i rapporti di produzione collettivistici e comunisti-primitivi accompagnarono l’Homo sapiens nella lunga e difficile dinamica storica che lo trasformò progressivamente da un ominide nella specie attuale, mediante il lavoro collettivo e la riproduzione di mezzi di produzione e di distruzione (fuoco incluso): lo stesso Engels illustrò con efficacia, supportato in seguito dai dati della paleoantropologia, il processo reale con cui il lavoro di gruppo e la cooperazione crearono il genere umano, una volta che quest’ultimo raggiunse la statura eretta per motivi geo-climatici.

«Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il più rozzo coltello di pietra. Perciò le operazioni alle quali i nostri antenati impararono ad abituare la loro mano, a poco a poco, nel corso di molti millenni, non possono essere state all’inizio se non molto semplici. I selvaggi più arretrati, anche quelli nei quali c’è da supporre una ricaduta nello stato più propriamente animale con contemporanea involuzione dell’organismo, sono sempre a un livello molto superiore a quello di quegli esseri di transizione. Perché si arrivasse al momento in cui il primo ciottolo fu lavorato dalla mano dell’uomo fino ad essere trasformato in coltello, possono essere trascorse epoche di lunghezza tale che al confronto l’epoca storica a noi nota può apparire insignificante. Ma il passo decisivo era compiuto: la mano era diventata autonoma e poteva ora acquistare una crescente destrezza: la maggiore scioltezza così acquistata si trasmise e si accrebbe di generazione in generazione.

La mano non è quindi soltanto l’organo del lavoro: è anche il suo prodotto. La mano dell’uomo ha raggiunto quell’alto grado di perfezione, sulla base del quale ha potuto compiere i miracoli dei dipinti di Raffaello, delle statue di Thorwaldsen, della musica di Paganini, solo attraverso il lavoro: attraverso l’abitudine a sempre nuove operazioni, attraverso la trasmissione ereditaria del particolare sviluppo dei muscoli, dei tendini, e, a più lungo andare, anche delle articolazioni, per questa via acquisito: attraverso la sempre rinnovata elaborazione dei perfezionamenti così ereditati per mezzo di nuove, e sempre più complicate, operazioni…

Per l’azione congiunta della mano, degli organi vocali e del cervello, che esercitò la sua influenza non soltanto su ogni singolo individuo, ma anche sulla società, gli uomini divennero capaci di compiere operazioni sempre più complicate, di proporsi mete sempre più elevate e di raggiungerle. Il lavoro stesso, col passare delle generazioni, divenne altra cosa: divenne più completo, più multiforme. Alla caccia e alla pesca seguì l’agricoltura, a quest’ultima la filatura e la tessitura, la lavorazione dei metalli, la ceramica, la navigazione.»[17]

L’autotrasformazione progressiva del genere umano mediante il lavoro cooperativo si realizzò nel paleolitico attraverso una serie di conquiste: lavorazione/percussione di pietra ed ossa; conservazione e produzione artificiale del fuoco; costruzione di abitazioni in legno; lavorazione dei coloranti (ocra rosso); produzione di vestiti (aghi, filo) furono i primi passi fondamentali del processo di autocrescita della nostra specie.[18]

In seguito, nell’ultima fase del Paleolitico, il genere umano inventò anche l’arco e le frecce, produsse dei minuscoli e raffinati oggetti di lavoro in pietra (microliti) ed in osso, scoprì la mummificazione dei cadaveri (tribù dei Chamorro, 6000 a.C.) e l’arte di costruire cesti (11000 a.C.), la ceramica e l’arte figurativa (grotte di Altamira e Lascaux).

A Dolni Vestonice, nell’attuale Repubblica Ceca, sono stati ritrovati oltre 10.000 statuette in argilla, create in una fornace paleolitica di notevoli dimensioni e fatta a ferro di cavallo: la produzione di questa arcaica fabbrica di ceramica, del 24000 a.C., serviva molto probabilmente per scopi magico-religiosi.

Successi analoghi furono raggiunti in modo indipendente anche all’altra estremità del globo,visto che in Giappone i più antichi recipienti di terracotta e di ceramiche risalgono all’11000 a.C., prodotti dalla cultura Jomon.[19] In America Latina (Monte Verde, Cile), sono stati scoperti una serie di siti di cacciatori-pescatori che coltivavano le patate prima del 12000 a.C.; in Siberia sono state ritrovate statuette di avorio del 13000 a.C., mentre con tutta probabilità alcune popolazione marittime del Paleolitico solcavano gli oceani a bordo di zattere di balsa, imitate dalla spedizione effettuata dall’esploratore Thor Heyerdahl con il suo  famoso battello Kon Tiki.[20]

Una serie di “popoli marinari” colonizzarono la Polinesia e l’Australia, a partire dal 60000 a.C., e mantennero quasi sicuramente rapporti di scambio reciproco tra l’America e l’Asia fino all’inizio della nostra era, come testimoniano la diffusione antecolombiana dall’America verso l’Asia della patata dolce, della noce di cocco e del cotone americano, e della banana dall’Asia all’America.

Ma non solo: si sono già ricordati in precedenza i grandi risultati tecnologici ottenuti dalle formazioni collettivistiche del neolitico-calcolitico, partendo dalla punta avanzata di Gerico fino ad arrivare alla civiltà Ubaid. Le culture neolitiche e calcolitiche collettivistiche, spesso di origine africana, via via crearono l’agricoltura e l’allevamento, la tessitura e la metallurgia, l’idraulica e l’arte dell’irrigazione, re-inventarono la ceramica ed a loro dobbiamo le prime nozioni di medicina e di matematica; esse erano in grado di spostarsi su lunghe distanze per via acquea, come testimonia la canoa in legno del 5500 a.C. trovata a Zhejiang, in Cina. Tra gli oggetti che si potevano trovare a Catal Hüyük o a Eridu vi erano costruzioni a due piani, porte dotate di cardini, camini, vasi raffinati e oggetti in bronzo, tessuti lavorati a mano e pelli conciate, barche ed i disegni, che rappresentavano forme rudimentali di scrittura.[21]

Tra il 10000 ed il 3900 a.C., infine, si verificò una crescita indiscutibile ed accelerata della popolazione mondiale aumentata secondo stime prudenti dai circa 6 milioni del 10000 a.C. ai 60 di sei millenni dopo, sempre in presenza di rapporti di produzione/distribuzione collettivistici ancora largamente egemoni su scala planetaria.

In altri termini, tutti i dati empirici suggeriscono in modo combinato l’idea che i rapporti di produzione collettivistici siano stati perfettamente compatibili con una serie di balzi in avanti realizzati in cinque millenni dalle forze produttive sociali, a partire dal potenziale mentale-manuale della forza-lavoro umana, indicando anzi come la cooperazione nel processo produttivo e l’egualitarismo nelle relazioni sociali abbia stimolato e favorito questi enormi salti di qualità tecnologico-economici, costituendone il supporto e la base sociale indispensabile.

Dopo il 3900 a.C. avanzate strutture collettivistiche del neolitico-calcolitico sono state via via sopraffatte via dalle ondate migratorie-militari dei popoli nomadi protoclassisti, che (tra le altre cose) hanno impedito loro di dimostrare concretamente se fossero realmente in grado di favorire un ulteriore livello di sviluppo degli strumenti di produzione e della divisione del lavoro sociale: è sicuro tuttavia che questa “forza propulsiva” sia esistita e si sia manifestata realmente ed a balzi improvvisi almeno fino al 3900 a.C., fino alla “catastrofe” costituita dalle vittoriose invasioni dei barbari ed arretrati nomadi (che tuttavia disponevano del cavallo, vero e proprio carro armato dell’antichità).

Passando invece ad esaminare le presunte grandi prestazioni tecnologiche produttive espresse dalla linea nera e dei rapporti di produzione classisti, una volta che questi ultimi ebbero raggiunto l’egemonia in quasi tutte le formazioni economico-sociali a partire dal 3700 a.C. (data d’inizio dello stato sumero-teocratico), troviamo subito una prima sorpresa e un primo “pugno nell’occhio” di natura teorica.

Se infatti si prende in considerazione sul piano generale il periodo che va dal 3700 a.C. fino al 1680 d.C., comprendendo quindi più di cinque millenni di storia, emerge subito la semi-stagnazione del livello di sviluppo delle forze produttive “civili” e non-belliche avvenuta durante questo arco temporale: in più di cinque millenni di esistenza i rapporti di produzione classisti, ivi compresi quelli capitalistici, non riuscirono a creare un vero e proprio salto di qualità in campo economico-produttivo rispetto al punto di partenza dell’epoca tardo-Ubaid.[22]

Seconda sorpresa: per i quasi 5500 anni presi in esame, le formazioni economiche sociali classiste (ivi comprese quelle capitalistiche) furono dominate dal complesso di Erone, dalla loro incapacità quasi totale di utilizzare efficacemente e su larga scala invenzioni e scoperte scientifico-tecnologiche già esistenti, che avrebbero potuto creare dei veri e propri balzi in avanti nel grado di sviluppo delle forze produttive sconvolgendo dalle fondamenta i vecchi modi di produzione e di divisione del lavoro.

Il primo “pugno nell’occhio” apparentemente cozza e si scontra con le abituali e “normali” concezioni del processo storico umano, ma rappresenta una realtà oggettiva.

Sebbene nel 1680 d.C. l’Olanda e la Gran Bretagna fossero sicuramente le punte avanzate del processo produttivo mondiale, in termini di livello qualitativo di sviluppo delle forze produttive sociali (sotto l’aspetto quantitativo la Cina negli stessi anni invece superava di gran lunga le migliori “lepri” europee), entrambi gli stati in quell’anno avevano sul piano qualitativo superato solo di poco i risultati tecnologici, produttivi ed economici raggiunti dagli Ubaid più di cinque millenni prima. Un deciso sorpasso qualitativo era avvenuto solo nei seguenti settori:

–         mezzi di distruzione: bronzo, ferro e acciaio, polvere da sparo, fucili e cannoni, navi con artiglieria a bordo, ecc.

–         produzione di ferro-acciaio

–         mulini ad acqua e a vento

–         stampa e carta

–         bussola

–         aratri in ferro

–         scrittura

–         orologi (ad acqua, meccanici, ecc.)

–         lenti

–         la ruota

–         uso del carbone

–         pompa a catena[23]

I notevolissimi, indiscutibili risultati raggiunti nel campo militar-tecnologico fanno risaltare con maggiore intensità la relativa modestia delle “prestazioni” espresse e generate nel settore produttivo-civile dalle formazioni economico-sociali classiste, a dispetto dei più di cinquemila anni di tempo avuti a loro disposizione e della quantità di forza lavoro semplice-qualificata erogata complessivamente in questo lungo periodo storico, molto superiore a quella invece disponibile nel neolitico-calcolitico.

Nella prima sezione “bellica” si trovano, in forma condensata, tutta una serie di rivoluzioni del complesso militar-produttivo, che resero la potenza militare a disposizione della Gran Bretagna nel 1689 assolutamente incomparabile con quella degli Ubaid, quasi sei millenni prima. Sotto questo aspetto è sufficiente pensare alla combinazione carro-cavallo-arco, alle armi in bronzo e ferro, agli ordigni d’assedio greco-romani e alla polvere ad sparo-cannoni del tardo Medioevo, alle navi da guerra anglo-olandesi e ai moschetti del Cinquecento-Seicento: le classi privilegiate post-calcolitiche erano troppo interessate alla sfera bellica, per ragioni interne e internazionali, per non stimolare quasi sempre il processo di sviluppo qualitativo degli armamenti e del complesso militar-produttivo delle loro nazioni.

Nella seconda sfera “civil-produttiva”, invece, i concreti passi in avanti realizzati prima della Rivoluzione Industriale del 1765-1830 non riuscirono a fare raggiungere la necessaria massa critica e a determinare un salto di qualità decisivo in capo tecnologico-produttivo: tra il 3700 a.C. e il 1689 d.C. non apparvero le macchine a vapore (a dispetto del genio di Erone), le combinazioni sistematiche di forze motrici meccaniche e strumenti utensili costituirono rarità eccentriche introdotte sporadicamente solo nel XVII secolo, ferrovie e navi a vapore non entrarono neanche nell’immaginario collettivo e nei sogni utopici.

Lo stesso Engels, nella sua Dialettica della Natura, fornisce per forza di cose solo un breve elenco delle innovazioni tecnologiche “civili” verificatesi in Occidente dal 200 a.C. al 1550 d.C., vista la relativa scarsità di queste ultime (molte delle quali, tra l’altro, di origine cinese o araba).

«Nota storica. Invenzioni

Avanti Cristo.

Pompa da incendio. Orologio ad acqua circa 200 a.C., pavimentazione delle strade (Roma).

Pergamena circa 160.

Dopo Cristo.

Mulino ad acqua sulla Mosella, circa 340; in Germania al tempo di Carlomagno.

Prima traccia di vetri da finestra, illuminazione delle strade in Antiochia circa 370.

Bachi da seta dalla Cina in Grecia circa 550.

Penne da scrivere nel VI secolo.

Carta di cotone dalla Cina agli arabi nel VII secolo, in Italia nel IX

Organi idraulici in Francia nell’VIII secolo.

Miniere d’argento dello Harz sfruttate dal X secolo.

Mulino a vento attorno al 1000.

Note musicali. La scala tonale di Guido d’Arezzo attorno al 1000.

Allevamento del baco da seta (importato) in Italia attorno al 1100.

Orologi a ruote, c.s.

Ago magnetico dagli arabi agli europei circa 1180.

Pavimentazione delle strade a Parigi 1184.

Occhiali a Firenze, specchio di vetro.

Salatura delle aringhe. Chiuse.

Orologi a ripetizione. Carta di cotone in Francia.

Carta di stracci, principio del XIV secolo.

Cambiale, metà del detto [secolo].

Prima cartiera in Germania (Norimberga) 1390.

Illuminazione delle strade in Londra. Principio del XV secolo.

Posta in Venezia, c.s.

Incisione sul legno e stampe, c.s.

Incisione su rame. Metà del detto.

Posta con i corrieri in Francia 1464.

Miniere d’argento negli Erzgebirge in Sassonia 1471.

Clavicembalo a pedale inventato nel 1472.

Orologi da tasca, carabine ad aria compressa, acciarino da fucile, fine del XV secolo.

Filatoio 1530.

Campana d’immersione per palombari 1538.»[24]

Inoltre persino i risultati positivi ottenuti in campo produttivo-tecnologico civile dalle società classiste, tra il 3700 a.C. ed il 1700 d.C., sono almeno in parte dovuti e preparati dalla pratica delle società collettivistiche del Neolitico, come emerge chiaramente se si esaminano i casi della metallurgia, della scrittura, della ruota e del commercio.

Uno dei maggiori successi delle formazioni economico-sociali classiste in questo lungo periodo storico, la produzione di ferro-acciaio, era stato preceduto e preparato in gran parte dalle conquiste delle culture del Calcolitico, prevalentemente collettivistiche: infatti attorno al 6000 a.C., a Catal Hüyük, esse iniziavano a realizzare la fusione del rame a temperature che superavano i mille gradi, come risulta dalle scorie di rame e piombo ritrovati dall’archeologo James Mellaart, in modo che si può affermare che l’età del bronzo e quella del ferro rappresentano la diretta figlia di questa prima rivoluzione tecnologica-metallurgica.

La scrittura, che ampliò indiscutibilmente le possibilità di memorizzazione, di comunicazione e di conoscenza del genere umano, ha rappresentato il frutto di uno sviluppo cumulativo che trovò le sue prime e forti radici nell’era neolitica attorno al 8000-4000 a.C., partendo da quelle primordiali compilazione e archiviazioni di registri contabili che prepararono il terreno per la scrittura cuneiforme sumera: a Tepe Asiab, in Iran; a Ghazal, in Giordania; a Beldibi, nella Turchia sudoccidentale, e in alcuni villaggi siriani nacquero i primi “contabili” con i loro rudimentali codici visivi. Il protocontabile «per risolvere il problema di registrare i propri beni ebbe un’idea molto semplice: fabbricò dei contrassegni di argilla. A ogni forma diversa di contrassegno assegnò un significato: un contrassegno di forma conica significava una piccola misura di grano, una sfera significava una misura più grande di grano e un cilindro significava un animale. Fu un’invenzione semplice ma rivoluzionaria: il primo codice visivo, il primo sistema di manufatti creati al solo scopo di comunicare informazioni precise su quantità specifiche di merci come grano e animali.

Questo sistema era destinato a una lunga vita e rimase in uso per cinquemila anni. Quando nacquero le città, alla fine del IV millennio a.C., i contrassegni si erano evoluti, dando origine a un sistema complesso con numerose forme e con segnature incise o punzonate, che servivano a registrare molti tipi di beni con una maggiore precisione. Per esempio, c’erano contrassegni speciali per i montoni, per le pecore e per gli agnelli (era cioè possibile distinguere gli animali per sesso e per età). Si inventarono poi contrassegni di forma nuova per registrare cibi trattati come anatre da arrostire, miele e pane, e ancora per altri manufatti come la lana, i tessuti, i vestiti, i tappeti, le barche e altri attrezzi, e per beni di importazione come i metalli.

Certo, il sistema dei contrassegni era arcaico; dall’inizio alla fine del suo periodo d’uso, i contrassegni rappresentarono sempre il numero di unità di beni in una corrispondenza uno-a-uno. Sei anfore d’olio erano indicate da sei ovoidi, dieci anfore da dieci ovoidi. Tenere registri con il sistema dei contrassegni era scomodo e ingombrante.»[25]

Tali “codici visivi” costituirono solo gli embrioni iniziali della scrittura, ma indubbiamente rappresentarono una base materiale di partenza sviluppata in seguito nell’Europa collettivistica dei Balcani con il suo culto della dea Grande Madre (5500 a.C.), come hanno notato nella loro prefazione all’opera collettiva Origini della scrittura gli studiosi G. Bocchi e M. Ceruti.

«In secondo luogo, le radici della stessa scrittura cuneiforme appaiono estendersi ai processi molto ampi della rivoluzione neolitica, che a partire dall’8000 a.C. aveva coinvolto Anatolia, Siria, Palestina e Mesopotamia e si era poi diffusa, con un ampio fronte d’urto, da un lato verso il continente europeo e dall’altro verso l’altopiano iranico e il subcontinente indiano. Le forme stesse del cuneiforme possono essere ricondotte alle nuove pratiche di conto e di registrazione imposte dall’agricoltura e dall’allevamento, che presero corpo in sigilli e gettoni millenni prima di incarnarsi nel sistema compiuto rappresentato nelle tavolette d’argilla. Già in questa fase, anzi, le radici più remote della scrittura e della moneta si trovavano strettamente intrecciate.

In terzo luogo, grazie a un’intuizione di Marija Gimbutas, sta emergendo un’altra pista di ricerca che ci conduce all’”Europa antica” dei Balcani, a partire all’incirca dal 6000-5000 a.C In questa civiltà potrebbe essere esistita una sorta di scrittura con finalità religiose e rituali connesse al culto della Grande Dea. Le forme generate allora non solo si sarebbero sviluppate nei millenni successivi, ma avrebbero anche direttamente influenzato alcune forme delle scritture di Creta e delle civiltà egee: lo mostrerebbero filiazioni e parallelismi tra i segni dei primi siti balcanici, della lineare A in ambito egeo-cretese e della scrittura sillabica cipriota ancora esistente in età classica. In definitiva, l’origine e le prime fasi di evoluzione della scrittura avrebbero coinvolto tutto l’ampio spazio di sovrapposizione fra Occidente e Oriente, e sarebbero contraddistinte da una pluralità di origine non solo geografica ma anche funzionale, soprattutto economica e religiosa.»[26]

La protoscrittura europea si sviluppò nella cultura collettivistica di Vinca, come testimoniano alcune serie di segni che compaiono su piccoli oggetti rinvenuti in Romania, Serbia, Macedonia e Bulgaria: tale forma primordiale di comunicazione scritta precedette di due millenni quella “scoperta” dai sumeri nel 3300 a.C. e sopravvisse a Creta fino al 1500 a.C., mentre anche a migliaia di chilometri di distanza, nell’area geopolitica cinese, sono stati ritrovati in molti siti neolitici dei pittogrammi che hanno svolto quasi sicuramente il ruolo di antichi caratteri per la protoscrittura cinese (sito di Damaidi, tra gli altri) molto prima dell’epoca classista dei Xia.

Anche la grande “invenzione” della ruota da parte dei sumeri nel 3000 a.C. venne quasi sicuramente preceduta da un’analoga scoperta effettuata dalla cultura Halaf in Mesopotamia, venti secoli prima, mentre le civiltà collettivistiche dell’Indo raggiunsero dei risultati tecnologici nei trasporti analoghi a quelli sumeri, nello stesso periodo e in modo probabilmente indipendente dalla zona mesopotamica.

Per quanto riguarda il “commercio internazionale”, inteso come scambio di prodotti tra società autonome tra di loro, già gli uomini di Cro Magnon (45000-12000 a.C.) scambiavano conchiglie, selce e altre pietre su aree molto estese e fin dall’8000 a.c. la civiltà collettivistica di Gerico si procurava ossidiana dalla lontana Anatolia.[27]

«Certo, in principio il rapporto quantitativo di scambio fra i prodotti delle diverse comunità era casuale, visto che spesso venivano scambiati oggetti di cui una comunità poteva disporre in eccesso, a causa del basso tempo mediamente necessario alla loro produzione (per abbondanza di materie prime, particolari conoscenze tecniche, ecc.), mentre l’altra, per condizioni opposte, necessitava di molto più tempo, e quindi era disposta ad “acquistarli” al di sopra del loro valore.» Negli studi antropologici – si veda M. Sahtins, L’economia dell’età della pietra – non è raro imbattesi in descrizioni di “sistemi commerciali” primitivi in cui una tribù scambia con un’altra degli oggetti di “valore” incomparabile, grazie al fatto che l’acquirente ignora la loro natura e quindi quale sia il tempo necessario alla loro produzione: ciotole di ceramica sono per esempio ritenute conchiglie rare da chi è allo stadio pre-ceramico, quindi scambiabili al di fuori di ogni reale equivalenza nel tempo di lavoro socialmente necessario a produrle.

«Solo con lo stringersi dei rapporti fra due diverse comunità la ragione di scambio va a coincidere con il valore. A poco a poco, il bisogno di oggetti d’uso altrui si consolida. La ripetizione costante dello scambio lo trasforma in un processo sociale regolare. Nel corso del tempo, almeno una parte dei prodotti del lavoro deve perciò essere deliberatamente prodotta a fini di scambio. Da questo momento, da un lato si consolida la scissione fra l’utilità delle cose per il fabbisogno immediato e la loro utilità ai fini dello scambio, il loro valore d’uso si separa dal loro valore di scambio; dall’altro, il rapporto quantitativo in cui esse si scambiano viene a dipendere dalla loro stessa produzione. L’abitudine le fissa come grandezze di valore.»[28]

Tiriamo alcune somme.

Dato che gli Ubaid avevano raggiunto rendimenti agricoli per ettaro quasi comparabili con quelli olandesi di fine Seicento e che le loro opere di irrigazione artificiale, di protezione e di drenaggio erano di un livello non molto inferiore a quello britannico e dei Paesi Bassi degli inizi del XVIII secolo; che la produttività alimentare e tessile dei predecessori dei Sumeri sul piano qualitativo non era certo molto inferiore a quella raggiunta dopo cinquantaquattro secoli dalla borghesia manifatturiera europea (gli Ubaid e il primissimo periodo sumero conoscevano già il telaio a mano) e che ancora nel 1700 le principali fonti di energia motrice erano gli uomini e gli animali, come nel neolitico-calcolitico (i mulini ad acqua e a vento rimanevano confinati in aree limitate), non si può non concludere che rispetto ai risultati tecnologico-produttivi raggiunti dalle culture di Ubaid o di Harappa anche le punte avanzate delle formazioni economico-sociali classiste per millenni abbiano proceduto a “ritmo di lumaca”, ottenendo nel settore economico-civile progressi qualitativi reali, ma limitati. Pertanto:

–         a dispetto di una base di partenza produttiva relativamente avanzata, rappresentata dalle conquiste degli Ubaid o della zona indiana

–         a dispetto di un periodo temporale di cinquantaquattro secoli avuto a propria disposizione

–         a dispetto dell’incremento quantitativo della forza lavoro globale impiegata, molto superiore a quella del Neolitico-Calcolitico…

… le diverse formazioni economico-sociali classiste fino al 1760 d.C. non riuscirono a creare una propria ed autonoma rivoluzione tecnologico-produttiva: in sostanza il processo di sviluppo delle forze produttive sociali non fu certo molto agevolato, sotto il profilo qualitativo, dall’egemonia esercitata dai multiformi rapporti di produzione classisti riprodottisi per cinquantaquattro secoli.

Esaminiamo ora separatamente le loro diverse “performance” produttive, partendo dal modo di produzione asiatico che rappresentò quasi sempre una forza statica e conservatrice per quanto riguarda il settore tecnologico-civile.

Marx nel 1853 sbagliò nell’attribuire la responsabilità storica del conservatorismo e della società indiana alla povere, oppresse e martoriate comunità di villaggio, sfruttate sistematicamente e senza alcuno scrupolo da quelle élite politico-sociale che rappresentavano il lato principale e dominante del “centauro” formato dal modo di produzione asiatico.

La stagnazione sostanziale delle forze produttive sociali, che non escludeva progressi tecnologici limitati in alcuni segmenti del processo produttivo complessivo, costituì per millenni una delle costanti fondamentali del modo di produzione asiatico: nel corso della loro lunga fase di esistenza storica, in un’area geografica che si estese dall’India fino a molte zone dell’America precolombiana, i rapporti di produzione classisti-asiatici e l’oppressione esercitata costantemente da una ristretta minoranza sulle comunità contadine semicollettivistiche bloccarono con un “successo” quasi completo sia lo sviluppo qualitativo del processo produttivo che l’applicazione su larga scala delle nuove conoscenze tecnico-scientifiche, scoperte autonomamente o importate dall’esterno.

Secondo E. L. Jones e S. J. Woolf, «una delle più amare lezioni della storia è che agricolture tecnicamente avanzate e fisicamente produttive non comportano inevitabilmente una crescita prolungata del reddito reale per capita, e ancora meno promuovono l’industrializzazione. Le civiltà dell’antichità, con la costruzione di agricolture elaborate, forniscono un punto di partenza. Nessuna di esse, nel Medio Oriente, a Roma, in Cina, nell’America centrale.. portò ad una economia industriale. Tecnicamente la loro organizzazione agricola era superba… Parimenti, la quantità di grano che esse producevano era impressionante. Tuttavia la loro storia sociale è un terribile susseguirsi di cicli di produzione senza una durevole ascesa del reddito reale per la massa della popolazione, sia nei momenti favorevoli sia in quelli sfavorevoli.

Il dato comune, soprattutto per gli imperi che disponevano di agricolture irrigue, era il potere immenso di un apparato statale basato su una burocrazia impegnata nella difesa contro le minacce esterne e per il mantenimento interno della propria posizione. Parlando della storia a grandi linee, sarebbe giusto concludere che tali burocrazie mirarono a creare e riuscirono a mantenere grandi società contadine per lunghi periodi di tempo e con qualsiasi densità di popolazione in uno stato di virtuale omeostasi[29]

L’unica eccezione rilevante a questa stagnazione produttiva millenaria venne rappresentata dalla prima fase di sviluppo della società sumera, nella sua fase teocratica che ereditò e allargò i risultati tecnologici e produttivi della cultura Ubaid (3700-3100 a.C.): in questo periodo si svilupparono la scrittura, la costruzione di veicoli su ruote e i lavori di irrigazione artificiale su larga scala, utilizzando e riproducendo su scala allargata le conquiste del neolitico-calcolitico collettivistico.

La “prestazione” produttiva del modo di produzione schiavistico fu, se possibile, ancora più penosa e insoddisfacente di quella del “cugino” di classe “asiatico”.

Anche se in certe fasi storiche le società schiavistiche ottennero una riproduzione allargata del processo produttivo e realizzarono alcuni miglioramenti tecnologico-civili (mulino ad acqua, leve e viti, orologi ad acqua, pavimentazione delle strade), nel lungo periodo la schiavitù creò “radiazioni nucleari” socioproduttive che lentamente contaminarono e distrussero le forze produttive degli stati in cui essa costituiva l’elemento centrale delle relazioni produttive e socioeconomiche.

Come dimostra l’esperienza storica di una delle più avanzate ed importanti formazioni schiavistiche dell’antichità, quella romana, i rapporti di produzione servili minavano infatti inesorabilmente la principale forza produttiva, l’uomo-schiavo. In presenza di queste relazioni produttive, la manodopera servile non si riproduceva biologicamente in quantità sufficienti a ricostituire, generazione dopo generazione, la forza-lavoro necessaria al processo produttivo, in modo tale che l’economia schiavistica poteva sostenersi solo attraverso un continuo afflusso di schiavi “dall’esterno”, ottenuto mediante nuove guerre di conquista e/o con il commercio internazionale di “pelle umana”. La precoce mortalità degli schiavi a causa del superlavoro e la parallela mancanza d’interesse dei loro padroni per i figli dei servi, peso improduttivo per molti anni e “merce” ad alto rischio visto il livello altissimo di mortalità nell’antichità, costituivano ulteriori fattori che contribuivano ad assottigliare via via le fila della “vecchia” manodopera servile, combinandosi poi a cause secondarie quali la liberazione degli schiavi dietro riscatto e le fughe individuali/di gruppo attuate da questi ultimi.

Tutti i dati storici dimostrano in modo inequivocabile che nell’impero romano, all’inizio del secondo secolo d.C., gli schiavi erano divenuti insufficienti a coprire le necessità produttive, mentre nel terzo secolo il prezzo della manodopera servile era più che raddoppiato rispetto a quello di alcuni decenni prima.[30]

Inoltre lo stesso Engels, nel 1884, ricordò correttamente un secondo “pungiglione avvelenato” insito nella natura dei rapporti di produzione schiavistici, e cioè il disprezzo assoluto degli uomini liberi per il lavoro produttivo, ritenuto disonorevole e delegato con ribrezzo ai servi; era questo il secondo vicolo cieco, affermò Engels, «nel quale andò a cacciarsi il mondo romano: la schiavitù era economicamente impossibile, il lavoro degli uomini liberi era moralmente al bando».[31]

La combinazione dei due “pungiglioni” diede avvio a un circolo vizioso infernale. Infatti se l’indebolimento progressivo del processo di produzione agricolo, fondato essenzialmente sul lavoro degli schiavi, devastò anche l’economia e la struttura urbana, principale consumatrice del surplus produttivo erogato gratuitamente dalla manodopera servile, a loro volta la costante decadenza delle città e la restrizione progressiva dei mercati urbani resero sempre meno redditizi i latifondi lavorati dagli schiavi e ridussero ulteriormente la sfera produttiva agricolo-pastorizia, producendo inevitabilmente un aumento esponenziale del carico fiscale sulla massa in costante diminuzione degli uomini liberi ed innescando un processo di sotto-riproduzione e contrazione dell’economia presa nel suo complesso, tanto che l’impero schiavistico romano entrò in una fase di profonda decadenza economica molto prima delle invasioni barbariche.

«La situazione sociale non era meno disperata. Già fin dagli ultimi tempi della repubblica il dominio romano aveva mirato allo sfruttamento senza scrupoli delle province conquistate; l’impero non aveva abolito questo sfruttamento, al contrario lo aveva regolato. Quanto più l’impero declinava, tanto più aumentavano i tributi e le prestazioni, tanto più sfrontatamente i funzionari predavano ed estorcevano. Commercio ed industria non erano mai stati occupazione dei Romani, dominatori di popoli; solo nell’usura essi avevano superato tutto ciò che c’era stato prima e che ci fu dopo. Ciò che del commercio era stato da loro trovato e mantenuto andò in rovina con le estorsioni dei funzionari; ciò che ancora tirava avanti riguarda la parte orientale, greca, dell’impero, che esce dai limiti della nostra considerazione. Impoverimento generale, regresso del commercio, dell’artigianato, dell’arte, diminuzione della popolazione, decadenza delle città, ritorno dell’agricoltura ad uno stadio inferiore: questo fu il risultato finale del dominio mondiale di Roma.»[32]

Se la “parola magica” utile per definire le prestazioni produttive del modo di produzione asiatico è stagnazione, quella indicata per definire la dinamica di lungo termine del modo di produzione schiavistico è progressiva autodistruzione: non male come risultato per quella particolare forma economico-sociale che Engels definiva solo sette anni prima, nell’Antidühring, come un grande progresso storico rispetto alle società collettivistiche primitive. Invece nel 1884 egli riconobbe che la salvezza dell’Europa, dopo il collasso del sistema schiavistico, fu rappresentato paradossalmente proprio dalla “barbarie” tedesco-gota e più precisamente dalle “comunità di marca”, dalle comunità contadine semi-collettivistiche che si crearono progressivamente in larga parte dell’Europa occidentale come sottoprodotto delle invasioni di “barbari”, ancora parzialmente legati ad una precedente epoca cooperativa e “gentilizia” del loro sviluppo storico.

Tali “comunità di marca”, sebbene fossero sfruttate da un’aristocrazia di guerrieri e risultassero inserite organicamente nel nascente sistema feudale, garantirono tra il quinto e l’undicesimo secolo d.C. la riproduzione allargata della forza lavoro contadina, l’aumento progressivo dell’estensione delle terre coltivate mediante le colossali opere di dissodamento dell’Alto Medioevo, fornendo tra l’altro un importante strumento di “coesione” e “resistenza” (Engels) ai servi della gleba europei rispetto al potere repressivo e allo sfruttamento feudale.

«I Tedeschi avevano in effetti ravvivato l’Europa e perciò la dissoluzione degli Stati del periodo germanico finì non nella sottomissione normanno-saracena, ma nella trasformazione progressiva in feudalesimo dei benefici e della sottomissione a scopo di protezione (raccomandazione), e con un così rilevante aumento di popolazione che, appena due secoli più tardi, i forti salassi delle crociate furono sopportati senza danno.

Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i Tedeschi infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. I Tedeschi erano, specialmente in quel periodo, una stirpe ariana assai dotata e in pieno sviluppo di vita. Non furono però le loro specifiche qualità nazionali a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro barbarie, la loro costituzione gentilizia.

La loro valentia personale, il loro valore, il loro senso della libertà e l’istinto democratico che vedeva in tutte le faccende di pubblico interesse faccende proprie, in breve tutte le qualità che i Romani avevano perdute e che erano le sole in grado di formare, col fango del mondo romano, nuovi Stati e di far sviluppare nuove nazionalità, che cosa altro erano se non i tratti caratteristici dei barbari dello stadio superiore, frutto della costituzione gentilizia?

Se essi trasformarono l’antica forma della monogamia e mitigarono il dominio dell’uomo nella famiglia, dando alla donna una posizione più elevata di quella che il mondo classico avesse mai conosciuta, che cosa gliene diede la possibilità, se non la loro barbarie, le loro consuetudini gentilizie, il loro retaggio, ancora vivo, dell’epoca matriarcale?

Se essi, per lo meno in tre dei più importanti paesi, Germania, Francia del Nord e Inghilterra, salvarono un elemento della genuina costituzione gentilizia, sotto forma delle comunità di marca, trasferendolo nello Stato feudale e con ciò diedero alla classe oppressa, ai contadini, anche sotto la più crudele servitù della gleba medievale, una coesione locale ed uno strumento di resistenza, che né gli antichi schiavi né i proletari moderni hanno avuto a portata di mano, a che cosa si deve ciò, se non alla loro barbarie, alla loro maniera esclusivamente barbarica di colonizzare su base gentilizia?

E infine, se poterono sviluppare e rendere esclusiva quella mitigata forma di servitù, già esercitata in patria, e che anche nell’impero romano prese gradatamente il posto della schiavitù, forma che, come per primo Fourier mise in evidenza, offre agli asserviti i mezzi per una liberazione graduale come classe (fournit aux cultivateurs des moyens d’affranchissement collectif et progressif); forma che perciò si eleva molto più in alto della schiavitù, nella quale solo era possibile l’immediato affrancamento individuale senza uno stadio di transizione (soppressione della schiavitù in seguito a ribellione vittoriosa l’antichità non ne conosce), mentre nei fatti i servi della gleba del Medioevo riuscirono progressivamente ad affrancarsi come classe, a che cosa dobbiamo ciò, se non alla loro barbarie, in forza della quale essi non erano ancora arrivati alla schiavitù sviluppata, né all’antica schiavitù del lavoro, né a quella domestica orientale?

Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Infatti solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo che soffre di civiltà morente. E lo stadio supremo delle barbarie, verso il quale e nel quale i Tedeschi si erano sforzati di innalzarsi prima della migrazione dei popoli, era precisamente il più favorevole a questo processo. E questo spiega tutto.»[33]

Ironia della storia: la “barbarie” semi-collettivistica salvò la civiltà europea dall’azione autodistruttiva dei “sofisticati” rapporti di produzione classisti-schiavistici, che in teoria (in teoria…) avrebbero dovuto rappresentare la forza motrice e il supporto socioeconomico indispensabile per il processo di sviluppo delle forze produttive.

Per quanto riguarda il modo di produzione feudale, imperniato sulla dipendenza permanente della forza lavoro (servi della gleba) rispetto all’aristocrazia fondiaria, per molto tempo gli stessi storici borghesi hanno illustrato con dovizia di particolari la sostanziale inoperosità dei grandi (e piccoli) feudatari e il loro quasi totale distacco dal processo produttivo, soffermandosi poi correttamente sulla collettiva predisposizione “genetica” dell’aristocrazia medioevale laica per lo spreco e il consumo improduttivo del pluslavoro e del surplus estorto ai contadini, destinato quasi totalmente ai consumi di lusso e alle attività belliche; solo ultimamente alcuni ricercatori, tra cui P. Malanima, hanno rivalutato parzialmente il ruolo storico-produttivo giocato dalle strutture feudali affermando che «Prima della crescita moderna, l’epoca più dinamica nella società e nell’economia europea fu proprio quella feudale».[34]

Certo, sotto l’egemonia dei rapporti di produzione feudali si verificarono effettivamente progressi qualitativi negli strumenti di produzione, a partire dall’introduzione del mulino a vento, – utile fonte di tributi per i feudatari – ma essi rimasero confinati entro limiti e ambiti molto ristretti; viceversa le grandi opere collettive di dissodamento dei terreni e la ripresa dell’artigianato nell’Alto Medioevo furono il risultato autonomo degli sforzi delle comunità rurali e delle corporazioni (gilde), i cui benefici concreti vennero loro estorti per una lunga fase dall’azione coercitiva della dominante aristocrazia fondiaria, anche se non in misura totale.

Indiscutibilmente i rapporti di produzione feudali permisero e consentirono per un certo tempo la riproduzione allargata della forza-lavoro umana, rappresentando sotto questo importante aspetto un notevole progresso rispetto allo schiavismo antico, visto che i servi della gleba avevano un diretto interesse economico (oltre che affettivo, ovviamente) nella procreazione di figli capaci di sostenere l’attività agraria nelle terre della loro famiglia/comunità rurale, ma anche tale spinta propulsiva iniziale del modo di produzione feudale conobbe un esaurimento abbastanza brusco nel medio-lungo periodo, visto il carattere parassitario e improduttivo dell’aristocrazia terriera; come notò correttamente Marx, nel terzo libro del Capitale, una delle caratteristiche centrali del modo di produzione feudale si ritrova nelle «condizioni di stagnazione tanto del processo di produzione quanto dei rapporti sociali corrispondenti ad esso, tramite sempre la semplice continua riproduzione di se stessi».[35]

I rapporti di produzione feudali consentirono per una certa fase un processo di riproduzione allargata della popolazione europea, ma una volta superata una certa soglia critica la stagnazione sostanziale del livello qualitativo degli strumenti di produzione ed il feroce sfruttamento esercitato dai feudatari sui contadini rappresentarono dei limiti invalicabili per ogni ulteriore progresso, sia in campo demografico che produttivo.[36]

Detto in altri termini, anche il feudalesimo non riesce a passare quell’esame del “Tribunale della Storia” destinato a legittimare i reali campioni dello sviluppo delle forze produttive.

In modo a prima vista sorprendente, delle considerazioni quasi analoghe possono essere effettuate anche per la lunga fase manifatturiera del modo di produzione capitalistico, durata almeno sette secoli (1050-1750): infatti per settecento anni la “performance” produttiva globale della borghesia manifatturiera e commerciale si rivelò semi-fallimentare sul piano storico-generale, anche se controbilanciata da alcuni periodi di breve espansione quantitativa, proprio perché non riuscì a determinare un salto qualitativo rivoluzionario nel livello di sviluppo delle forze produttive sociali e in campo tecnologico-civile.

È abbastanza noto che il modo di produzione capitalistico non costituisce semplicemente un sistema per la produzione di merci, ma rappresenta una formazione economico-sociale in cui la “merce numero uno” è rappresentata dalla forza-lavoro erogata da un insieme più o meno vasto di donne-uomini salariati, che vendono per un determinato periodo di tempo le proprie capacità fisiche e mentali ai possessori dei mezzi di produzione e degli oggetti di lavoro senza essere vincolati a questi ultimi da rapporti di schiavitù o di servitù della gleba: tale “merce numero uno” viene utilizzata dalla borghesia nel processo produttivo complessivo (che comprende anche il settore commerciale e finanziario) per produrre lavoro gratuito (pluslavoro) a proprio vantaggio, ottenendo un’eccedenza rispetto alla massa di mezzi di sussistenza che viene erogata ai salariati per assicurarsi la riproduzione costante della capacità lavorativa da loro “affittata” per un dato arco templare, più o meno lungo a seconda dei rapporti di forza esistenti tra capitalisti e operai.[37]

È invece meno conosciuto il fenomeno storico per cui il modo di produzione capitalistico non rimane legato assolutamente al periodo storico di genesi-sviluppo della grande industria, con la combinazione concreta tra macchine utensili e forza motrice meccanica venutasi a formare dopo il 1760 in Gran Bretagna, e che esso aveva assunto invece in alcuni stati un ruolo importante (se non addirittura dominante) molto prima dell’apparizione della forza motrice a vapore combinata all’utilizzo delle macchine utensili.[38]

Per molti secoli “l’ossatura” tenologico-produttiva del capitalismo è stata infatti rappresentata dalla manifattura, e in via subordinata dalla produzione a domicilio controllata da gruppi ristretti di imprenditori-commercianti, in un processo storico ben conosciuto da Marx che definì la manifattura capitalistica come una “cooperazione che si basa sulla divisione del lavoro” in un medesimo ambito spaziale, distinguendo tra due forme storiche di manifattura.

«La manifattura ha una duplice origine.

Da un lato una sola officina riunisce sotto il comando di un medesimo capitalista operai di mestieri diversi e indipendenti, tra le cui mani deve passare un prodotto per ricevere la sua ultima rifinitura. Una carrozza era per esempio il prodotto complessivo dei lavori di un gran numero di artigiani indipendenti, come carradore, sellaio, magnano, cinturaio, tornitore, passamanerista, vetraio, pittore, verniciatore, doratore, ecc. La manifattura delle carrozze riunisce tutti questi diversi artigiani in un unico edificio, in cui essi lavorano contemporaneamente e l’uno per l’altro…

La manifattura però può nascere anche in modo opposto. Un medesimo capitale impiega simultaneamente nella stessa officina molti artigiani che fanno gli stessi oggetti od oggetti simili, per esempio carta e caratteri di stampa oppure aghi… Il lavoro allora viene suddiviso. Piuttosto che affidare le diverse operazioni a un medesimo artigiano in tempi successivi, si rendono le operazioni indipendenti l’una dall’altra, si isolano, si sovrappongono nello spazio, affidando ciascuna di esse a un lavoratore differente e facendole eseguire tutte assieme allo stesso tempo dagli artigiani cooperanti.»[39]

Il modo di produzione capitalistico diventa un settore socioproduttivo importante in una determinata formazione statale e/o area geopolitica quando:

–         si formano su larga scala delle manifatture, ambiti spaziali in cui cooperano dei gruppi di lavoratori che utilizzano mezzi di produzione altrui;

–         in queste manifatture è impiegata una parte consistente della forza-lavoro complessiva della formazione statale/area geopolitica;

–         nelle manifatture la forza-lavoro impiegata è costituita da lavoratori liberi, senza vincoli di schiavitù-servitù della gleba con gli imprenditori;

–         si assiste ad un forte processo di accumulazione di denaro, mezzi di produzione e oggetti di lavoro nelle mani della borghesia manifatturiera;

–         si sviluppa un parallelo processo di accumulazione del capitale da parte della borghesia commerciale.

Il capitalismo diventa invece egemone e trionfa “solo quando esso si identifica con lo stato, quando si fa stato”. (Braudel)

Fatte queste premesse, si può affermare con il grande storico M. Dobb che gli sviluppi della produzione capitalistica “che troviamo in Inghilterra nel periodo di Elisabetta e degli Stuart (1550-1640) appaiono già maturi in epoca assai più antica nei Paesi Bassi, oltre che in Italia”.[40]

Il capitalismo, nella sua fase manifatturiera, risulta infatti molto antico e il suo primo periodo di sviluppo avanzato risale addirittura al 1000-1050 d.C., con l’esperienza delle repubbliche marinare italiane a partire dal biennio 839/840, Amalfi e Venezia erano diventate formazioni statali sostanzialmente indipendenti in cui si erano già consolidati dei settori significativi di capitalismo commerciale e manifatturiero, con cantieri navali abbastanza avanzati sul piano tecnologico: già nel X secolo la flotta commerciale amalfitana aveva scali e basi a Costantinopoli, a Tunisi, ad Antiochia e Durazzo, sviluppando fitti interscambi con il mondo arabo (e persino con l’India), mentre Venezia in quell’epoca era ormai  diventata un “ponte” tra Europa e impero bizantino, ed al suo interno si stava affermando il potere “di una elite di ricchi”. (Braudel)

Dopo due secoli di “incubazione” e sviluppo, nelle repubbliche marinare di Venezia, Genova, Pisa ed Amalfi il capitalismo manifatturiero e commerciale raggiunse durante la seconda metà dell’XI secolo la maturità attraverso una fase di sviluppo in cui le attività manifatturiere nel settore navale, nella produzione di armi e di beni di lusso (vetro, sapone) costituivano ormai un dato di fatto consolidato. Proprio la fondazione dell’Arsenale di Venezia, nel 1104, costituì il suggello della “fase marinara” del capitalismo manifatturiero, visto che nell’Arsenale lavoravano nel XII secolo tremila operai e che tale cifra aumentò progressivamente fino a raggiungere quota ventimila due secoli dopo; lo stato veneziano appaltava ai privati una parte delle opere di costruzioni navali, in una forma primordiale ed originale di capitalismo di stato la cui “catena di montaggio” produttiva riusciva a sfornare durante il ‘400 una nave in soli 60 minuti.[41]

Eppur… non si mosse.

Anche l’enorme processo di accumulazione di capitale, l’estensione quantitativa dei mezzi di produzione realizzata tra l’850 ed il 1300 ed i vantaggi derivanti dal traffico di schiavi e dai loro possedimenti coloniali sparsi nel Mediterraneo non permisero alle prime e robuste “isole del capitalismo” italiano di realizzare il vero salto di qualità nello sviluppo dei mezzi di produzione: l’introduzione delle macchine utensili e dell’energia motrice a vapore era ancora lontani anni-luce dalla realtà produttiva delle repubbliche marinare italiane e rimase tale almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento.

Una seconda ed estesa zona manifatturiera si sviluppò all’interno delle città fiamminghe del XIII e XIV secolo, nelle quali la precoce formazione di una massa di proto-proletari diseredati e senza terra si accompagnò alla diffusione parallela della figura del mercante-manifatturiero. Si venne a creare un esteso e capillare sistema di industria capitalistica a domicilio, dove l’organizzatore borghese distribuiva il lavoro a operai-artigiani subordinati: un esempio in questo senso è quello di Jean Boine-Brocke di Douai, «che alla fine del 1200 dava i suoi materiali da lavorare a una vasta cerchia di artigiani e controllava direttamente la rifinitura dei pannilani, che veniva eseguita in officine di sua proprietà… Individui di questo genere ve n’erano molti anche in altre città, come Dinant, Lille, Bruges, Ghent, Saint Omer, Bruxelles, Louvain…».[42]

Eppur… non si mosse: il processo della rivoluzione industriale non partì neanche dall’area fiamminga, a dispetto dello sviluppo quantitativo ivi verificatosi tra il ‘200 ed il ‘400.

Un terzo polo economico ad egemonia manifatturiera fu costituita dall’Italia del centro-nord del  XIV secolo, con la punta di diamante fiorentina.

«A Firenze, nel 1338, si diceva vi fossero ben 200 officine per la manifattura del panno, che impiegavano un totale di 30.000 lavoratori, pari a un quarto della popolazione attiva della città.»[43] Grandi manifatture tessili e belliche esistevano anche a Milano, Bologna e in numerose altre città italiane, ma neppure questa volta non “prese le mosse” alcun reale salto di qualità tecnico-produttivo.

Anche alcune aree della Francia e della Germania furono interessate nel corso del XV e XVI secolo dalla diffusione della produzione manifatturiera: nella Francia del ‘500 «nelle industrie più recenti, come quelle del vetro, della seta, della carta, della stampa, troviamo molto presto imprese di tipo capitalistico, come in Inghilterra manifatture in tali settori erano tutt’altro che l’eccezione».[44]

In Germania il capitalismo finanziario-minerario dei Welser, dei Fugger, dei Thurzo diventò per un breve periodo tanto potente da essere in grado di finanziare sia l’elezione di Carlo V alla corona imperiale nel 1519, sia spedizioni coloniali in Venezuela ed Argentina, ma a dispetto di tali risultati non si mosse alcunché neanche in questa area geopolitica.

Notò giustamente M. Dobb che «il tratto più notevole dello svolgimento italiano, tedesco, fiammingo (e in minor misura, francese) non consiste tanto nella precoce apparizione, in confronto all’Inghilterra, della produzione capitalistica: quanto nel fatto che il nuovo sistema non riuscì a progredire molto al di là della sua precoce e promettente adolescenza. Sembrerebbe anzi che proprio il successo e la maturità raggiunti dal capitale commerciale e usuraio in questi fiorenti centri di scambio abbiano ritardato, anziché favorito, lo sviluppo dell’investimento capitalistico nella produzione; che il capitale industriale, di fronte agli splendori del saccheggio del Levante e delle Indie e del prestito usuraio ai principi, rimanesse sempre nella posizione di un fratello cadetto, senza doti di natura e di fortuna. In ogni caso è chiaro che anche un maturo sviluppo del capitale commerciale e finanziario non è di per se stesso garanzia dello sviluppo, nella sua scia, della produzione capitalistica; anche quando alcuni gruppi del capitale commerciale si sono rivolti all’industria e hanno cominciato a subordinarsi e a trasformare il modo di produzione, ciò non sbocca tuttavia necessariamente in una trasformazione completa.»[45]

Si può aggiungere che la manifattura non innesca quasi mai un processo di trasformazione del modo di produzione e determina rapidamente la stagnazione sostanziale del processo produttivo dell’epoca, come possono ulteriormente dimostrare i casi della Cina nell’epoca Song e Ming e dell’Olanda, nel corso del diciassettesimo secolo.

La Cina del 1350-1450 aveva una popolazione pari a circa 70 milioni di abitanti, superiore a quella europea dello stesso periodo; il livello di urbanizzazione era abbastanza elevato per i canoni del tempo, con la presenza diffusa di grandi città; le spedizioni navali dell’ammiraglio Zheng He in India, Persia, Arabia e Somalia (1405-1433) con sessanta enormi navi dimostravano l’alto livello tecnico raggiunto dalla Cina in campo cantieristico; l’attività commerciale e creditizia privata, con monti di pegno e istituti di credito, aveva raggiunto una notevole estensione, mentre proprio nel XIV e XV secolo l’attività manifatturiera aveva fatto enormi progressi nei settori tessile (seta e cotone) e siderurgico, della porcellana, della carta e della stampa.

«La trasformazione di piccole botteghe in grandi imprese artigianali, con centinaia di operai, favorì la formazione di un mercato del lavoro con un elevato livello di specializzazione. Alcuni centri si concentravano su certi settori della produzione, come la lavorazione del cotone (importato dalla Hebei e dallo Henan) e della seta nello Jangsu, della carta nel Jiangxi, della ceramica a Jingdexen, e ciò favorì a sua volta lo sviluppo del commercio interregionale e internazionale. D’altra parte, anche l’artigianato beneficiò degli scambi internazionali, perché furono introdotte nuove tecniche, come quelle giapponesi nel campo della tessitura e della raffinazione dei metalli.»[46]

Inoltre è da notare che anche in precedenza, nel X secolo d.C., le regioni del sud della Cina controllate dalla dinastia dei Song conobbero una grande espansione protocapitalistica della manifattura tessile del cotone, della carta, della porcellana e della lavorazione dei metalli e della stampa. Del resto la Cina aveva rappresentato la punta avanzata su scala mondiale del (lentissimo) progresso tecnologico-produttivo avvenuto tra il 400 a.C. ed il 1450: ad essa dobbiamo l’invenzione della polvere da sparo, della stampa, della bussola, della carriola, della fusione del ferro allo stato liquido, del telaio per tessitura a disegni, della pompa a catena e della porcellana, delle navi a compartimenti stagni, della macchina soffiante per forma azionata da forza idraulica, del vomere d’aratro in ferro curvo concavo, del collare per cavallo, dell’uso del carbone.[47]

Eppur… non si mosse: non solo la Cina non riuscì mai ad innescare una profonda rivoluzione tecnologico-produttiva, ma dopo il 1450 iniziò ad entrare in una lunga fase di stagnazione del livello di sviluppo qualitativo delle sue forze produttive sociali.

Tornando in Europa, tra il 1570 e il 1680 la nazione-guida in campo manifatturiero e tecnologico venne rappresentata dall’Olanda: Marx nel Capitale analizzò fugacemente l’esperienza dei Paesi Bassi, criticando parzialmente lo storico G. Von Gulich.

«Il tesoro procurato fuori dell’Europa tramite il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio, rifluiva nella madrepatria convertendosi in campitale. L’Olanda che per prima ha dato un completo sviluppo al sistema coloniale, già nel 1648 era all’apice del suo splendore commerciale. Aveva nelle sue mani quasi tutto il commercio delle Indie Orientali e il traffico tra Europa sud-occidentale e quella nord-orientale. I suoi affari di pesca, la sua flotta, le sue manifatture erano più avanti di quelle d’ogni altro paese. I capitali della repubblica superavano forse in importanza quelli di tutta la rimanente Europa. Gulich dimentica di aggiungere: le masse Olandesi erano già nel 1648 più sfibrate dal lavoro, più immiserite e più atrocemente soggiogate di quelle di tutta la rimanente Europa.»[48]

Ma anche il capitalismo manifatturiero olandese entrò rapidamente in un periodo di stagnazione poco dopo il 1650, tanto che lo storico Kindleberger rilevò che «i mercanti che si erano arricchiti facevano grossi acquisti terrieri. Investimenti che li attraevano per motivi di status sociale, per i diritti di signoria nonché per i titoli che essi comportavano… L’acquisto di terre marciava parallelamente con lo sviluppo dei consumi dei borghesi olandesi: nell’ultimo quarto del Seicento il vecchio, severo e frugale modo di vita dei mercanti lasciò il posto allo stile ricco delle case da campagna e alla vita da gran signori.»[49]

La concorrenza straniera e le politiche protezionistiche degli altri stati minarono rapidamente la produzione di tessuti lavorati di Leida e Harem, cumulandosi all’emigrazione dei lavoratori specializzati, alla perdita da parte dell’Olanda del monopolio commerciale del Baltico e alla sua sconfitta nello scontro con la Gran Bretagna, al termine di tre lunghe guerre navali e coloniali: si trattò dell’ennesimo “rinculo” del capitalismo manifatturiero e dell’ennesimo caso importante di stagnazione delle forze produttive “civili” durante l’epoca dal capitalismo manifatturiero, dopo una breve fiammata iniziale.

Per uscire dal “vicolo cieco” produttivo manifestatosi durante ben sette secoli era necessaria una combinazione eccezionale di fattori estremamente favorevoli, verificatasi concretamente nella Gran Bretagna del Diciottesimo secolo.

Sul piano economico:

–         era necessaria la creazione di un mercato di grande estensione per i prodotti delle manifatture del “paese eletto”.

–         era indispensabile che quest’ultimo controllasse la propria “riserva di caccia” coloniale per un lungo periodo di tempo, necessario per consolidare e riprodurre su scala allargata il processo produttivo capitalistico.

–         occorrevano delle fonti costanti di accumulazione esterne al “paese eletto”, provenienti da aree geopolitiche e stati da esso egemonizzati: tributi e tasse, prodotti e materie prime di valore estorte a buon prezzo o gratuitamente alle proprie colonie, monopolio della tratta degli schiavi, legname e controllo delle cosiddette “sugar island”, che durante il Settecento costituivano uno dei maggiori centri dell’economia mondiale, dato che in termini di ricavi lo zucchero superò il grano nel periodo in esame.[50]

–         era vitale il possesso di mercati esteri in grado di esprimere una domanda solvibile, in grado di procurare in cambio dei prodotti manifatturieri del paese “eletto” oro e argento, schiavi e materie prime ad alto valore aggiunto quali zucchero, tabacco, legname, cotone, the, cacao, rhum. Se ancora nel 1739 le esportazioni di tessuti da Manchester erano quasi insignificanti, pari a 14.000 sterline all’anno, venti anni dopo esse avevano superato le 100.000 e arrivarono a quota 300.000 sterline nel 1779: un terzo della produzione veniva inviato in Africa in cambio di schiavi, il resto nelle colonie nordamericane e nelle Indie Occidentali (P. Castagneto).

–         era molto utile la costruzione di un «sistema del credito pubblico, ossia dei debiti dello Stato» (Marx), consolidato da lungo tempo e garantito da apparati statali saldamente in mano alla borghesia.

Sul piano politico e politico-militare, d’altro canto:

–         era indispensabile una netta superiorità nei rapporti di forza tecnologico-militari da parte della “nazione eletta”, rispetto alle colonie e ai propri concorrenti internazionali

–         era necessaria la costruzione di un impero coloniale mondiale, che spaziasse dall’Irlanda a Gibilterra, dall’India al Canada, dagli odierni Stati Uniti alla Giamaica

–         occorreva che la borghesia manifatturiera e commerciale si fosse assicurata una salda egemonia politica sul “fronte interno”, acquisita attraverso dure ma vittoriose lotte rivoluzionarie (1642/48 e 1688-89).

Dal 1750 al 1830 la Gran Bretagna costituì il punto di convergenza storico di questa combinazione eccezionale di fattori favorevoli per il decollo e salto di qualità sia produttivo che tecnologico, conosciuto sotto il nome di Rivoluzione Industriale: una eccezionale sovrabbondanza di domanda (solvibile) di prodotti manifatturieri stimolò in modo decisivo l’innovazione tecnologico in campo tessile, siderurgico e minerario, formando un “circolo virtuoso” che si autoalimentò a spirale. Nella sua opera La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), Engels descrisse un aspetto di questo felice attimo fuggente del capitalismo inglese, relativa al settore tessile: «Nel 1782 tutta la produzione della lana dei tre anni precedenti era rimasta inutilizzata per mancanza di operai e così sarebbe ancora rimasta senza l’aiuto delle nuove macchine che ne resero possibile la filatura.»[51]

Tutto è bene quello che finisce bene, si potrebbe comunque affermare, visto che anche se dopo più di cinque millenni i rapporti di produzione classisti riuscirono effettivamente ad adempiere al “mandato storico” di sviluppare le forze produttive in modo decisivo: ma la “performance” produttiva in esame viene ulteriormente ridimensionata da una serie ulteriore di processi reali sintetizzabili sotto la categoria del “complesso di Erone”.

Tornando infatti al secondo “pugno nell’occhio”, proprio i rapporti di produzione fondati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo si dimostrarono per decine di secoli quasi completamente incapaci di utilizzare e “sfruttare” in modo efficace delle scoperte ed invenzioni tecnologiche reali e già esistenti, che avrebbero sicuramente avvicinato enormemente l’avvio concreto di un salto di qualità tecnologico-produttivo in campo “civile” per la loro innegabile portata rivoluzionaria.

L’esempio più clamoroso nella ricca casistica che forma il “complesso di Erone” è costituito dalle antiche scoperte inutilizzate relative alla forza motrice del vapore e del vento, con la loro parallela applicazione ad oggetti meccanici complessi: invenzioni effettuate quasi duemila anni prima dell’opera di Newcomen e J. Watt.

Erone di Alessandria fu uno scienziato che visse nel primo secolo d.C. e che nella sua opera Pneumatika, descrisse ed analizzò vari tipi di apparecchi in cui la forza motrice era già rappresentata dal vapore, dall’energia eolica o da quella termica. La sfera d’Eolo costruita da Erone consisteva ad esempio in un getto di vapore acqueo che, premendo su una ruota, la faceva girare a piacere, mentre allo stesso tempo egli elaborò anche un dispositivo alimentato dal vapore che veniva utilizzato per aprire le porte di un tempio, accendendo un fuoco; sempre nella Pneumatika lo scienziato alessandrino descrisse un organo pneumatico azionato ad una ruota provvista di pale, la “ruota a vento”, che fu il primo modello di quel mulino a vento che si diffuse su larga scala in Asia solo sette secoli dopo.[52]

Le sorprese non sono ancora finite. Nel suo lavoro Automata lo scienziato alessandrino illustrò dettagliatamente il funzionamento di alcuni tipi di teatrini, fissi o mobili, nei quali si succedevano mediante ruote, ingranaggi e dispositivi a frizione delle scene animate di stampo mitologico: sedici secoli prima di J. Watt, Erone aveva in sostanza iniziato a svelare “l’arcano segreto” della produzione e dell’utilizzo controllato del vapore collegando la macchina motrice inanimata a dei meccanismi di trasmissione e a degli utensili rudimentali, descrivendo pertanto due vere e proprie “bombe atomiche” tecnologico-civili destinate potenzialmente a sconvolgere il modo di produzione ed il potenziale economico del genere umano.

Eppure le scoperte di Erone, che tra l’altro ammise apertamente che le macchine del genere da lui analizzate erano già ben note ed in azione da parecchio tempo, non produssero alcun effetto sul processo produttivo per quei sedici secoli: solo la traduzione delle opere del grande scienziato alessandrino a Venezia, nel XVI secolo, produsse qualche risultato influenzando fortemente la costruzione da parte di de Caus di una macchina a vapore, ancora estremamente rudimentale (1615).

Il motivo principale dell’assenza di impatto materiale-produttivo dell’ingegneria eroniana va ricercato negli stessi rapporti di produzione classisti. «La tecnica alessandrina» scrisse giustamente F. Enriques, «era rivolta ai giochi e ai divertimenti, sempre più costosi e ricercati, in cui un ambiente di ricchi parassiti cercava lenimento alla noia di vivere» ed era concepita in sostanza «come un prolungamento naturale del gioco infantile, anziché come potentissimo strumento di elevazione della civiltà».[53]

I “potentissimi strumenti di elevazione della civiltà”, descritti e costruiti genialmente da Erone, vennero lasciati a marcire per quasi due millenni dai rapporti di produzione fondati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, presunti alfieri dello sviluppo delle forze produttive sociali.

Ma non solo: secondo molti studiosi ed archeologi già attorno al primo secolo a.C., se non addirittura nella fase matura della società sumera (2500 a.C.), alcune civiltà del Medioriente avevano costruito delle minuscole e rozze, ma funzionanti, batterie elettriche in cui erano collegati tra loro dei pezzi di rame e di ferro, o di rame e di argento (come nel caso di uno dei manufatti di questo genere che sono stati scoperti, ritrovato in un antico sito sumero e datato in un’epoca di 2500 anni or sono). Solo nell’area mesopotamica sono state ritrovate quasi una dozzina di queste proto-batterie elettriche con evidenti segni di elettrolisi, mentre in Egitto il tempio di Dendera (ma non solo…) ha rivelato sorprese quasi analoghe.

Da tali scoperte ripetute, sottoposte a tutta una serie di verifiche tecniche dagli scienziati conteporaneei risulta che almeno duemila anni prima di A. Volta e della sua pila il genere umano aveva scoperto ed utilizzato in posti diversi la tecnica della produzione di elettricità, ma anche in questo caso una vera e propria “bomba atomica” scientifica ed economica non venne utilizzata per scopi produttivi, rimase in modo segreto a disposizione di pochi eletti e leader religiosi per fini molto probabilmente “magici” e di prestigio (per impressionare i fedeli) e venne in seguito dimenticata per quasi due millenni, fino al 1800 d.C. Non c’è che dire, si tratta di un’altra prova evidente della presunta (molto presunta…) capacità di stimolare e favorire lo sviluppo delle forze produttive espressa dalle strutture socioeconomiche classiste e dalla plurimillenaria “linea nera”.

Sempre a proposito dei “giocattoli di lusso”, va ricordato che a partire dal secondo secolo d.C. la teocrazia maya mise in pratica il principio della ruota applicandolo a giochi con ruote a disco costruiti per bambini privilegiati, ma mancò qualunque tentativo di introdurre l’invenzione nel settore dei trasporti per diminuire la fatica della forza lavoro contadina, addetta al carico continuo di pesi per lunghe distanze, a causa della distanza abissale esistente tra produttori diretti e proprietari delle condizioni della produzione.

Sussistono anche scoperte geoeconomiche perdute, andate dimenticate a causa dell’avidità di profitti e dalle tentazioni monopolistiche tipiche dei commercianti-navigatori dell’era classista. Infatti duemila anni prima di Vasco de Gama il popolo dei fenici circumnavigò l’Africa riuscendo a raggiungere l’India con le proprie navi, ma il desiderio di nascondere con ogni mezzo i risultati delle sue lucrose spedizioni fece scomparire per due millenni, con la sua civiltà, anche il ritrovamento di una via di comunicazione universale: la spedizione africana guidata dal cartaginese Annone nel V secolo a.C. si perse pertanto nelle nebbie della storia della società di classe, senza produrre alcun effetto duraturo[54]

Secondo lo storico britannico G. Menzies scomparvero nel nulla anche le conquiste geografiche ottenute da alcune flotte cinesi che nel 1421 lasciarono l’Oceano Indiano. Una serie impressionante di prove materiali e documentarie sembrano indicare che le spedizioni marittime cinesi riuscirono a doppiare il Capo di Buona Speranza e a esplorare quasi tutte le coste americane, australiane e dell’Antartide, compiendo la prima vera circumnavigazione del mondo un secolo prima di Magellano, ma l’ostilità per le spedizioni oceaniche mostrata allora dai nuclei dirigenti del feudalesimo cinese fece cadere anche in questo caso nell’oblio delle scoperte geoeconomiche rivoluzionarie per tutto il genere umano.[55]

Un altro caso clamoroso in cui si è concretizzato il “complesso di Erone” è costituita dal disco di Festo, inventato nell’area cretese e mediterranea quattromila anni fa.

Il disco di Festo era un disco piatto di terracotta in cui erano impressi e stampati i segni di una scrittura, disposti lungo una linea a spirale che in cinque giri convergevano verso il centro e grazie ai quali i segni venivano impressi nella creta morbida tramite degli stampi a rilievo, creando il primo esempio di stampa al mondo datato 1700 a.C.: tuttavia anche il disco di Festo scomparve senza lasciare traccia dalla storia e bisognerà aspettare 2500 anni per i primi tentativi (quasi) analoghi avvenuti in Cina, e 3100 anni per l’opera di Gutemberg in Germania (1455 d.C.).

Naturalmente “la metallurgia, gli inchiostri e i torchi erano assai più primitivi nel 1700 a.C. che nel 1455 d.C, e così il segno doveva essere impresso a mano, e non tramite un carattere mobile fissato a comporre una pagina di metallo, inchiostrato e premuto sulla carta”.[56]

Ma la ragione principale della rapida scomparsa dall’arena storica della protostampa non fu di carattere tecnologico, ma sociale: la coscienza della scrittura era infatti riservata solo ad una ristretta élite di scribi di palazzo ed era servita a “facilitare l’asservimento di altri esseri umani”, secondo la corretta definizione di C. Levi-Strauss, in modo tale che la domanda sociale dei prodotti del disco di Festo era risultata molto limitata, disincentivando in larga misura una produzione di massa e creando le condizioni per la scomparsa di una notevole scoperta tecnologica.

Anche durante il periodo manifatturiero europeo, si assistette per lunghi periodi al fenomeno del mancato utilizzo di scoperte e invenzioni dotate di un notevole potenziale di stimolo alla crescita del settore produttivo “civile”.

Fin dal 1495 il genio straordinario di Leonardo da Vinci disegnò il primo telaio automatico per la tessitura, in cui una manovella mossa dall’uomo o da una ruota (fatta girare dall’acqua) azionava tutti i meccanismi dello strumento di produzione in esame: il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano ha dimostrato concretamente nel 2003 come il progetto di Leonardo potesse funzionare seguendo alla lettera le indicazioni dello scienziato toscano, ma solo alla fine del Settecento dei telai automatici analoghi vennero introdotti in Inghilterra, ben tre secoli dopo la scoperta del geniale toscano.

Nel periodo di sviluppo manifatturiero del capitalismo inglese, Dud Dudley aveva scoperto un metodo di fusione dei minerali ferrosi con il carbone fin dal 1620, ma solo dopo quasi un secolo la famiglia Darby tradusse nella pratica con successo la sua scoperta.

Nel 1733 venne inventata la macchina per filare da parte di Paul e Wyatt, non dissimile dal filatoio continuo re-inventato in seguito da Arkwhright nel 1769, ma il sistema operativo di Paul e Wyatt non ebbe alcun successo commerciale e rimase per decenni nei “cassetti della storia”.

Nel 1745 il francese Vaucansson costruì il primo telaio meccanico funzionante correttamente e cinque anni dopo creò la catena cinematica che porta il suo nome, ma per cinque decenni il suo telaio non fu messo in uso e rimase del tutto dimenticato finché il suo connazionale Jacquard non riscoprì casualmente i progetti di Vaucansson.

Similmente la macchina a vapore di Watt ebbe come precursori i motori a vapore di S. Morland (1670), quelli di Savery basata sul principio di vuoto creato dalla condensazione di vapore (1698) e la macchina atmosferica di Newcomen del 1712, in cui “la fonte di pressione esterna era bensì l’atmosfera, ma il movimento vero e proprio della macchina aveva a fondamento la produzione a vapore”: l’applicazione pratica di queste macchine tuttavia rimase confinata alle operazioni di pompaggio nelle miniere e negli impianti idrici.[57]

Si possono pertanto avanzare dei seri e fondati dubbi sulla capacità delle società classiste di sviluppare con efficacia le forze produttive sociali: solo grazie alla combinazione eccezionale di circostanze favorevoli i rapporti di produzione capitalistici seppero innescare ed attuare in Gran Bretagna una vera e propria rivoluzione tecnologico-produttiva, dopo più di cinquemila anni di semi-stagnazione indotta e favorita dal modo di produzione asiatico, schiavistico, feudale e borghese (nella sua lunghissima fase di sviluppo manifatturiero).

Infine bisogna ricordare che, dopo avere provocato e sostenuto un reale e formidabile ritmo di accelerazione del progresso delle forze produttive tra il 1765 e il 1872, le relazioni di produzione, di proprietà e di distribuzione capitalistiche si sono rapidamente trasformate in un nuovo ostacolo al processo di sviluppo delle condizioni materiali della produzione.

Sul piano storico generale e in riferimento ai ritmi di sviluppo delle forze produttive sociali, la storia moderna del modo di produzione capitalistico può essere infatti divisa in quattro fasi.

–         1765-1824. Carattere progressivo dei rapporti di produzione capitalistici in questo periodo, boom delle forze produttive sociali, tendenze di crisi ancora molto limitate per durata temporale ed effetti materiali.

–         1825-1872. Il lato progressivo prevale ancora nettamente sulle tendenze autodistruttive del sistema capitalistico (recessioni, guerre, caduta del saggio di profitto, colonialismo, ruolo crescente della rendita finanziaria), ma queste ultime ormai acquisiscono un peso importante.

–         1873-1944. Il capitalismo entra definitivamente nella fase dell’imperialismo moderno: formazione di monopoli e del capitalismo finanziario, “tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un piccolo gruppo di nazioni più ricche o potenti: queste le caratteristiche dell’imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente” (Lenin, L’imperialismo, cap. X), tanto da costituire ormai una forza socio-economica prevalentemente reazionaria sul piano storico generale, anche se ancora capace di effettuare salti di qualità nel livello di sviluppo delle forze produttive sociali.

–         1945-2008. Dopo Hiroshima e Nagasaki i rapporti e il modo di produzione capitalistico tendono prevalentemente ad assumere un ruolo genocida nei confronti del genere umano attraverso l’azione combinata di strumenti quali le armi di sterminio e lo sterminio per fame nel Terzo Mondo, la crisi ecologica ed energetica, le recessioni ed il boom esplosivo (in tutti i sensi) del capitalismo speculativo, anche se la borghesia è ancora in grado di provocare salti di qualità consistenti nel livello di sviluppo delle forze produttive. Socialismo o autodistruzione del genere umano, due alternative ugualmente sul campo.

In ultima analisi le formazioni economiche-sociali classiste hanno saputo assicurare un periodo di sviluppo accelerato e senza catastrofi delle forze produttive sociali, quello “britannico”, solo tra il 1765 ed il 1872. Solo centosette anni di azione realmente progressiva, rispetto a quasi seimila anni di storia (3700 a.C. – 2008 d.C.): ne valeva la pena?

Ottava possibile obiezione. “Nell’epoca Neolitica-Calcolitica la produttività agricola media rimase ad un livello così basso da rendere quasi impossibile la formazione di società di classe: solo questo spiega la resistenza e la durata della cosiddetta linea rossa tra il 9000 ed il 3900 a.C.”.

Nel periodo Neolitico-Calcolitico il livello medio di produttività era estremamente inferiore rispetto ai successi produttivi dell’età contemporanea, ma in costante aumento nel lungo periodo. In precedenza si sono analizzate le grandi conquiste dei Ubaid, dei cinesi Hemudu, della cultura Chavin nel campo dell’irrigazione artificiale, i cui risultati furono tali da far parlare di una “seconda” rivoluzione tecnologico-neolitica e da far concludere che potenzialmente sussisteva un largo spazio di manovra e un’ampia quantità di risorse ormai disponibili per l’eventuale nascita di una società protoclassista, fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che tuttavia nei contesti sopracitati non prese forma.

Inoltre una produttività agricola molto bassa, e sicuramente inferiore a quella raggiunta dagli Ubaid non impedì assolutamente la riproduzione continua sia della società classista feudale nell’Alto Medioevo che del modo di produzione asiatico. Secondo molti storici, a partire dalle stime pessimistiche fornite da G. Duby, le rese agricole medie in Europa tra il 700 e il 1100 d.C. erano molto insoddisfacenti visto che per ogni chicco di cereali seminato se ne ottenevano probabilmente solo tre come risultato finale medio: eppure tale infimo livello di produttività consentì per molti secoli sia la riproduzione in Europa del sistema feudale che la sussistenza di una classe di proprietari fondiari, laici o ecclesiastici, nonostante che a giudizio dello storico Cipolla tre contadini in quei secoli potessero a stento produrre il surplus per mantenere un’altra persona. [58]

Dimostrazione concreta e tangibile di come anche un grado di sfruttamento delle forze lavoro più basso di quello neolitico permetta la sussistenza di una classe di sfruttatori, se si combina con una massa critica minimale di lavoratori sottoposti al processo di estorsione del surplus da loro prodotto.[59]

Nona critica. «In ogni caso l’avvento della società classista rappresentò, fin dall’inizio, uno stimolo politico-sociale molto forte per lo sviluppo qualitativo e quantitativo delle forze produttive, visto che il nuovo potere centralizzato favorì la concentrazione del surplus e della forza lavoro in poche mani con la conseguente riproduzione allargata del processo produttivo. In ultima analisi, la sfera politica e gli apparati statali giunti nelle mani di mandatari delle nuove classi privilegiate costituirono una leva essenziale e uno stimolo fondamentale per lo sviluppo quantitativo-qualitativo delle forze produttive sociali.»

Indubbiamente il potere politico e gli apparati statali costituiscono una “forza economica” di grande importanza, come ricordava Marx nel I Libro del Capitale e come si analizzerà meglio nel prossimo capitolo.

Ma innanzi tutto tale potere esisteva ed agiva anche nelle strutture collettivistiche del Neolitico-Calcolitico, nella forma generale di chefferies che ridistribuivano il surplus sociale per fini privati/collettivi: si può anche aggiungere, sulla base dell’esperienza di Gerico-Ubaid-Hohokam-Jomon-ecc., che proprio il “clan conico” (Frangipane) ottenne risultati socio-produttivi eccellenti quali la creazione di notevoli lavori di irrigazione artificiale, l’avvio della produzione specializzata di tessuti e di in oggetti in oro/rame, ecc.

In secondo luogo, il “potenziale economico” rappresentato dalla sfera politico-statale non venne quasi mai utilizzato efficacemente nel settore civile dai mandatari politici delle nuove classi dominanti, una volta che dopo il 3800 a.C. prese progressivamente il sopravvento la “linea nera”: l’unica eccezione significativa fu rappresentata proprio dalla casta sacerdotale sumera, che tra il 3700 e il 3100 a.C. ottenne indiscutibili successi nello sviluppo delle forze produttive sociali e delle condizioni della produzione (scrittura, ruota, grandi lavori di irrigazione artificiale).

Solo nella sfera bellico-produttiva i nuovi gruppi sociali privilegiati ed i loro apparati statali ottennero performance e risultati notevoli con l’utilizzo della coppia carro-arciere, con la produzione di armi in bronzo, ecc.: le ragioni socio-politiche di questa differenza tra i due segmenti del processo produttivo, civile e militare, sono stati indicate brevemente in precedenza.

Prendiamo in analisi il “caso cinese”, come esempio-pilota. Tra il 2100 e il 770 a.C. la scena politico-sociale della Cina è stata caratterizzata dal dominio delle tre dinastie Xia, Shang e Zhu Occidentali, che per quattordici secoli hanno diretto gli affari economici della Cina arcaica post-neolitica, ma a dispetto dei concreti sforzi via via profusi dalle tre dinastie in campo produttivo l’esito finale della loro pratica politico-sociale non è stato certo esaltante. A questo proposito gli storici Sabattini e Santangelo hanno notato, in un passo già citato, che «se si considera la situazione economica-sociale della Cina arcaica, è possibile rilevare un dato di notevole importanza storica: l’emergere delle prime formazioni statali non si accompagnò a un adeguato progresso tecnologico nella produzione agricola. Gli attrezzi usati dai coltivatori non sembrano essere molto diversi da quelli dell’epoca Neolitica: falcetti di pietra o ricavati da conchiglie bivalve, zappe e vanghe di pietra, una sorta di forcone di legno con due rebbi (lei), che serviva per rompere e rivoltare la terra. Il bronzo solo raramente veniva utilizzato per la fabbricazione di utensili; esso era destinato quasi esclusivamente alla produzione di armi e di oggetti rituali».[60]

Anche i nuclei dirigenti classisti di altre aree geopolitiche del pianeta non hanno saputo fare altro, nel migliore (e non troppo frequente) dei casi, che stimolare solo parzialmente e limitatamente lo sviluppo quantitativo e qualitativo delle forze produttive sociali nel settore civile, venendo spesso sostituiti da élite statali incompetenti e disinteressate al progresso economico.

Il potenziale di “stimolo economico” costituito dallo stato è stato sfruttato a sufficienza dai mandatari politici delle classi dominanti solo in periodi storici eccezionali, dato che di regola risultava troppo ampio il baratro esistente tra nomenklatura politica e lavoro produttivo, tra nuclei dirigenti statali e conoscenze tecnico-economiche, tra sfera politica classista e produttori diretti.

“Ma l’effetto di sdoppiamento si ritrova ovunque?”.

La risposta è positiva, sebbene in alcuni casi storici – temporanei – la riproduzione di una larga massa di contadini liberi e piccoli proprietari, come nell’Inghilterra della seconda metà del Quattrocento, rese l’impatto dell’effetto di sdoppiamento molto limitato, almeno fino al momento in cui la “linea nera” (nel caso inglese citato tesa all’espropriazione forzata dei contadini piccoli proprietari) non riprese la sua lunga marcia plurimillenaria: la proprietà privata del suolo da parte di contadini liberi ha costituito un fenomeno reale e su larga scala in alcune aree del globo, specie in Europa occidentale dopo il 1200 d.C., rappresentando una sorta di “terzo incomodo” tra le due tendenze principali in conflitto.

Penultima obiezione. «L’egemonia raggiunta dai rapporti di produzione collettivistici nelle società pre-industriali non può che essere di breve durata, capace solo di preparare a poco a poco il terreno alla creazione/ricomparsa di strutture socioeconomiche protoclassiste/classiste. Le civiltà collettivistiche preindustriali, con la loro tipica ed insuperabile scarsità di beni di consumo, riprodurrebbero prima o poi inevitabilmente dal loro stesso interno la “vecchia merda” prevista da Marx nel 1845, alias il dominio e lo sfruttamento esercitato da un gruppo minoritario sulla maggioranza della popolazione, l’oppressione del sesso femminile, le guerre ed il colonialismo, ecc.»[61]

Le ricerche storiche del Ventesimo secolo, ovviamente non a disposizione di Marx, hanno evidenziato una dinamica diversa: infatti proprio molte delle società collettivistiche preindustriali hanno infatti mostrato un’invidiabile durata plurimillenaria, a partire dal primo e lunghissimo periodo di sviluppo di Gerico fino ad arrivare alla innegabile longevità della civiltà di Jenne-Jeno e della fase di sviluppo agricola degli Jomon, della cultura Ubaid e degli Hohokam, ecc.

Civiltà effimere, incapaci di riprodursi nel tempo e di evitare la comparsa della “vecchia merda” protoclassista/classista? Non scherziamo: al contrario è risultata fin troppo effimera la Comune parigina del 1871, durata poco più di due mesi.

Un’altra questione è invece riconoscere come anche le società collettivistiche preindustriali possano essere sempre rovesciate, dall’interno o dall’esterno, a causa dell’affermarsi della “linea nera” e della pressione mutevole determinata dall’effetto di sdoppiamento consolidatosi dopo il 9000 a.C. (oppure in seguito a crisi ecologiche), ma tale potenzialità negativa sussiste anche rispetto ai rapporti di produzione e di potere collettivistici sviluppatisi nelle civiltà industriali e postindustriali, come hanno purtroppo dimostrato le esperienze della Comune di Parigi, della Repubblica sovietica ungherese del 1919 e della stessa Unione Sovietica.

Ultima obiezione. «Le società collettivistiche sviluppatesi sia nel neolitico-calcolitico che durante i sei millenni successivi hanno avuto in comune, fino ai nostri giorni, il processo di sfruttamento e dominio esercitato dalla nostra specie sul mondo animale: uccisioni e macellazioni di esseri viventi di altre specie compiute su larga scala e costantemente, loro domesticazione forzata al fine di ottenere le materie prime necessarie all’uomo per produrre vestiti e scarpe, appropriazione sistematica di uova, latte e pellame per i bisogni del genere umano. Sia la “linea rossa” che quella “nera”, in sostanza, sono fondate sull’egemonia coercitiva esercitata dalla nostra specie rispetto alle altre specie animali.»

Tale egemonia viene molto da lontano, da centinaia di migliaia di anni fa.

Molto tempo prima del neolitico, la specie umana ha sviluppato progressivamente il suo dominio violento sulle altre specie animali attraverso la caccia e la pesca durante l’era paleolitica, milioni di anni fa, attraverso un sistema iperduraturo di sfruttamento basatosi sull’utilizzo di un mezzo “sleale” ed artificiale quale il controllo delle armi in pietra (e del fuoco, a partire almeno da 300.000 anni or sono): anche se il consumo di carne/pesce rimase subordinato e secondario rispetto all’utilizzo prevalente di frutta, verdura, bacche, tuberi e cereali selvatici riprodottisi per tutto il periodo paleolitico (come del resto avvenne anche nelle società pre-industriali formatesi dopo il 9000 a.C.), tale appropriazione cruenta costituì un fenomeno reale e universale, fondato sulla violenza e prolungatosi per milioni di anni.

Lo sfruttamento dell’uomo sulle specie animali cesserà probabilmente solo in un futuro abbastanza lontano attraverso la presenza di una larghissima disponibilità di proteine vegetali e di scarpe/vestiti creati con materie prime inorganiche, accompagnata parallelamente da una profonda trasformazione della coscienza collettiva del genere umano (vegetarianesimo universale): ma in attesa di questo felice salto di qualità, non si possono non notare le diversità sostanziali esistenti tra società classiste e collettivistiche rispetto ad altri elementi fondamentali e strutturali, quali la presenza/assenza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della subordinazione materiale (e giuridica) della donna all’uomo e dello sfruttamento economico su scala internazionale rivolto verso altri clan/stati/aree geopolitiche. Elementi di differenziazione molto pesanti e concreti, anche se collegati da quel comune esercizio del dominio dell’uomo sul mondo animale che rappresenta almeno fino ad oggi una delle costanti del processo di sviluppo della nostra specie, quasi fin dai suoi albori.


[1] A. Donini, “Storia del Cristianesimo”, pp. 40-41, ed. Teti

[2] N. Grimal, “Storia dell’antico Egitto”, p. 183, ed. Laterza

[3] S. I. Kovaliov, “Storia di Roma”, vol. I, pp. 381-382, ed. Editori Riuniti

[4] op. cit., pp. 344-345

[5] J. Diamond, “Armi…”, op. cit., pp. 224-225

[6] J. Diamond, op. cit., p. 225

[7] J. Diamond, op. cit., p. 228

[8] N. Grimal, “Storia dell’Antico Egitto”, p. 60, ed. Laterza

[9] Henry-Charles Puech, “Sul manicheismo e altri saggi”, p. XI, ed. Einaudi

[10] K. Marx e F. Engels, “India, Cina e Russia”, p. 295, ed. Il Saggiatore

[11] op. cit., p. 237

[12] op. cit., p. 241

[13] op. cit., p. 246

[14] op. cit., p. 244

[15] Marx-Engels, “India…”, op. cit., pp. 60-61

[16] op. cit., p. 210

[17] F. Engels, “Dialettica della natura”, p. 184, ed. Editori Riuniti

[18] J. Diamond, op. cit., p. 206

[19] C. Perles, “Preistoria del fuoco”, pp. 22/304, ed. Einaudi

[20] I. Zoppi-G. Erikson, “Le strade di Atlantide”, pp. 38/165, ed. Piemme

[21] J. Fo e L. Malucelli, “Schiave ribelli”, pp. 19-28, ed. Nuovi Mondadori

[22] C. M. Cipolla, “Storia economica dell’Europa pre-industriale”, p. 219, ed. Il Mulino

[23] Cipolla, op. cit., p. 220-222

[24] F. Engels, “Dialettica della natura”, op. cit., pp. 206-207

[25] G. Bocchi e M. Ceruti, “Origini della scrittura”, p. 58-59, ed. Mondadori

[26] op. cit., pag. IX

[27] R. Dunbar, “Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue”, p. 148, ed. Longanesi

[28] K. Marx, “Il Capitale, Libro I, cap. II

[29] I. Wallerstein, “Il sistema mondiale dell’economia moderna”, vol. I, pp. 116-117, ed. Il Mulino

[30] Kovaliov, op. cit., vol. II, p. 128

[31] F. Engels, “L’origine… “, op. cit., p. 181

[32] F. Engels, op. cit., p. 182

[33] F. Engels, “L’origine…”, op. cit., p. 186

[34] P. Malanima, “L’economia italiana”, pp. 93-94, ed. Il Mulino

[35] K. Marx, “Il Capitale”, Libro III, cap. 47, par. 2

[36] P. Malanima, op. cit., pp. 337-338

[37] Xu He, “Trattato di economia politica”, Vol. I, p. 157, ed. Mazzotta

[38] K. Marx, “Il Capitale”, Libro I, cap. XIII, par. 1

[39] K. Marx, op. cit., Libro I, cap. XII, par. 1

[40] M. Dobb, “Problemi di storia del capitalismo”, p. 171, ed. Editori Riuniti

[41] F. Lane, “Storia di Venezia”, pp. 19/194, ed. Einaudi

[42] M. Dobb, “Problemi…”, op. cit., p. 172

[43] M. Dobb, op. cit., p. 177

[44] M. Dobb, op. cit., p. 179

[45] M. Dobb, op. cit., p. 180

[46] M. Sabattini e P. Santangelo, “Storia della Cina dalle origini alla fondazione della Repubblica”, p. 512, ed. Laterza

[47] J. Needham, “Scienza e Civiltà in Cina”, vol. I, p. 238, ed. Einaudi

[48] L. Marx, “Il Capitale”, Libro I, Cap. XXIV, par. 6

[49] C. Kindleberger, “I primi del mondo”, p. 135, ed. Donzelli

[50] S. Serino, “Discorrendo sulla ‘Grande Divergenza’ di Kenneth Pomeranz”, http://www.giovanetalpa.it

[51] F. Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, p. 35, ed. Editori Riuniti

[52] L. Russo, “La rivoluzione dimenticata”, p. 150, ed. Feltrinelli

[53] In L. Geymonat, “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, vol. I, pp. 300-301

[54] F. Briquel-Chatonnet, “I Fenici”, p. 95, ed. Electa Gallimard

[55] G. Menzies, “La Cina scopre l’America”, ed. Carocci

[56] J. Diamond, op. cit., pp. 187-205

[57] M. Dobb, op. cit., pp. 286-287-294

[58] G. Duby, “Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo”, p. 260, ed. Laterza e P. Malanima, op. cit., pp. 122-123

[59] Duby, op. cit., p. VI, Introduzione

[60] M. Sabattini, op. cit., p. 85

[61] K. Marx e F. Engels, “L’ideologia tedesca”, p. 31, ed. Editori Riuniti

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