Il paradosso di Lenin 2

Capitolo Decimo

Parte Seconda

Il terzo gradino della “piramide di prove” che sorregge il paradosso di Lenin, inteso come primato della sfera politica su quella economia nelle società di classe o paraclassiste, è rappresentato dalla centralità assunta dal processo di occupazione degli apparati statali e dei centri decisionali per le diverse classi economicamente privilegiate, o per le diverse frazioni della stessa classe socialmente egemone entrate in conflitto tra loro in modo aperto o sotterraneo; infatti detenere il controllo dei dirigenti politici al potere e/o degli apparati statali, in modo totale o parziale, ha rappresentato costantemente una carta decisiva non solo contro il proletariato storico, ma anche nella lotta incessante, aperta o latente, che contrappone da millenni in forme più o meno acute l’insieme dei segmenti che hanno via via formato le diverse classi egemoni sul piano socio-produttivo, a partire dal 3700 a.C. fino all’inizio del III millennio.

Le classi sfruttatrici, prese nel loro insieme e considerando anche il quadro internazionale, non sono certo state un gruppo monolitico di amici fraterni, fase storica dopo fase storica. Dal 3700 a.C. fino ad arrivare ai giorni nostri, i diversi gruppi privilegiati venuti in possesso delle condizioni della produzione e del surplus hanno spesso combattuto, in forma plateale o nascosta, delle guerre intestine tra ricchi per acquisire/mantenere l’egemonia totale-parziale sia in campo politico che nella sfera dei rapporti sociali di produzione e sempre per molti millenni, sotto forme e con protagonisti molteplici, i variegati possessori dei mezzi di produzione e del surplus hanno lottato tra di loro per il controllo della gestione degli affari pubblici delle rispettive formazioni statali con modalità spesso sanguinose, viste le proteiformi e variegate contraddizioni politiche, sociali ed economiche che li hanno divisi nel passato e li dividono tuttora all’inizio del terzo millennio.

Come si vedrà meglio in seguito, la reale diversità nelle forme di appropriazione del surplus sociale hanno spesso innescato degli accesi contrasti e scontri politico-sociali sulle modalità concrete e sulle proporzioni della divisione del plusprodotto (erogato gratuitamente dai produttori diretti) tra i molteplici  segmenti divenuti beneficiari del “bottino” estorto dall’insieme dei proprietari dei mezzi di produzione; inoltre ha spesso pesato lo scontro più o meno aperto via via creatosi tra le classi dominanti di nazioni diverse, di formazioni statali separate ed autonome, tanto che se Marx ritenne correttamente che la borghesia fosse sempre in lotta “contro la borghesia di tutti i paesi stranieri” (Manifesto del Partito Comunista) un ragionamento analogo vale e si applica anche per tutte le altre classi privilegiate sviluppatesi negli ultimi seimila anni di storia.

Hanno infine inciso in modo rilevante sull’arena politica e sociopolitica i conflitti via via creatisi tra i sostenitori di opposte opzioni di carattere politico-sociale, politico-economico o di natura internazionale, tra opposte alternative strategico-tattiche che sono state via via elaborate all’interno di segmenti socioproduttivi relativamente compatti da nuclei politici autonomi, in conflitto reciproco: anche gruppi relativamente omogenei sul piano socio-produttivo spesso si sono divisi e combattuti, in forme più o meno aspre, nei processi decisionali aventi per oggetto quale fosse volta per volta il nemico principale in campo statale e/o internazionale, i mezzi migliori e più adeguati da utilizzare per combattere e sconfiggere il nemico principale, il calcolo (sulla previsione della dinamica) dei rapporti di forza esistenti in una determinata situazione storica sulla migliore politica economica (fiscale, monetaria) concretamente a loro disposizione, ecc.

In sostanza le classi venute in possesso delle condizioni della produzione e del surplus non sono mai state monolitiche sotto tutta una serie di rapporti, a volte combinati tra loro, e si sono molto spesso divise sia sotto il profilo statale che internazionale: sempre pronte a fare “fronte comune” contro gli eventuali pericoli provenienti dalle masse popolari e dal proletariato storico, molto spesso le classi sociali privilegiate hanno visto emergere dei rilevanti conflitti al loro interno, che a loro volta hanno prodotto e riprodotto a modo loro la centralità della sfera politico-sociale negli ultimi sei millenni di storia, confermando ulteriormente il “paradosso di Lenin”.

Infatti per determinare l’esito concreto (successo/sconfitta) delle lotte e delle contraddizioni economico-sociali sviluppatesi tra le diverse fazioni delle classi privilegiate, per la vittoria-sconfitta dell’uno o dell’altro segmento dei gruppi sociali privilegiati risulta da sei millenni centrale, decisiva e fondamentale la possibilità reale di utilizzare (totalmente-parzialmente) a proprio vantaggio gli apparati statali, il potere direzionale e la sfera politica.

L’esperienza storica mostra come nelle soluzioni delle contraddizioni intestine tra le classi dominanti e privilegiate diventi sempre centrale l’occupazione (totale-egemonica-parziale) ed il controllo del potere politico e degli apparati statali da parte di una delle fazioni in lotta, armi affilate che consentono alla parte vincente (per un periodo di tempo più o meno lungo) di ottenere tre risultati decisivi e correlati tra di loro.

Astraendo per un attimo dai rapporti internazionali, se da un lato il soggetto politico che riesca a conquistare e ad annettersi la sfera della gestione degli affari comuni della società può aumentare la propria forza d’urto endogena unendola con quella via via assorbita dai segmenti del potere statale da esso controllato, in tutto o in parte, dall’altro i suoi antagonisti politici ed i loro mandanti sociali si vedono sottrarre contemporaneamente questa massa di potenza politica, mentre infine il “conquistatore” può gestire in modo partigiano, in forme più o meno pronunciate, gli apparati statali. In altre parole i vantaggi che derivano da un processo reale di occupazione del potere, con un’erogazione normalmente limitata di risorse finanziarie (Wallerstein), consistono sia nel creare quasi sempre un gap decisivo di potenza tra le fazioni delle classi privilegiate incluse nelle occupazioni del potere e quelle invece escluse, che nell’ottenere tutta quella serie variegata di dividendi materiali ed economici che di regola derivano ai segmenti delle classi proprietarie delle condizioni della produzione usciti via via vittoriosi nella lotta per il controllo del potere direzionale e repressivo (la “cascata di Lenin” soprammenzionata).

Un abile ed esperto dirigente politico quale Mao Tse-Tung colse in larga misura l’importanza essenziale assunta dal processo di occupazione della sfera politica per tutte le classi privilegiate, che emerge con particolar rilievo ed evidenza proprio durante i loro continui scontri intestini di carattere economico-sociale, prendendo spunto dall’analisi dello scontro plurisecolare sviluppatosi in Europa dal Cinquecento fino al 1871 tra la borghesia e l’aristocrazia feudale/semifeudale.

«Prendiamo l’esempio della storia dello sviluppo del capitalismo. Agli inizi, non ci fu che un semplice raggruppamento delle attività. Poi sono sorte delle fabbriche e delle officine artigianali. In questo stadio si sono stabiliti rapporti di produzioni capitalistiche, nei laboratori artigianali non vi era ancora la produzione meccanizzata. I rapporti di produzione capitalisti hanno fatto nascere la necessità di trasformazioni tecniche, creando così le condizioni per l’utilizzo delle macchine. In Inghilterra la Rivoluzione Industriale (fine del XVII-inizio del XVIII secolo) è avvenuta dopo la rivoluzione borghese (che avviene nel XVII secolo). Analogamente, in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, in Giappone, il grande sviluppo industriale capitalista è cominciato soltanto dopo la trasformazione della sovrastruttura e dei rapporti di produzione. La forma di questa trasformazione è stata diversa da paese a paese.

Prima creare un’opinione pubblica e impadronirsi del potere politico. Poi risolvere il problema dei sistemi di proprietà, per arrivare infine al grande sviluppo delle forze produttive: ecco la regola universale. Su questo punto la rivoluzione proletaria e la rivoluzione borghese si assomigliano essenzialmente, malgrado alcune differenze (rapporti di produzione socialisti, per esempio, non esistevano prima della rivoluzione proletaria, mentre invece i rapporti di produzione capitalisti hanno cominciato a svilupparsi nella società feudale).»[1]

Si può subito aggiungere che tanto più acute si rivelano le proteiformi contraddizioni emerse tra i diversi segmenti politico-sociali delle classi privilegiate, tanto più importante e centrale diventa per loro l’occupazione egemonica della sfera politica e dei centri decisionali, repressivi e di controllo dell’apparato statale delle diverse nazioni: se si prende ad esempio il caso-limite della Colombia, nello stato sudamericano le lotte intestine scoppiate tra le diverse fazioni della borghesia e i proprietari fondiari hanno causato tra il 1848 ed il 1959 centinaia di migliaia di morti, e il controllo dello stato era diventato fra i due partiti rivali (conservatore e liberale) “una questione di vita o di morte da prendere colombianamente alla lettera” durante quasi tutto quel secolo, anche se “i due partiti si differenziavano sempre meno nei programmi e nella pratica”.[2]

L’esperienza storica plurimillenaria delle società classiste (e paraclassiste) permette di allargare a dismisura la prospettiva storica delineata da Mao in relazione all’occupazione del potere statale, estendendola a tutte le altre classi venute in possesso delle condizioni della produzione e a tutti i loro conflitti interni, tanto numerosi da aver coinvolto gran parte della dinamica complessiva delle formazioni statali prodottesi negli ultimi cinque-seimila anni, in forma aperta o latente: la storia politico-sociale degli ultimi millenni è stata infatti anche la storia delle lotte tra le diverse fazioni dei gruppi sociali sfruttatori, venuti via via in possesso del surplus e degli scontri intestini tra di essi per il controllo del potere politico, nelle quali spesso si è assistito a processi di “cannibalismo” attuati dai vincitori rispetto ai cugini di classe meno potenti e risultati sconfitti.

Una prima fonte carsica di conflittualità e grandi contraddizioni all’interno delle classi dominanti è rappresentata da un aspetto rilevante della politica internazionale, e cioè dai numerosi tentativi via via compiuti da molte potenze statali al fine di annettersi la sfera politica ed economica di altre nazioni, estromettendo o subordinando più o meno completamente i vecchi nuclei politici dirigenti ed espropriando/indebolendo materialmente i loro rispettivi mandanti sociali. Si tratta di una prassi iperegemonica e iperconflittuale abbastanza diffusa in politica internazionale, che normalmente ha dovuto superare le resistenze delle élite politico-sociali minacciate e che in ogni caso ribadisce concretamente la centralità-utilità dell’occupazione del potere politico e del controllo esercitato sugli affari comuni delle proprie formazioni statali per contrastare i pericoli esogeni derivanti dall’arena internazionale: considerazioni analoghe valgono anche per i tentativi falliti di creazione di imperi/microimperi e per tutte le minacce di occupazione politica/espropriazione economica espresse da vicini/nemici internazionali, che in forme diverse hanno in ogni caso acuito via via le tensioni tra le classi/frazioni di classe dominanti nelle rispettive formazioni statali di appartenenza, coinvolte da un clima di scontro e di guerra fredda.

Esaminando gli albori delle società classiste, la dinamica politica delle città-stato teocratiche sumere, sviluppatesi tra il 3700 e il 2500 a.C. è stata segnata anche dalle tendenze annessionistiche delle comunità statali più grandi, finalizzate ad inglobare gli stati più deboli per massa d’urto militare ed economica e ad eliminare dalla scena politico-sociale le vecchie nomenklature dei pesci piccoli: nel periodo preso in esame le relazioni tra le numerose ed autonome città-stato sumere furono altalenanti, caratterizzate a volte da una pacifica coesistenza e a volte da lotte sanguinose per il controllo delle acque e delle terre tra i signori accadici, cosicché in alcuni casi avvenne che i sovrani di una serie di città-stato riuscissero ad assoggettarne altre costituendo nuovi e più potenti blocchi politici.

Nello stesso periodo gli staterelli sumeri dell’attuale Iraq meridionale attuarono un’espansione progressiva verso settentrione che interessò le zone del medio ed alto Eufrate, creando ex novo colonie e soprattutto occupando direttamente città e siti preesistenti nella regione, come Tell Brak sul Khabour e Ninive sul Tigre.[3]

Un gigantesco processo di conquista e di unificazione delle città-stato sumere ed accadiche del nord Iraq fu compiuta dal primo costruttore di imperi, Sargon: intorno al 2300 a.C. egli fece della città settentrionale di Accad il fulcro di un vasto regno che si estese anche all’Iran occidentale, alla Siria e al Libano, eliminando i precedenti nuclei politici dirigenti della regione mediorientale e modificandone in parte i rapporti di produzione interni.

Visti sotto una certa prospettiva, tutti i proteiformi processi politico-sociali di costruzione di imperi che si sono succeduti dal 2300 a.C. fino al III millennio della nostra era sono stati allo stesso tempo anche operazioni di sostituzione forzata dei vecchi quadri dirigenti politici delle formazioni statali sconfitte ed azioni di sradicamento più o meno violento degli antichi occupanti delle sfere politiche di questi ultimi, con la creazione di nuove nomenklature politico-sociali dominanti (a volte di provenienza indigena, ma in ogni caso soggiogate alla nuova potenza statale dominante nell’area) e spesso culminate nell’espropriazione totale-parziale delle classi egemoni nelle aree conquistate.

Nel m.p. asiatico il “cannibalismo” di classe, l’occupazione sistematica delle formazioni statali sconfitte ed i processi di sostituzione forzata dei vecchi gruppi politici classisti (che coincidevano spesso con l’ossatura della classe egemone sul piano socioproduttivo) con nuovi quadri direttivi provenienti dagli stati invasori è stata riprodotta – in altre epoche e contesti geopolitici – dai semileggendari re fondatori del “Antico Egitto” (3200-3100 a.C.), dalla prima dinastia imperiale che unificò la Cina, gli Xia (2010-1780 a.C.), dal regno andino degli Incas (1420-1584) o dall’impero indiano di Chaniragupta (IV secolo a.C.): anche grandi imperi schiavistici occidentali come quelli persiano, macedone e romano furono formati sulle rovine politiche ed economiche di numerose formazioni statali indipendenti dell’area mediterranea-europea o asiatica, mentre considerazioni analoghe valgono anche per i regni schiavistici cinesi degli Shang e dei Qin, che soppiantarono via via in tempi diversi le formazioni statali loro rivali ed i gruppi sociali in precedenza egemoni.

Nel modo di produzione feudale sono emerse con particolare evidenza tutta una serie di processi di conquista e “cannibalizzazione” politica ed economica di altre formazioni statali attuati su larga scala dall’impero carolingio, dai popoli guerrieri normanni ed arabi, dal regno nomade dei Mongoli in Cina, Asia centrale e Russia. Gli invasori normanni, ad esempio, espropriarono totalmente quasi duemila dei vecchi feudatari (Thegns) dell’Inghilterra occupata negli anni posti a cavallo tra il 1066 ed il 1088, lasciandone al loro posto solo due; Spagna e Portogallo distrussero dal canto loro quasi tutte le società neolitiche o classiste dell’America del sud e dell’Indonesia, a cavallo tra il 1400 ed il 1700.[4]

Del resto le azioni di cannibalismo tra i vari “fratelli di classe” non si limitò in quell’epoca ai nuovi continenti scoperti dopo il 1492: in Italia, ad esempio, tra il 1706 ed il 1763 scomparvero quasi tutte le vecchie dinastie familiari (i Gonzaga a Mantova, i Farnese a Parma, i Medici a Firenze e gli Este a Modena), sostituiti dal dominio delle potenze assolutiste straniere che allora controllavano il quadrante geopolitico italiano o da loro “cugini” di classe italiani.[5]

Alcune potenze capitalistico-manifatturiere come l’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia costituirono nel 1600-1840 grandi imperi coloniali su scala planetaria, distruggendo e calpestando qualunque forma o espressione politica-sociale autonoma dei popoli extraeuropei, sottoposti con la forza ad un feroce sfruttamento ed oppressione, mentre nell’era dell’imperialismo contemporaneo e del dominio del capitale finanziario esse furono presto imitate da potenze emergenti quali gli Stati Uniti, la Russia zarista, la Germania, il Giappone e l’Italia, nelle loro operazioni plurisecolari di occupazioni forzate di spazi geopolitici e geoeconomici altrui: sotto questo aspetto il nazismo, con la sua strategia di feroce dominio imperialista, arrivò fino al punto di praticare un’operazione di annientamento delle borghesie polacche ed ebree oltre allo sterminio fisico delle popolazioni ebraiche, russe e polacche.[6]

Negli ultimi sessant’anni una nuova superpotenza mondiale, l’imperialismo statunitense, ha praticato ininterrottamente una strategia mondiale di sovversione contro gli stati ed i nuclei politici dirigenti da esso considerati ostili, finalizzata alla loro sostituzione con quadri dirigenti controllati strettamente dal centro imperiale di Washington e (di regola) alla trasformazione delle scale di priorità politico-economiche dei “target” prescelti: si passa dall’Iran del 1953 fino alla Somalia del 1993 e alla Yugoslavia del 1990-2000, per arrivare all’Afghanistan del 2001, all’Iraq del 2003 ed ai nuovi obiettivi del III millennio.

Il sociologo statunitense S. Aronowitz ha analizzato lucidamente la tendenza politico-sociale dominante espressa negli ultimi anni dal capitalismo finanziario e del monopolio negli ultimi anni, tradotta in pratica dai loro mandatari politici con la teoria/azione della guerra preventiva.

«Credo che il petrolio del Medio Oriente costituisce, sì, un fattore determinante della strategia militare di Bush per la guerra contro l’Iraq, ma soprattutto gli Stati Uniti perseguono una strategia imperiale, aggressiva, perché vogliono l’egemonia dell’intero mondo globalizzato. Sinora le aggressioni militari miravano all’asservimento neocoloniale di aree strategiche e di piccoli paesi, gli “stati-fuorilegge”, ma il passo successivo del programma dopo Saddam Hussein include l’Iran, la Libia, la Corea del nord, Cuba e così via, fino a radere al suolo il pianeta. Il prossimo scontro cui assisteremo coinvolgerà l’Unione Europea, il Giappone e poi la Cina.»[7]

Sono ormai ben conosciuti i risultati politici ed economici delle azioni di destabilizzazione condotte tra il 2001 e il 2003 dall’imperialismo statunitense, visto che ad esempio Hamid Karzai, nuovo leader dell’Afghanistan “democratico”, è stato per anni un consigliere della multinazionale petrolifera statunitense Unocal ed esprime gli interessi geopolitici ed economici di Washington.

Una seconda ed endogena fonte di tensioni e scontri reciproci tra i diversi segmenti delle classi sociali venute in possesso delle condizioni della produzione è costituita dalle contraddizioni economico-sociali e dallo scontro pacifico-violento via via sviluppatosi tra i contrastanti interessi materiali emersi al loro interno: conflitti che a partire dal 3200 a.C. hanno determinato tutta una serie di lotte per il potere, cruente o pacifiche, tra i gruppi privilegiati posti in posizioni socioproduttive diverse all’interno di determinate formazioni statali.

Nel modo di produzione asiatico la principale fonte di tensione endogena, non creata da invasioni straniere, venne rappresentata dagli scontri periodici sviluppatesi tra le caste sacerdotali e le aristocrazie politico-militari, laddove mancò la (possibile) fusione tra i due sottoinsiemi delle classi privilegiate del m.p. asiatico: una lotta plurisecolare e relativamente pacifica si concretizzò quasi subito nel prototipo storico del m.p. asiatico, le città-tempio sumere, inizialmente controllate e dirette da una casta sacerdotale che possedeva integralmente tutte le condizioni della produzione createsi nel sud della Mesopotamia.

«Secondo gli esperti, nella Bassa Mesopotamia le comunità, molto probabilmente organizzate intorno a dei capi, si trasformarono in società stratificate statali nel corso del IV e del III millennio a.C. Con l’avanzare del processo di stratificazione, non solo si formarono le classi sociali – collocate sempre più in compartimenti stagni le une rispetto alle altre – ma si venne affacciando anche una nuova categoria gerarchica destinata a grandi imprese nel futuro: ci riferiamo alla nascita della regalità, un fenomeno che spuntò verso l’anno 3100 a.C. e che, due secoli più tardi, finì col trasformare le città-tempio in città-stato al comando di un potere secolare.

L’esigenza di difendere la ricchezza accumulata nelle mani delle famiglie ricche aveva fatto nascere degli eserciti regolari nelle principali città, ed è evidente che anche i comandanti di tali milizie riuscivano a fare fortuna e furono in condizioni di aspirare all’esercizio di una porzione di potere più o meno notevole con il sostegno della forza esercitata. I primi rappresentanti della regalità mesopotamica dovettero provenire da generali che avevano ritenuto opportuno trattenere a sé il potere che gli era stato delegato in occasione della difesa della comunità; ma avrebbero dovuto aspettare fino al 2500 a.C. per riuscire ad istituire una monarchia ereditaria.

Nell’epoca che abbiamo esaminato, i templi continuavano ad avere una grande influenza ed ancora accumulavano tutte o parti delle risorse di potere della loro città; questa situazione si può vedere in esempi come l’impressionante Tempio Ovale di Khafaje cinto da mura (del periodo dinastico antico, circa 2850-2340 a.C.) o in quello simile di El Obeid, della stessa epoca – che contavano su botteghe, depositi, residenze, uffici, ecc., oltre che, naturalmente, al tempio e al santuario propriamente detto. Tuttavia, il fatto che in quello stesso periodo in città tanto importanti come Kish, Eridu o Mari si costruissero anche palazzi in grado di rivaleggiare con lo splendore e la magnificenza dei templi, rappresenta una prova inequivocabile della presenza di un potere secolare, indipendente dal tempio e forse superiore ad esso (in quanto appoggiato dall’esercito).

Non vi è dubbio che le regalità finirono per fronteggiarsi per definire la loro forza, ma, non essendoci prove di guerre interne, il travaso e la ripartizione del potere dentro le città avvenne attraverso meccanismi sociali più sottili.

La lotta cruenta – se così fu – tra l’élite religiosa e quella secolare, al fine di assumere il massimo controllo in ogni città, poté portare, come ritiene Charles Reiman, ad estremi come quelli documentati nel cimitero reale di Ur e quelli di vari sepolture di Kish, tutti risalenti al dinastico antico, nel quale il titolare della tomba era affiancato da un ricchissimo corredo e da un gran numero di servi sacrificati per accompagnarlo nel suo viaggio nell’aldilà.

«Nella prima metà del periodo dinastico antico» osserva Redman «come nel precedente periodo di Yendet Nasr, l’élite del tempio sembra aver ostentato quasi tutto il potere della città primitiva. Ciò nonostante, durante la seconda metà dello stesso periodo, si costruirono impressionanti palazzi attribuiti a un’élite secolare emergente. L’evidenza architettonica in combinazione con un registro scritto indicano che il potere cambiò di mano, dal tempio al palazzo. E precisamente quando stava avvenendo in luogo questo cambiamento, cioè quando l’élite religiosa e secolare erano in competizione per il potere, apparvero le elaborate sepolture di Ur.»[8]

Anche la storia delle antiche dinastie dell’Egitto, tra il 2800 e il 1000 a.C., è contraddistinta da alcune serie di scontri tra i nuclei politico-militari dirigenti e le potenti caste sacerdotali, usufruttuarie di una parte significativa delle terre e della forza-lavoro egiziana: ad esempio già nel 2600 a.C. il faraone Cheope sfidò apertamente i sacerdoti di Menfi, che avevano accumulato enormi proprietà fondiarie, revocando i privilegi politico-economici di cui godevano e favorendo la casta ecclesiastica rivale dei seguaci di Ra, mentre il faraone Akhenaton fece chiudere nel XIV secolo a.C. una serie di templi del clero egiziano, trasferì alla Corona molte delle proprietà ecclesiastiche e fondò un nuovo culto del dio Aton, durato tuttavia solo fino alla sua morte.[9]

Nel modo di produzione feudale si riprodusse innanzitutto una lotta carsica, a volte sotterranea e a volte aperta, tra l’aristocrazia fondiaria laica ed il potere ecclesiastico per il controllo reale del potere decisionale e degli stessi mezzi di produzione: uno dei fondatori dello stato carolingio nell’Europa centrale, Carlo Martello, espropriò già nell’VIII secolo larga parte delle proprietà fondiarie accumulate al tempo della chiesa cattolica, mentre nel corso dell’XI-XII secolo scoppiò in Europa tra potere imperiale ed ecclesiastico la “lotta per le investiture”, per decidere se il controllo delle nomine dei potenti vescovi-feudatari locali spettasse al papa o all’imperatore (1075-1122).

Se nel 1296-1303 si scatenò un aspro conflitto tra il Re di Francia Filippo IV e Papa Bonifacio VIII per discutere sulla questione del primato effettivo all’interno della sfera politico sociale del paese, conteso tra aristocrazia feudale vaticana e la monarchia assolutista francese, nel 1307-1314 il potere statale francese invece espropriò quasi completamente il potente e ricco ordine militare-ecclesiastico dei Templari, sterminando anche buona parte dei suoi più alti esponenti; nel 1519-1529 l’affermazione in larga parte della Germania, dei Paesi Scandinavi e dell’Inghilterra della Riforma protestante (nelle sue varianti luterane e anglicane) determinò oltre alla distruzione del potere politico detenuto in queste zone dagli ordini e dalla gerarchia cattolica, anche l’espropriazione degli immensi possedimenti fondiari e dei beni venuti in possesso di quest’ultima.[10]

Inoltre delle forti tendenze centrifughe vennero spesso espresse dall’aristocrazia feudale delle varie regioni “periferiche”, il cui oggetto principale consisteva nel decidere con la forza militare quale grado di potere e di influenza politica fosse detenuto volta per volta dai diversi segmenti che componevano le classi dominanti: queste guerre tra re e feudatari ribelli a volte si combinarono dialetticamente con le frequenti battaglie createsi nel Medioevo tra potere ecclesiastico e laico, come avvenne nella “lotta per le investiture” sopra nominata.

Anche l’esperienza millenaria del feudalesimo in Cina è stata caratterizzata carsicamente da serie lotte intestine verificatesi tra i molteplici gruppi sociali venuti in possesso delle condizioni della produzione e del surplus, conflitti determinati dalla diversa posizione economico-sociale detenuta dalle varie componenti privilegiate nell’universo feudale Han. Limitandosi solo all’VIII-IX secolo d.C., risulta che nel 713 d.C. la setta buddista “dei tre stati”, che aveva accumulato nei secoli enormi ricchezze fondiarie, venne espropriata completamente dall’imperatore Xuanzong; nel triennio 843-845, la persecuzione dell’imperatore Wuzong portò alla confisca dei beni delle potenti chiese manichee e buddiste, nestoriane e zoroastriane ed alla riduzione allo stato laico dei loro esponenti ecclesiastici, mentre invece tra il 755 ed il 763 le forze guidate da An Lushan e Shi Siming scatenarono una grande ribellione contro la dinastia regnante dei Tang, appoggiandosi su governatori militari e sui feudatari delle province dell’impero.[11]

Passando dall’arcipelago nipponico, durante il periodo Tokugawa (1600-1868) lo sfruttamento feudale sui contadini esercitato dall’aristocrazia fondiaria giapponese (i Kosaku) fu affiancato dall’appropriazione “di seconda mano” del surplus agricolo effettuata dai potenti mercanti ed usurai protoborghesi, i Chonin, visto che essi prestarono denaro su larga scala ai signori feudali nipponici ed ottennero in cambio il controllo di larga parte del plusprodotto agricolo: ma questi ultimi non riuscirono mai a controllare il potere politico e furono sempre sottoposti alla minaccia di espropriazione da parte dello stato feudale e dei suoi mandanti sociali, nonostante fossero ormai diventati la classe più forte sul piano economico.

«Dal punto di vista politico e giuridico, il Giappone rimase una società feudale fino alla metà dell’Ottocento. Le classi che si trovavano al di sotto dei samurai non godevano di alcun diritto politico; non esistevano istituzioni rappresentative dei Chonin ed era del tutto assente il classico concetto borghese di ordinamento giuridico. “Anche le più potenti case commerciali – scrive W. Ilkinson – erano tradizionalmente prive di ogni protezione giuridica contro la cancellazione forzata di debiti, l’imposizione di tributi, la confisca integrale dei beni a opera delle autorità politiche.»[12]

Nelle formazioni economico-sociali schiavistiche assunsero invece una notevole importanza tutti i conflitti economici e le lotte multiformi per il potere che videro protagoniste le due principali frazioni in cui si divisero i grandi possessori di schiavi dell’antichità, i proprietari agrari ed i mercanti-usurai, in uno scontro carsico che caratterizzò una parte rilevante della storia dell’antica Grecia, di Cartagine e della repubblica schiavistica di Roma. Limitandosi a quest’ultima nazione, l’approvazione di una legge che impediva ai senatori ed ai grandi proprietari fondiari di occuparsi di commercio (218 a.C.) fece sorgere la sottoclasse dei cavalieri, nelle cui mani passarono il commercio, gli appalti e gli affari finanziari della formazione statale romana: l’aristocrazia romana del denaro formò pertanto un “partito” relativamente compatto ed in lotta quasi continua con gli agrari-senatori, tanto da allearsi almeno in parte con i piccoli artigiani ed i contadini liberi romani nel corso degli scontri e nelle guerre civili che contraddistinsero il processo politico e sociale di Roma nel II e I secolo a.C.[13]

Anche la borghesia europea, nella sua lunghissima fase di sviluppo mercantile-manifatturiera (1000-1770) e nella prima parte della sua evoluzione industriale (1770-1871) si scontrò quasi ininterrottamente con l’aristocrazia feudale prima, e fondiaria in seguito: il conflitto tra gli interessi materiali contrapposti dei due “campi” socioproduttivi si trasformò in una lotta secolare per il potere politico, a volte aperta e a volte semiclandestina, dato che tutta l’esperienza concreta via via accumulata dalla nuova classe in ascesa le indicava l’importanza strategica, la centralità (anche economica) del controllo degli apparati statali, fino dalle sue origini e dalla nascita dei primi Comuni in Europa. A fianco di questo scontro si sviluppò anche un conflitto carsico, più o meno aperto, tra le diverse frazioni politiche e sociali in cui si divise via via l’intera classe borghese, tanto che fin dalla seconda metà del quindicesimo secolo, nella Firenze ormai pienamente protoborghese di quel tempo, Lorenzo il Magnifico riconobbe apertamente che «a Firenze si può mal vivere ricco sanza lo Stato», senza il controllo almeno parziale degli apparati statali[14]

Quando, attorno all’anno Mille, rinacque in Europa l’attività mercantile su larga scala e la produzione artigianale nei centri urbani, si crearono anche le condizioni materiali per la genesi di una nuova classe, esclusivamente cittadina ed operante nei borghi medioevali: la borghesia. Dopo avere acquistato gradualmente ricchezza e forza economica, la prima “mossa” politica del nuovo gruppo sociale privilegiato fu subito rappresentata dal tentativo di sottrarsi al potere dei feudatari laici ed ecclesiastici, che si estendeva ai borghi quando questi non erano altro che appendici delle campagne, ottenendo in tal modo il riconoscimento politico-giuridico della piena indipendenza cittadina rispetto al potere dell’aristocrazia rurale.

Il Comune fu originariamente un’associazione privata di nobili urbanizzati, artigiani e commercianti, espressione della solidarietà politica createsi tra le nuove classi emergenti e contemporaneamente la prima forma di contropotere politico della nascente borghesia in lotta con l’aristocrazia fondiaria. Non fu facile superare la resistenza dei signori feudali alla cessione totale/parziale dell’autorità politico-amministrativa: in alcuni casi la forza d’urto ormai acquisita dall’emergente borghesia europea facilitò il raggiungimento di accordi pacifici, ma in molti altri casi si rese necessario il ricorso alla violenza e alla creazione di milizie armate delle forze urbane (le “compagnie delle armi del popolo” italiane) e alla fine dell’XI e durante tutto il XII secolo numerose insurrezioni scoppiarono nell’Italia settentrionale, in Francia e in Germania. In Italia la città di Milano diventò Comune dopo una dura lotta del popolo minuto e dei piccoli nobili contro la grande feudalità laica (capitanei) ed ecclesiastica (vescovi); Lucca ottenne il governo consolare nel 1080, mentre Firenze nel 1188. In Germania il vescovo di Worms fu cacciato dagli abitanti della città nel 1073 e una rivolta scoppiò nel 1074 a Colonia, dove nel 1101 si formò un potere autonomo dei nuovi cittadini liberi, mentre episodi analoghi si verificarono in Francia a Cambrai, a Deuvais, a Noyon e Naon, città in cui il vescovo locale venne ucciso dalle forze popolari in rivolta.

Una volta costituitisi i Comuni, scoppiò quasi ovunque in Italia una nuova fase di lotta tra i “grandi” (o magnati semifeudali) e la borghesia. Costituita da nobili proprietari di terre trasferitisi in città o da famiglie mercantili nobilitate, “la classe magnatizia ha tenuto il governo dopo la nascita del Comune. Ben presto il suo potere si rivela in contrasto con l’esigenza di sviluppo della città. In quanto proprietari di terre e di case, i magnati sono interessati a tenere alti i prezzi delle vettovaglie e degli affitti, fatto che ha evidente ripercussioni sul livello dei salari e quindi sull’andamento generale della produzione industriale e del commercio. Eredi di una mentalità feudale o propensi ad acquistarla, essi tendono inoltre a trasferire nelle città criteri di discriminazione sociale, rovesciando sugli altri ceti della popolazione il peso fiscale, riservandosi ingiustificati privilegi di fronte alla giustizia, accaparrandosi gli uffici pubblici.

Man mano che i traffici e le iniziative economiche si diffondono, incrementando la ricchezza dei cittadini, si organizza la resistenza contro questo dominio”.[15]

Come protagonista principale della lotta antimagnatizia emerse di regola l’alta borghesia o “popolo grasso”, appoggiato di solito da quella massa di artigiani e bottegai che allora formava il popolo minuto: essa tese progressivamente a strappare il potere politico-sociale ai vecchi protagonisti e ad annullarne i privilegi, anche attraverso la creazione di “Statuti” che discriminavano politicamente e giuridicamente sia i ceti nobiliari sconfitti che gli operai salariati ed i contadini, perennemente esclusi dalla partecipazione alla democrazia comunale di matrice protoborghese.

«A Firenze nel 1250, in seguito ad un movimento popolare, al quale partecipano unitariamente l’alta borghesia ed il popolo minuto, si crea un’organizzazione militare autonoma, a capo della quale è posto il capitano del popolo, ed un organo popolare di governo, gli Anziani del popolo, assistiti da un consiglio di 36 boni homines con il compito di controllare il potestà ed i consigli cittadini. Questa nuova struttura politica, nella quale l’alta borghesia aveva la preminenza, fu detta Ordinamento del primo popolo.

A Bologna, nel 1255-56, dopo una prima rivolta popolare scoppiata nel 1228, il popolo conquista a maggioranza in seno al consiglio cittadino. A Genova, nel 1256, l’accordo del popolo per le famiglie ghibelline, guidate dai Doria e dagli Spinola, porta all’elezione di un capitano del popolo, Guglielmo Boccanegra, al quale è affidato il governo della città per dieci anni. A Milano, dove si sono create le associazioni della Motta e del Credenza di sant’Ambrogio (che raggruppano la grande e la piccola borghesia), la lotta popolare è guidata inizialmente da Pagano della Torre, la cui famiglia continuerà ad avere un ruolo importante nello sviluppo del movimento popolare e nella creazione del Comune per tutto il XIII secolo. Anche qui, il popolo riesce a conquistare una sua sfera di autonomia nell’ambito del Comune e ad ottenere il riconoscimento della sua organizzazione ed il potere di controllo sul podestà.

Nel 1256, viene promossa un’agitazione per annullare il privilegio che hanno i nobili di comporre per denaro i delitti di sangue, privilegio che consente i più gravi abusi. L’agitazione dà origine ad una rivolta, che si conclude con un accordo in base al quale le cariche cittadine vengono divise in parti uguali tra nobili e popolani.

Quelli che abbiamo indicati sono pochi esempi di un movimento generale che investe tutti i Comuni italiani; un movimento vittorioso che si consolida e si amplia nella seconda metà del Duecento, modificando un po’ dappertutto l’organizzazione politica ed amministrativa dei Comuni. Si elaborano allora degli Statuti, che fissano in modo permanente le norme legislative che regolano la vita cittadina. Nobili ed ecclesiastici perdono, nelle città, i loro privilegi, assoggettandosi alla legislazione del Comune che acquista caratteri di universalità, almeno per ciò che si riferisce alle classi che godono dei diritti politici.»[16]

In una terza fase, apertasi con il 1566 in Olanda e durata fino al 1871, la borghesia condusse a buon termine una serie di processi rivoluzionari che scardinarono in una serie di formazioni statali europee gli assetti di potere sociali feudali/semifeudali. Infatti tra il 1566 ed il 1648 i mercanti e gli imprenditori olandesi si liberarono del dominio coloniale esercitato nei Paesi Bassi dall’impero Spagnolo; la borghesia inglese effettuò a sua volta due rivoluzioni contro l’assolutismo semifeudale degli Stuart, dirette prima da Cromwell (1642-1649) ed in seguito da Guglielmo d’Orange (1688-1690); la borghesia francese fece a pezzi prima la propria aristocrazia terriera ed i suoi mandatari politici, tra il 1789 ed il 1794, mentre in seguito demolì le strutture feudali in alcuni stati europei grazie alla “punta delle baionette” utilizzata dagli eserciti di Parigi (1794-1810).

Nel corso del XIX secolo, infine, la nuova borghesia industriale vinse definitivamente la partita politico-sociale con i suoi “cugini di classe” dell’aristocrazia fondiaria in Gran Bretagna ed in Francia (1815-1832) e costituì tra il 1860 ed il 1871, in Germania ed in Italia, due stati nazionali che travolsero una miriade di regimi semifeudali, laici o clericali (quali lo ­stato pontificio nell’Italia centrale).

L’esperienza storica complessiva dimostra come la borghesia non sia mai stata un blocco monolitico, anche e specialmente durante l’ultimo secolo di storia.

La progressiva affermazione negli ultimi centoquarant’anni dello stadio monopolistico del capitalismo, con il processo di fusione del capitalismo bancario con quello industriale e la progressiva creazione di un alto livello di concentrazione della produzione e dei capitali, determinarono anche la riproduzione di una nuova serie di contraddizioni economico-sociali e di conseguenza politiche tra i diversi segmenti che compongono l’insieme della classe divenuta egemone nel possesso delle condizioni della produzione. Lenin nel 1916 aveva notato che «nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono, originando così una serie di contraddizioni particolarmente aspre ed improvvise, di attriti e di conflitti.», e dopo solo tre anni notò il processo accelerato di formazione del capitalismo monopolistico di stato, contraddistinto dal ruolo particolarmente importante svolto dalla sfera politica e dai nuclei dirigenti politici al potere nell’assicurare e garantire il processo complessivo di riproduzione dell’accumulazione capitalistica.[17]

Durante e dopo gli anni compresi tra il 1914 ed il 1929, le principali contraddizioni socioproduttive che hanno segnato ed attraversato il campo globale formato dalla borghesia nelle metropoli imperialiste più avanzate sono quelle via via emerse tra i monopoli e la piccola borghesia, tra il settore dell’industria pesante e quello della produzione di beni di consumo, tra il settore produttivo di proprietà statale e quello privato, tra le multinazionali straniere ed il capitalismo nazionale, oltre che tra i monopoli concorrenti nello stesso ramo produttivo: cinque linee di tensione che spesso si sono intersecate tra loro, talvolta raggiungendo livelli molto elevati di intensità di conflitto.

Proprio il totale/parziale controllo egemonico acquisito ed esercitato sugli apparati statali e governativi all’interno del capitalismo monopolistico di stato, occupazione attuata di regola attraverso dei propri mandatari politici dotati di livelli variabili di autonomia rispetto ai mandanti sociali, contraddistingue la frazione vincente (volta per volta) dei monopoli dei trust e dei gruppi finanziari: tali segmenti egemoni e i loro alleati spesso stipulano per via politica e attraverso i propri mandatari politici al potere dei compromessi di natura variabile con le frazioni provvisoriamente perdenti del grande capitale e della piccola e media borghesia, di regola mediante gli esponenti politici di questi ultimi, mentre sempre per via politico-sociale le diverse frazioni del capitale inoltre creano e costruiscono le loro rispettive alleanze e blocchi sociali (Gramsci), che possono includere al loro interno anche segmenti significativi delle masse popolari e dei sindacati.

Anche estrapolando dalle relazioni internazionali, il “pluralismo” endogeno e la conflittualità economica (e politica) tra le varie classi e frazioni di classe venute in possesso delle condizioni della produzione e del surplus rappresentano una realtà storica innegabile e di durata plurimillenaria, che fa sì che tra i “litiganti” il “terzo” (alias lo stato) assuma ed acquisisca un’importanza centrale, strategica e decisiva: quando si riproducono conflitti economici tra i diversi segmenti e gruppi sociali che compongono l’insieme delle classi privilegiate e sfruttatrici – ed abbiamo verificato come tali lotte siano frequenti – il processo di occupazione totale/egemonico degli apparati statali e della sfera dei poteri decisionali diventa sempre l’atout decisivo e fondamentale per discriminare tra parti vincenti ed attori sconfitti, tra interessi economici vincenti ed aspettative economiche invece subordinate, in tutto o in parte

Una terza sorgente (secondaria, ma non priva di peso politico-economico) di scontri e contraddizioni, a volte sanguinosi, all’interno dei gruppi sociali privilegiati venuti in possesso delle condizioni della produzione del surplus è rappresentata dal “complesso di Assalonne” nelle sue molteplici manifestazioni storiche, e cioè dalla loro diffusa tendenza a dividersi in base a diverse opzioni di politica statale ed internazionale ed a scatenare delle lotte per il controllo diretto della gestione del potere politico, pur in presenza di una loro relativa omogeneità socio produttiva.

Le condizioni storiche e soggettive date volta per volta determinano se il lato prioritario delle lotte politiche sviluppatesi all’interno di determinati gruppi sociali, allo stesso tempo privilegiati ed omogenei sul piano socioproduttivo, spetti alla presenza di effettive divisioni su scelte strategico-tattiche o sia invece incentrato su puri e semplici scontri per il potere, più o meno mascherati da pretesti politici e/o ideologici: il dato di fatto centrale che emerge dalle esperienze storiche plurimillenarie delle società di classe consiste in ogni caso nella coesistenza conflittuale spesso creatasi tra una relativa uniformità di posizioni nel processo produttivo e la contemporanea relativa frammentazione e disomogeneità nella composizione politica dei gruppi sociali privilegiati, pur uniti da una posizione comune e sostanzialmente uniforme rispetto alle fonti di reddito e al possesso dei mezzi di produzione sociali.

In sostanza anche gruppi sociali omogenei come i grandi feudatari laici ed i dirigenti centrali del modo di produzione asiatico, anche la fascia superiore della classe dei proprietari di schiavi interessata nel settore della produzione agricola o l’alta borghesia manifatturiera/industriale hanno sviluppato al loro interno tutta una serie di scontri intestini di natura politica e/o politico-religioso, generata dal confronto tra strategie alternative in campo sociale, economico o di politica internazionale, o da mere, nude e semplici lotte per il potere: uniti in un fronte compatto contro la sollevazione della “plebe” e delle masse popolari, tali tendenze e “partiti” politici si sono spesso scontrati al loro interno per l’egemonia politica all’interno delle loro rispettive formazioni statali, con le inevitabili ricadute materiali negative sulle frazioni sconfitte volta per volta e sui loro mandanti sociali.

Lo “scarto” e l’asimmetria che si è prodotta ripetutamente da millenni tra la relativa omogeneità socioproduttiva e la relativa disomogeneità politica delle classi privilegiate è spiegabile innanzitutto con il grado mutevole di complessità dei problemi politici che ogni gruppo sociale dominante deve affrontare, volta per volta. Quanto più difficile si presenta la soluzione ottimale dei “nodi” che essa deve sciogliere, tanto più profonde possono diventare le divergenze al suo interno, e tanto più diversificata diventerà la gamma di risposte e strategie elaborate ed elaborabili per trovare risposte ottimali alle scelte di priorità da selezionare, alle crisi/nemici/ostacoli da superare; tanto più aleatorie si presentano le perdite dei guadagni derivanti dalle varie opzioni e/o tanto più originali ed impreviste appaiono le difficoltà da superare, tanto più difficile diventerà una sintesi politica unitaria all’interno delle diverse classi dominanti, anche se relativamente coese sul piano socioproduttivo. Anche per gruppi sociali con identici interessi di classe/frazioni di classe non sempre è stato facile affrontare di comune accordo, senza l’aiuto delle lezioni fornite dalla successiva pratica storica, alcuni nodi gordiani riguardanti:

–         la corretta valutazione dei rapporti di forza statali ed internazionali, base indispensabile e preliminare per l’elaborazione/attuazione di una vantaggiosa strategia e tattica

–         la corretta previsione della dinamica dei rapporti di forza statali ed internazionali nel breve-medio periodo (1/5 anni): arte necessaria, ma molto difficile, da praticare senza suscitare discussioni, dei “se” e “ma”

–         la corretta individuazione del nemico principale, in presenza di una pluralità di attori politici ostili nello scacchiere statale/internazionale: arte politica necessaria ma di regola difficile da praticare senza suscitare discussioni, “se” e “ma”

–         una giusta interpretazione delle intenzioni, dei moventi principali e delle scadenze temporali via via adottate dagli altri attori dello scacchiere politico statale/internazionale: mettersi nei panni di alleati ed avversari rappresenta un processo mentale molto utile nella sfera politico-sociali, ma che spesso non garantisce un elevato margine di sicurezza prima dell’azione concreta sul campo e può produrre a volte sia gravi errori che divergenze di valutazione

–         l’individuazione del mezzo di lotta principale, maggiormente utile per sconfiggere gli avversari o massimizzare al massimo grado possibile le proprie posizioni nelle situazioni più difficili: la divisione tradizionale tra “falchi” e “colombe” nasce proprio dalle diverse risposte alla soluzione di questo problema

–         l’individuazione dei tempi e della concentrazione effettiva degli sforzi necessari per realizzare un’azione di forza sufficiente a raggiungere determinati obiettivi tattico-strategici

–         i livelli di sacrifici che le classi privilegiate si devono autoimporre, mediante i propri mandatari politici, in caso di gravi crisi economico-sociali o di stati di emergenza interni/internazionali

–         la scelta ottimale tra opzioni e scelte di priorità economico-sociali, alternative tra di loro ed astrattamente utilizzabili nello stesso periodo, al fine di favorire la riproduzione del modo di produzione classista interessato

–         la scelta ottimale tra diverse alleanze e blocchi sociopolitici alternativi tra di loro, nel campo della politica statale.

–         la scelta ottimale tra diverse alleanze e blocchi statali alternativi tra di loro, in materia di politica internazionale.

Non solo gli errori in campo politico-sociale sono sempre possibili, visto che gli esseri umani delle società di classe non sono assolutamente omniscenti ed infallibili, né come individui né come insieme collettivo, ma a volte i “nodi gordiani” potenziali si trasformano in enigmi reali specie nel campo scivoloso della previsione, creando delle divisioni politiche reali non sempre facilmente ricomponibili e spesso delle ricadute rilevanti sul piano economico e nei rapporti sociali di produzione/distribuzione.

Pertanto in molte situazioni storiche la gravità dei problemi e dei “nodi gordiani” da sciogliere hanno prodotto l’impossibilità concreta di raggiungere una preventiva sintesi politica unitaria tra le diverse “sensibilità” e tendenze politico-sociali in cui si è spesso frazionato il campo delle classi privilegiate e venute in possesso delle condizioni della produzione, anche se collocate su posizioni omogenee nei rapporti socioproduttivi: persino una delle più compatte classi dominanti conosciute dalla storia, l’alta borghesia mercantile-manifatturiera della Repubblica veneziana, si trovò in alcuni casi divisa al suo interno su una serie di scelte tra opzioni politiche alternative tra di loro nel corso della sua quasi millenaria riproduzione storica (810-1746 d.C.).

Ad esempio a partire dalla fine del XVI secolo si riprodusse per alcuni decenni una spaccatura profonda tra la vecchia oligarchia mercantile ed i cosiddetti “Giovani”, una frazione politica della classe dominante veneziana formatasi dopo il 1580. Oltre a lottare per evitare l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani del Consiglio dei Dieci, e cioè dell’apparato giudiziario-repressivo centrale nello stato veneziano, i “Giovani” si scontrarono con l’antica frazione politica dominante anche sulla politica estera, dato che essi sostennero la necessità di una lotta aperta contro le forze imperiali austro-spagnole che allora accerchiavano Venezia, con l’appoggio del Vaticano: in contrasto con la prudente politica dei “vecchi”, i “Giovani” volevano che Venezia affermasse la propria piena indipendenza e difendesse apertamente i suoi interessi, anche a costo del rischio di una guerra con la Spagna ed il Vaticano, e solo attorno al 1628 la frattura tra i due “partiti” venne parzialmente ricomposta.[18]

Il monolitismo nelle scelte politiche risulta difficile da raggiungere anche all’interno delle stesse forze politico-sociali. Ad esempio una delle forme di organizzazione più antica e consolidata della borghesia occidentale, quale era ed è tuttora la massoneria, ha visto storicamente al suo interno profonde spaccature tra i diversi gruppi condensatisi al suo interno: erano su fronti opposti il massone Robespierre ed il massone Luigi XVI, il massone Napoleone ed il massone Nelson, il massone Pinochet e il massone Allende.[19]

Lo scarto tra omogeneità socioproduttiva e relativa disunione politica di classi-frazioni di classi privilegiate uniformi si spiega anche con l’estrema concentrazione del potere politico che si verifica nelle società di classe (paraclassisti), al cui interno il potere decisionale, repressivo e di controllo viene di regola assunto ed utilizzato da poche decine di persone:il leader dominante ed altri eventuali dirigenti politici di alto livello, il nucleo di supporto tecnico-politico dei leader centrali e la cerchia ristretta di alleati realmente influenti rispetto alla nomenklatura politica egemone.

In sostanza da sei millenni il rapporto numerico “normale” tra nuclei dirigenti al potere e l’insieme delle classi sociali di riferimento di questi ultimi risulta di regola estremamente sbilanciato a favore del secondo lato della relazione, in modo tale che per ogni gruppo dirigente dominante nelle diverse formazioni statali si ritrovano, anche nelle strutture politiche più “democratiche”, almeno un centinaio di esponenti dei gruppi sociali privilegiati esclusi e alienati, più o meno completamente, dalla gestione diretta ed in prima persona del potere politico centrale; in larga parte degli scenari storici la sproporzione in oggetto sale enormemente, superando quasi sempre il rapporto di uno a mille.

Ad esempio Venezia è rimasta per alcuni secoli, tra il 1327 e il 1797, uno degli involucri politici delle formazioni economico-sociali classiste nel quale l’esercizio del potere e la gestione diretta degli affari comuni sono state distribuite nel modo più vasto e diffuso tra l’insieme dei membri della classe dominante, tra i mercanti-imprenditori manifatturieri della Serenissima. Un efficace e collaudato meccanismo di bilanciamento dei poteri e del reciproco controllo tra di essi ha consentito per secoli una partecipazione diretta, relativamente ampia, dei patrizi veneziani alla vita politica: il doge, la più alta carica rappresentativa (vitalizia) era affiancato dal Gran Consiglio, un’assemblea composta da 25 membri ed analoga per funzionamento ad un moderno consiglio di ministri, organi coadiuvati nel loro funzionamento dal già citato Consiglio dei Dieci.

Queste quaranta persone circa, in cui si accentrava il potere esecutivo e giudiziario, costituivano tuttavia pur sempre una ristretta minoranza della fascia superiore della borghesia veneziana, i cui membri iscrivevano dal 1327 i loro nomi in un registro, il Libro de’ Oro, che conferiva loro ed ai discendenti il diritto esclusivo di accedere ai più alti organi di potere: nel 1570 il loro numero era pari a circa 2500 individui.[20]

Se questa risulta la situazione negli scenari storici contraddistinti da un potere centrale (relativamente) diffuso, è facile immaginare in altri casi “iperconcentrati” l’importanza della divisione storica sorta tra i gestori diretti di potere politico centrale-locale e gli esponenti alienati da tale partecipazione in prima persona, pur essendo collocati negli stessi gruppi privilegiati relativamente omogenei: una divisione che come minimo alimentava (ed alimenta tuttora) una tensione latente tra “inclusi” ed “esclusi” e costituiva/costituisce una base potenziale delle lotte di potere intestine nella classe dominante, a maggior ragione se collegata con vuoti di potere o perdite di prestigio/credibilità delle nomenclature al governo.

Queste lotte carsiche per il potere tra i gruppi sociali privilegiati “inclusi” ed “esclusi” dalle sfere decisive del potere politico e degli apparati statali, spesso senza il retroterra di reali ed effettive differenziazioni politico sociali, costituisce il secondo corno del complesso di Assalonne ed un elemento rilevante di contrasto tra i gruppi sociali privilegiati omogenei sul piano produttivo ed i loro rispettivi mandatari e referenti politici.

Non è certo  casuale che il momento della successione, della scomparsa dei diversi leaders politici delle formazioni statali sia stato di regola una dei momenti più delicati nei processi politico-sociali delle proteiformi formazioni economico-sociali precapitalistiche che si sono affermate a partire dal 3700 a.C.: nei casi estremi, come quello dell’impero Ottomano nel 1488-1600, i figli del sovrano deceduto esclusi dalla successione al potere potevano essere subito uccisi dal nuovo re-fratello in base alla “legge fratricida”, al fine di evitare pericolosi scontri intestini per il controllo del potere decisionale.[21]

Non è certo un caso che, fin dal 1100 a.C., la storia del popolo ebraico possa ricordare tutta una serie di microguerre civili all’interno degli strati più elevati di quell’aristocrazia feudale che iniziava a controllare i mezzi di produzione e il surplus nell’area geopolitica palestinese. Infatti proprio alla fine del II millennio a.C. uno dei principali re ebrei, Davide, dovette affrontare con le armi la sfida lanciatagli da uno dei suoi stessi figli, Assalonne, che guidò all’inizio del X secolo a.C. la rivolta di alcune tribù del regno, stanche di subire il pesante fardello creato dalle campagne militari lanciate da Davide contro le altre popolazioni della zona (gebusei, filistei, ecc.): stando al resoconto biblico, la brama di potere di Assalonne giocò un ruolo importante nella sanguinosa guerra familiare, anche se essa si collegò in via marginale alla scelta tra priorità politiche alternative sviluppatesi in quel tempo all’interno dei gruppi dominanti nello stato ebraico.[22]

La guerra civile all’interno del clan davidico costituisce solo uno dei primi esempi documentati di un filone ricorrente nella millenaria storia politico-sociale delle formazioni classiste, visto che le lotte per il potere dei ristretti clan, uniti da vincoli di sangue o dalle strette affinità nel loro ruolo politico (eunuchi, ecc.), hanno trovato numerosi “eredi” politici in tutti i modi di produzione classisti, fino ad arrivare alle moderne lotte di potere che si sviluppano tra le diverse correnti e frazioni interne dei partiti politici che operano nelle democrazie parlamentari, l’involucro politico più diffuso nel capitalismo monopolistico di stato contemporaneo, con le relative ricadute economiche sia per le parti politiche in conflitto che per i loro mandanti sociali

Arrivati a questo punto, si può tentare di trarre alcune lezioni politiche dall’analisi delle tre sorgenti principali che alimentano il primato dell’occupazione del potere politico e le classi sfruttatrici, anche nelle loro relazioni reciproche in campo statale ed internazionale.

Dalla panoramica storica sovraesposta, emerge in primo luogo come il monolitismo politico-sociale, i processi capaci di creare delle sintesi politiche unitarie in grado di coinvolgere costantemente tutti-quasi tutti i segmenti delle classi privilegiate apparse dopo il 3700 a.C. rappresentino delle vere e proprie rarità storiche, specie se si prendono in considerazione anche i rapporti internazionali (spesso conflittuali) che si sono creati tra i gruppi sociopolitici dominanti nelle diverse formazioni statali venute in rapporto reciproco tra loro. In seconda battuta proprio l’azione ricorrente e a volte combinata di ciascuna delle tre “fonti” principali di scontro politico-sociale, sempre all’interno delle classi e frazioni di classi venute in possesso delle condizioni di produzione e del surplus, non può che determinare e riprodurre costantemente un ruolo decisivo della sfera politica nei processi di affermazione-successo di determinate classi, opzioni politico-sociali e/o gruppi di potere: la tesi maoista sull’importanza del “occupazione” del potere politico per il successo storico (o la sconfitta) di determinate classi e frazioni di classe viene confermata da un’esperienza storica plurimillenaria, dato che il controllo (totale o parziale) del potere e degli apparati statali è sempre vantaggioso, utile ed essenziale proprio per la tutela dei bisogni politico-materiali dei diversi gruppi sociali privilegiati considerati nei loro rapporti conflittuali, o anche solo di neutralità reciproca.

Infatti gli scontri internazionali che tendono a estromettere i nuclei dirigenti di certe formazioni statali, in molti casi espropriando o indebolendo sul piano economico i loro mandanti sociali, si giocano essenzialmente sul piano politico, politico-militare (paramilitare, a volte: Iran 1983, ecc.), attraverso il successo/insuccesso delle operazioni militari e/o paramilitari che si sviluppano via via tra lo stato aggressore e quello aggredito; a loro volta anche le diverse contraddizioni materiali manifestatesi tra classi e frazioni di classi privilegiate, con interessi economici e/o politici in conflitto, si risolvono in senso favorevole/sfavorevole agli antagonisti a seconda dell’esito finale delle lotte nel campo politico, a seconda di chi tra di essi risulti realmente vittorioso (in tutto o in parte) nello scontro per il controllo del potere decisionale/repressivo, attraverso vie pacifico elettorali o violente.

Un discorso analogo vale anche per il complesso di Assalonne, nelle sue diverse manifestazioni storiche: la scelta concreta tra opzioni politiche alternative tra loro avviene sempre nell’ambito della sfera politica, come del resto accade per i processi di selezione più o meno sanguinosa/pacifica tra i gruppi e clan venuti in conflitto per il controllo del potere statale.

Le tre “sorgenti” di conflitti non vivono in un mondo a parte e separato.

In sostanza è sufficiente la presenza attiva di almeno una “fonte” creatrice di contraddizioni intestine, sempre all’interno dell’azione via via svolta dai gruppi privilegiati sul piano socioproduttivo, per rendere centrale per questi ultimi proprio la sfera politica ed il suo “gioco a somma zero” nel processo di tutela dei loro rispettivi interessi economici, o per affermazione di determinate ricadute materiali e concrete.

Impossessandosi totalmente/parzialmente dei diversi organi dell’apparato statale, in modo più o meno completo i nuclei politici vittoriosi escludono gli antagonisti dall’accesso al potere direzionale, di controllo e repressivo delle loro formazioni statali in modo più o meno completo, potendo pertanto decidere sugli affari comuni della società in un senso sfavorevole agli interessi politico-materiali dei propri avversari/antagonisti e dei loro mandanti sociali, garantendosi allo stesso tempo una favorevole riproduzione materiale della loro esistenza come soggetto politico e – soprattutto – producendo scelte di priorità almeno particolarmente a vantaggio dei loro più diretti referenti sociali.

Una prima conferma “in negativo” della sovraesposta “teoria dell’occupazione” viene dall’esperienza plurimillenaria vissuta dall’élite economica del popolo ebraico ed in particolare dalla sua profonda e costante vulnerabilità, in assenza forzata di un suo controllo (almeno parziale) sui centri decisivi del potere politico e degli apparati statali delle nazioni nelle quali operava.

«In diversi periodi, nell’antichità, nei secoli bui e nell’Alto Medioevo, nel XVI secolo, gli ebrei avevano avuto commercianti e imprenditori brillanti, spesso di grande successo, ma il potere economico ebraico era estremamente vulnerabile, con ben scarsa tutela sul piano legale. Sia nella cristianità sia nell’islam i patrimoni degli ebrei erano esposti a sequestro arbitrario da un momento all’altro. Si potrebbe dire che l’assalto nazista alle attività ebraiche, tra il 1933 ed il 1939, o le confische di proprietà ebraiche da parte degli stati arabi negli anni 1948-50, sono stati soltanto gli ultimi più radicali di questi attacchi economici contro gli ebrei.»[23]

Il filosionista P. Johnson ha intuito quasi per caso la reale importanza (economica) del controllo diretto-indiretto degli apparati statali per ogni classe-frazione di classe sfruttatrice, ma anche nella nostra epoca post-moderna vi sono innumerevoli segnali in questa direzione, a partire dalla vittoria nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2000 e del 2004 del repubblicano G. W. Bush.

Anche se la differenza reale tra i programmi di quest’ultimo e dei democratici A. Gore e Kerry era inesistente su nodi politici centrali, quali la difesa a oltranza del sistema capitalistico americano o la priorità assoluta attribuita da tutti gli interessati alle esigenze planetarie dell’imperialismo statunitense, il successo riportato dal rampollo della dinastia Bush sui suoi rivali ha consentito in una certa fase la quasi completa affermazione della sfera dei bisogni e dell’opzione politico-materiali di alcune frazioni del monopolio statunitense, operanti nel settore energetico e degli armamenti, tanto da consentire allo scrittore statunitense G. Vidal di affermare che “l’ex presidente Bush Senior rappresenta il Carlyle Group: petrolio. L’attuale presidente, George W. Bush, rappresenta la Harken Oil, che ha legami con l’Arabia Saudita. La bellissima Condoleeza Rice è stata per dieci anni una dirigente della Chevron: petrolio. Il ministro della Difesa Rumsfield, Occidental Oil: petrolio. Questi sono i grandi rappresentanti del governo” (Manifesto, dicembre 2002).

Detto in altri termini, tra il 2001 ed il 2008 i mandatari politici delle grandi multinazionali petrolifere e del complesso militare-industriale del paese hanno occupato le posizioni centrali della stanza dei bottoni di Washington, spostando con più decisione che in passato il baricentro politico dell’imperialismo USA a sostegno di posizioni iperaggressive rispetto ad aree “calde” ed importanti del pianeta quali l’Asia centrale, il Golfo Persico e l’Europa orientale, dando vita ed alimento alle guerre scatenate contro l’Afghanistan e l’Iraq nel periodo compreso tra il 2001 e il 2003 ed ottenendo dal loro successo politico enormi dividendi materiali per i loro diretti mandanti sociali: ad esempio la Lockeed Martin ha visto aumentare le sue vendite di armi al Pentagono più del 30% nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2004.[24]

In modo sostanzialmente corretto Norman Birnbaum, docente all’Università di Georgetown di Washington, ha focalizzato l’attenzione sul cardine centrale dell’ideologia e della pratica politica di G. W. Bush e del suo clan, in cui la distinzione tra politica ed affari sostanzialmente svanisce, anche sotto l’aspetto formale e propagandistico.

«I democratici ridono del suo nepotismo, l’accusano di considerare la politica un business. Ma, in realtà, il giovane Bush ha capito un aspetto fondamentale del capitalismo: la sottomissione della sfera pubblica al mercato. I suoi soci in affari, esattamente come suo padre, sono presenti nel commercio delle armi, nei servizi finanziari, della petrolchimica e dell’alta tecnologia. E i loro rappresentanti sono stati quindi piazzati alla testa delle istituzioni e dei dipartimenti federali.»[25]

L’importanza di avere propri uomini e propri amici, ben “piazzati” nei gangli centrali degli apparati statali, risulta del resto perfettamente conosciuta dalla borghesia e si è manifestata chiaramente anche nei frequenti scontri creatisi tra i monopoli della stessa nazione o di diversa provenienza statale, lotte che hanno spesso segnato nell’ultimo secolo i processi economici all’interno delle metropoli del capitalismo di stato post-moderno e contemporaneo. Quando l’economista S. Cingolani ha analizzato minuziosamente le “guerre dei mercati” e le alleanze che hanno contraddistinto la storia delle multinazionali mondiali del settore dell’auto, dell’elettronica, delle finanze e dell’energia, dell’aviazione e dell’alimentazione a partire dall’inizio della seconda guerra mondiale, sintetizzando i risultati complessivi del suo lavoro lo studioso italiano ha espresso un’interessante valutazione sul ruolo determinante giocato dalla sfera politica nelle guerre di mercato avvenute nell’ultimo secolo, con particolare riferimento al ventennio 1980-2000.

«Nel ventennio in cui lo stato ha mollato il ruolo di produttore di ricchezza, ha ridimensionato la sua funzione redistributrice (soprattutto di fronte all’esplodere dei mercati finanziari), ma molto spesso ha rinunciato anche a scendere in campo come arbitro, si sono verificate pesanti intromissioni dei governi nelle guerre di mercato per sostenere imprese (è avvenuto nella battaglia Boeing-Airbus) o interessi di gruppi organizzati (come i contadini in Europa e i produttori di auto negli Stati Uniti), operare salvataggi non tutti economicamente giustificati (l’acciaio in Europa, la Chrysler e le casse di risparmio negli USA). In modo diretto e indiretto il potere politico è sempre rimasto attivo, come abbiamo visto. Persino la Coca-Cola deve il suo primato al sostegno ottenuto dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale. Il dibattito sul ruolo del pubblico contrapposto al privato, dunque, dovrebbe tenere presente molto di più il concreto svolgimento del conflitto concorrenziale.»[26]

Il ruolo del settore pubblico ha esercitato un enorme peso sia nel caso politico-giudiziario che ha coinvolto la Microsoft di Bill Gates nel 1997-2001, che nel processo di sostegno finanziario statale costantemente offerto per decenni al monopolio torinese della FIAT, passando negli ultimi decenni dalla vendita-regalo dell’Alfa Romeo fino agli aiuti economici forniti dai governi Prodi e Berlusconi alla famiglia Agnelli per contrastare la concorrenza internazionale: gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare proprio partendo dall’area italiana, visto che proprio un certo Silvio Berlusconi è sicuramente a conoscenza da molti decenni del ruolo decisivo svolto dalla sfera politico-sociale nell’assicurare il successo/insuccesso economico di certi capitalisti, di determinati monopoli e di particolari tendenze politico-sociali della borghesia monopolistica rispetto ai loro concorrenti economici ed avversari politici.

Un’ulteriore massa di prove empiriche a sostegno dell’importanza assunta ancora oggi, proprio nell’era post-moderna, dai processi di occupazione – totale/parziale – degli apparati statali e della sfera politica da parte delle diverse frazioni che compongono l’insieme dei gruppi sociali privilegiati proviene dalle concrete esperienze moderne e post moderne vissute da tutte quelle potenti “minoranze economicamente dominanti” nei loro stati di appartenenza, abitati in larga maggioranza da popolazioni di etnia/religione/lingua diversa dalla loro, le quali risultano di regola particolarmente vulnerabili ad attacchi politico-economici da parte dei loro concittadini, ivi comprese le lobby economiche più ricche e potenti di questi ultimi.

La studiosa americana Amy Choua ha notato correttamente che, tra il 1945 ed il 2002, «in tutti i paesi del Sud e del Sud-Est asiatico, dell’Africa, dei Caraibi e delle Indie occidentali, in quasi tutta l’America Latina e in alcune zone dell’Europa orientale e della ex Unione Sovietica, il libero mercato ha determinato una rapida accumulazione di ricchezze, tanto consistenti da risultare spesso sconvolgenti, nelle mani di una minoranza etnica “estranea” o “alloctona”»: secondo Choua tali minoranze dominanti sul piano economico si distinguono sia «per le loro origini, per il colore della pelle, per la religione, per la lingua o per legami di sangue dalle masse impoverite o dalle altre sezioni dei ceti benestanti che li circondano e che li considerano appartenenti a una diversa etnia o a un gruppo differente», che per il loro interesse vitale al mantenimento/acquisizione di un grado sufficiente di controllo sulla sfera politica e gli apparati statali.

Sempre secondo la studiosa «il dato di fondo è questo: la democrazia» (di matrice occidentale e liberalparlamentare) «può risultare avversa agli interessi delle minoranze economicamente dominanti. Gli indiani del Kenya e i bianchi del Sudafrica, dello Zimbabwe e degli Stati Uniti del Sud che per generazioni hanno opposto resistenza alla democratizzazione avevano ottime ragioni per farlo: le minoranze economicamente dominanti non aspirano mai alla democrazia, almeno non quando rischiano che il loro destino sia deciso da un vero governo di maggioranza.

Alcuni lettori solleveranno di certo molte obiezioni. Spesso sembra che diverse minoranze economicamente dominanti – i cinesi in Malaysia, tanto per fare un esempio, o gli ebrei in Russia e gli statunitensi in tutto il mondo – rappresentino i più accesi fautori della democrazia. Ma il concetto di “democrazia” è notoriamente controverso, e il suo significato varia secondo l’uso.

Quando una minoranza imprenditoriale ma politicamente vulnerabile, come i cinesi del Sud-Est asiatico, gli indiani dell’Africa orientale o gli ebrei russi, auspica la democrazia, quello che ha in mente è un sistema costituzionale di garanzia dei diritti umani e di tutela della proprietà delle minoranze. In altri termini, quando questi gruppi “estranei” rivendicano la democrazia, richiedono una protezione dalla “tirannia della maggioranza”.»

In altre parole, tali “gruppi estranei” richiedono almeno un controllo parziale sulla politica economica degli stati in cui operano, ed un’occupazione parziale del potere politico.

«In modo analogo, quando le élite di sangue europeo della Bolivia, dell’Ecuador o del Venezuela parlano di democratizzazione, fanno invariabilmente riferimento allo “Stato di diritto”. Ciò che di sicuro queste élite non vogliono dalla democrazia è che il diritto di proprietà e la politica economica finiscano improvvisamente nelle mani della maggioranza di sangue indio del paese, impoverita e scarsamente istruita. (Ne siano testimonianza l’orrore provato dall’élite venezuelana quando il leader populista Hugo Chavez è asceso al potere e i conseguenti tentativi di spodestarlo.) »[27]

Tirando le conclusioni, ha acquisito un valore generale per tutte le società classiste (asiatiche, schiavistiche, ecc.) la tesi espressa dallo storico Wallerstein in riferimento al rapporto riprodottosi negli ultimi secoli tra potere politico ed interessi di classe/frazioni di classe della borghesia.

«In che modo la gente, i gruppi di persone hanno condotto le loro politiche nel capitalismo storico? La politica consiste nel cambiare i rapporti di potere in una direzione più favorevole agli interessi di qualcuno, e nel riorientare per conseguenza i processi sociali. Perseguirla con successo vuole dire trovare leve per il cambiamento che consentano il massimo vantaggio con il minimo sforzo… Non è un caso, perciò, che il controllo del potere statale (o la sua conquista, quando era necessario) sia stato l’obiettivo strategico fondamentale di tutti i principali attori nella scena politica, lungo l’intero arco del capitalismo moderno.»[28]

La teoria dell’occupazione trova un’ulteriore conferma nella dinamica politico-sociale creatasi nel “socialismo deformato” e delle formazioni statali paraclassiste sorte dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nell’esperienza via via accumulata dal partito comunista sovietico e da quella frazione di classe operaia che l’ha sostenuta per più di sette decenni: un partito che fu sicuramente egemone per settant’anni, ma non certo monolitico.

Infatti anche la storia dell’Unione Sovietica, fin dall’inizio, è stata contraddistinta dalla riproduzione prolungata di tutta una serie di “contraddizioni all’interno del popolo” di matrice socioeconomica, per usare un’interessante definizione maoista del 1957, dato che i conflitti di interesse tra campagne e città, e tra contadini e forza lavoro urbana; tra contadini poveri e ricchi, fino al 1929/30 e tra burocrazia statale e classe operaia; tra industria pesante e industria del consumo; tra settore militare-industriale e civile, hanno provocato inevitabilmente tutta una serie di scontri politico-sociali sviluppatisi durante il periodo compreso tra il 1917 ed il 1989 e decisi e risolti proprio nella sfera politica, selezionando via via tra scelte di priorità socioproduttive alternative tra di loro e sostenute dalle diverse “lobbies” e tendenze presenti nei nuclei dirigenti sovietici.

Non sempre in Unione Sovietica si è riusciti a trovare una sintesi unitaria, rispetto alle diverse opzioni politico-sociali e politico-economiche sorte all’interno del partito comunista: si è già accennato allo scontro che nel 1920-21 oppose, durante il X Congresso di partito, la tendenza di Trotzky e Bucharin, favorevole alla “statalizzazione” dei sindacati, e quella maggioritaria diretta da Lenin e orientata a mantenere ai sindacati una funzione di raccordo tra operai e direzione politica centrale, accentuandone il ruolo di “scuola di comunismo” per i lavoratori russi, ma tale contrasto non rimase certo isolato nei sette decenni successivi, come dimostra tra l’altro lo scontro Bucharin-Stalin sull’industrializzazione accelerata prodottasi nel 1928-29, la lotta tra i sostenitori del primato dell’industria leggera e quelli dell’industria pesante nel 1953-54, ecc.[29]

A sua volta il “complesso di Assalonne”, nelle sue varianti multiformi, costituisce una categoria teorica relativamente efficace per interpretare i numerosi e spesso tragici scontri che videro via via opposti dal 1917 al 1988 tutta una serie di frazioni e tendenze nei diversi nuclei dirigenti del partito comunista sovietico: la comune matrice marxista e la condivisa scelta di campo collettivista non impedì lo sviluppo di molteplici contraddizioni, a volte molto aspre e violente, tra i diversi leaders venuti al potere in Unione Sovietica rispetto a “nodi gordiani” di difficile soluzione relativi alla politica internazionale ed economica, alla valutazione dei rapporti di forza statali/internazionali ed alla loro dinamica, ai mezzi principali utilizzabili per contrastare l’imperialismo e per sviluppare le forze produttive sociali all’interno del gigantesco paese, all’individuazione del nemico principale interno-internazionale ed alla costruzione delle alleanze necessarie per sconfiggerlo, ecc.

Ad esempio è abbastanza noto che fin dal gennaio-marzo del 1918 si scatenò un durissimo scontro all’interno del partito bolscevico sull’opportunità di concludere una pace umiliante con l’imperialismo tedesco, le cui armate erano arrivate ormai a poche decine di chilometri da Pietrogrado.

Un gruppo di dirigenti, guidato da Bucharin, “era favorevole alla guerra rivoluzionaria. Occorreva continuare a battersi, ripiegando se necessario sino agli Urali, ricorrendo magari a metodi di lotta partigiana, organizzando le forze nel corso della resistenza, fino a che dalla rivoluzione in Occidente non fosse arrivata la riscossa degli operai russi; bisognava mettere a repentaglio nello scontro lo stesso potere dei Soviet, perché altrimenti, con la capitolazione sul fronte esterno, esso rischiava ugualmente di perdere la sua ragione d’essere e di diventare puramente “formale”.

La seconda linea, suggerita essenzialmente da Trockij, era affine alle tesi buchariniane nel rifiuto di accettare la pace imperialista, poiché vi scorgeva il pericolo di un distacco dal movimento rivoluzionario dell’Occidente e il rischio di accreditare le accuse, secondo cui i bolscevichi altro non erano che agenti dei tedeschi: Trockij vedeva tuttavia una via d’uscita nel rifiuto unilaterale di combattere, che avrebbe dovuto portare il governo sovietico a dichiarare da solo finita la guerra. Gli stessi generali tedeschi non avrebbero avuto allora la possibilità di riprendere le operazioni belliche per via dell’opposizione interna. Era la posizione sintetizzata nella formula “né pace, né guerra”.

La terza proposta era quella di Lenin e di un gruppo minoritario di dirigenti, che sosteneva la necessità di fermare comunque la pace, perché non c’era più esercito con cui resistere e le masse del popolo erano esauste. La salvezza doveva avvenire dalla rivoluzione dell’Occidente; ma nessuno poteva predire con esattezza quando questa si sarebbe verificata, anche se certamente ci sarebbe stata. In attesa, pur lavorando con quella prospettiva, la Russia era il solo paese dove già la rivoluzione avesse vinto: essa doveva concedersi almeno un “momento di respiro”, indispensabile per organizzarsi e creare un esercito. Altrimenti anche il potere dei soviet sarebbe perito.

La divisione non era solo ai vertici del partito, ma nelle sue stesse fila: queste si trovarono spaccate. La maggioranza era contro la pace. Lo erano in particolare quelle organizzazioni dei centri delle regioni operaie – Pietrogrado, Mosca, Urali, Donbass, Ivanovo-Voznessensk, Charkov – che erano state la punta di lancia della rivoluzione. La loro ostilità al diktat tedesco si prolungò fino ad aprile-maggio, quando la pace era già stata conclusa.»[30]

La durissima discussione sull’alternativa tra pace e guerra, con le sue diverse incognite e varianti, quasi portò ad una scissione nel partito bolscevico rischiando seriamente di separare per sempre dirigenti e militanti rivoluzionari che, solo due mesi prima, avevano concluso felicemente la prima fase della più grande rivoluzione della storia, e il caso citato divenne solo il primo di una lunga serie di aspre divisioni e lotte intestine in parte determinate anche da ambizioni politiche personali, ad ulteriore prova di come anche un alto livello di omogeneità produttiva ed ideologica posseduta da determinati gruppi sociali e nuclei dirigenti politici spesso non riesca ad impedire la carsica emersione di profonde tensioni politiche e personali al loro interno. Risultano invece a mio parere infantili e fuorvianti le tesi di coloro che hanno interpretato la lunga storia delle divergenze emerse nei gruppi dirigenti sovietici utilizzando l’argomento del “tradimento”, nelle fantasiose varianti (“becchino della rivoluzione”, “agenti dei servizi segreti inglesi dal 1921″ e “servi dei nazisti”) espresse via via dai vari spezzoni di quel mosaico bolscevico andato in frantumi tra furibonde polemiche, subito dopo il definitivo aggravarsi delle condizioni di salute di Lenin avvenuto nel marzo del 1923.


[1] Mao Tse-Tung, “Su Stalin e sull’URSS”, p. 68-69, ed. Einaudi

[2] G. Piccoli, “Colombia, paese dell’eccesso”, p. 34, ed. Feltrinelli

[3] N. Frangipane, “La nascita dello Stato nel Vicino Oriente”, pp. 212-214, ed .Laterza

[4] K. Morgan, “Storia dell’Inghilterra”, pp. 99-100, ed. Bompiani

[5] G. Hanlon, “Storia dell’Italia moderna. 1550-1800″, pp. 443-444, ed. Il Mulino

[6] G. Aly, “Lo stato sociale di Hitler”, p. 115-123 e 207-211, ed. Einaudi

[7] il Manifesto del 2 ottobre 2002

[8] T. Rodriguez, “Dio è nato donna”, pp. 218-219, ed. Editori Riuniti

[9] M. Grimal, “Storia dell’Antico Egitto”, p. 293, ed. Laterza

[10] H. Pirenne, “Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo”, ed. Newton Compton

[11] M. Sabattini, op. cit., pp. 309/339/342

[12] J. Halliday, “Storia del Giappone contemporaneo: la politica del capitalismo giapponese dal 1850 ad oggi”, p. 11, ed. Einaudi

[13] S. I. Kovaliov, “Storia di Roma”, vol. 1, p. 335, ed. Editori Riuniti

[14] T. Parks, “La fortuna dei Medici”, p. 78, ed. Mondadori

[15] R. Villari, “Storia del Medioevo”, p. 255, ed. Laterza

[16] Op. cit., p. 256-259, ed. Laterza

[17] Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, op. cit., cap. VII

[18] F. Lane, “Storia di Venezia”, p. 453-469, ed. Einaudi

[19] N. Dolcetta, “Politica occulta”, p. 81, ed. Castelvecchio

[20] F. Lane, op. cit., pp. 296-297

[21] G. Castellan, “Storia dei Balcani”, pp. 110/194, ed. Argo

[22] P. Johnson, “Storia degli Ebrei”, pp. 65-66, ed. Longanesi

[23] P. Johnson, op. cit., p. 314

[24] P. Phillips e Project Censored, “Censura 2007″, p. 339, ed. Nuovi Mondi Media

[25] N. Birnbaum, “Le Monde Diplomatique”, ottobre 2002

[26] S. Cingolani, “Guerre di mercato”, p. 461, ed. Laterza e W. Reymond, “Coca-Cola. L’inchiesta proibita”, p. 296, ed. Anteprima

[27] Amy Chua, “L’età dell’odio”, pp. 31/285, ed. Carocci

[28] I. Wallerstein, “Il capitalismo storico”, p. 34, ed. Einaudi

[29] G. Boffa, “Storia dell’Unione Sovietica, 1917-27″, vol. I, pp. 190-191, ed. l’Unità

[30] G. Boffa, op. cit., pp. 103-104

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