I bisogni Alfa ed Omega 2

Capitolo Sedicesimo

Parte seconda

Non sono stati solamente i ceti privilegiati ad esprimere i propri bisogni omega possedendo e riproducendo una scala complessa composta da diversi livelli di desideri ed aspettative materiali, alla cui sommità era ed è tuttora collocata – spesso in forma latente ed in “letargo” – il gradino più elevato ed ambizioso di questi ultimi, visto che anche i “pezzenti e la plebaglia”, i produttori diretti e gli sfruttati – riprodottisi in forme molteplici dopo il 3700 a.C. – hanno sognato ad occhi aperti molteplici tipologie di servizi, di oggetti e di ozio allo stesso tempo concreti ed irraggiungibili, manifestando attraverso modalità molto diverse tra loro la presenza – e quasi sempre latente – di un grumo variegato di bisogni radicali e massimalistici. Anche il “proletariato storico”, contadini del m.p. asiatico, schiavi, servi della gleba ed operai/lavoratori salariati del m.p. capitalistico, ha espresso costantemente nel passato e fino ai nostri giorni un proprio livello superiore di desideri ed aspettative collettive-materiali, un suo particolare bisogno omega che va inteso come la combinazione (mutevole e dialettica) tra due componenti fondamentali: la tendenza collettiva finalizzata all’appropriazione totale del prodotto sociale, del surplus e dei mezzi di produzione presenti nelle sue aree geopolitiche e stati di appartenenza, e l’impulso collettivo teso ad espandere al massimo grado ritenuto collettivamente possibile la quantità-qualità di oggetti di consumo e di tempo libero utilizzata ed appropriata dalle stesse masse popolari, dai produttori diretti vissuti nelle diverse formazioni economico-sociali classiste sviluppatesi dopo il 3700 a.C.

Termini quali ricerca dell’abbondanza di beni di consumo e del comfort, garanzie materiali  per l’esistenza e disponibilità di tempo libero in abbondanza, giustizia sociale e ostilità per lo sfruttamento non sono certo parole, concetti ed oggetti del desiderio sconosciuti ai produttori diretti e agli sfruttati, fin dall’origine delle strutture classiste: per citare solo l’esempio della Firenze borghese e medicea del ‘400, le spinte consumistiche dei poverissimi operai ed operaie della città erano già talmente forti ed intense da costringere le autorità statali del tempo ad emanare delle leggi molto rigorose contro le sotterranee e latenti tendenze edonistiche dei produttori diretti, tendenze viceversa autorizzate apertamente quando queste ultime erano manifestate ed ostentate dai notabili e dai ceti abbienti del centro urbano toscano.

«Eppure, nonostante i bassi salari e le valute distinte, lo scandalo dell’accumulo di denaro proseguiva, perché il denaro non sta fermo e i poveri difficilmente si accontentano della loro sorte. Perciò, se una persona riusciva a mettere da parte qualche cosa, c’erano delle leggi che le impedivano di turbare gli altri facendone mostra. Non più di due portate a pasto per la gente comune! E non troppi ospiti a tavola. Per legge. Solo abiti in tinta unita, se non siete un cavaliere o la sua dama. O un magistrato. O un medico. Niente vestitini eleganti per i bambini. Niente suole di morbida pelle sulle calze di lino bianco. Niente colli di pelliccia. Niente bottoni sugli indumenti femminili tranne che tra il polso e il gomito e per le cameriere niente bottoni in assoluto. Per queste ultime, infatti, non erano previsti il copricapo colorato e i tacchi alti, solo il fazzoletto e gli zoccoli.»[1]

Va subito precisato che nel processo millenario di sviluppo delle società di classe i rapporti di forza, in primo luogo quelli politici e politico-militari, sono stati – e sono tuttora – quasi sempre sfavorevoli ai produttori diretti e che pertanto il lato “espropriatore” del livello superiore dei desideri/aspettative materiali dei diversi segmenti che hanno composto il “proletariato storico” è rimasto quasi sempre latente, seminascosto e in uno stato più o meno letargico, visto che la spinta collettiva all’appropriazione totale del surplus e dei mezzi di produzione si scontrava/si scontra tuttora frontalmente con tutti i (superprotetti) interessi fondamentali delle classi privilegiate, con il sacro diritto al possesso privato dei mezzi di produzione e del plusprodotto e con i rapporti di produzione classisti (asiatici, schiavistici, feudali o capitalistici).

Come sussiste dal 3700 a.C. una contraddizione radicale tra il lato superiore dei desideri/aspettative economiche dei gruppi egemoni sul piano socioproduttivo ed il grado minimale (alfa) di espressione/soddisfazione degli interessi materiali dei produttori diretti, allo stesso modo emerge subito ed in modo evidente una contraddizione antagonista tra il bisogno omega dei produttori diretti ed il bisogno collettivo di autoriproduzione sociale (anche minimale e precaria) dei possessori privilegiati delle condizioni della produzione e del surplus; e dato che questi ultimi (schiavisti, feudatari, capitalisti ed i loro mandatari politici) hanno conservato quasi ininterrottamente e fino all’inizio del III millennio d.C. una decisiva superiorità nei rapporti di forza politici e politico-militari, il differenziale di potenza che si è riprodotto quasi costantemente a loro favore rendeva – e rende tuttora – latente, timido e semiclandestino il bisogno omega del proletariato storico, relegandolo di regola nei bassifondi e nelle cantine più nascoste dei processi storici di sviluppo delle società di classe.

In secondo luogo va sottolineato come nel periodo preso in esame (3700 a.C.-2008 d.C.) lo sviluppo delle forze produttive sociali si sia rivelato in passato – e rimanga tuttora – assolutamente insufficiente per permettere anche una soddisfazione parziale dei bisogni materiali più ambiziosi e “edonistici” delle masse popolari. Persino nel primo decennio del XXI secolo, il grado di sviluppo planetario raggiunto dai mezzi di produzione e dal complesso scientifico-tecnologico non è assolutamente in grado, anche con un’utilizzazione ottimale che elimini ogni forma di spreco (si pensi ai consumi di lusso, al settore degli armamenti, allo sfruttamento di classe ed agli enormi redditi dei ceti parassitari) di permettere in tempi medi ed in meno di un ventennio di:

Ø      elevare almeno del doppio i livelli di consumo e di assistenza sociale del proletariato delle metropoli imperialistiche, i cui strati inferiori rimangano tuttora in una condizione materiale di semi-miseria;

Ø      ridurre almeno della metà l’odierna durata della giornata lavorativa media;

Ø      estendere almeno parzialmente la nuova, ipotetica e più fortunata condizione materiale globale dei lavoratori occidentali e giapponesi anche ai loro fratelli di classe dell’Asia, America Latina ed Africa, creando un’equiparazione sostanziale verso l’alto del tenore di vita di tutti i lavoratori e di tutti i produttori diretti del pianeta.

Cinque millenni or sono, due millenni or sono, duecento anni or sono lo sviluppo concretamente raggiunto dalle forze produttive sociali era ovviamente ancora più inadeguato al compito di permettere un effettivo e completo soddisfacimento del livello superiore dei desideri/aspettative del “proletariato storico”, anche se la sfera dei suoi bisogni materiali risultava notevolmente meno estesa di quella attuale.[2]

Di conseguenza le forme storiche concrete attraverso cui si è manifestato il bisogno omega dei produttori diretti, nel suo importante lato consumistico ed edonistico, sono state molto spesso di genere mitologico e/o religioso, legate ad utopie terrene o a proiezioni del livello superiore dei desideri/interessi in mondi fantastici o ultraterreni (paradisi dopo la morte, ecc.): un limite inevitabile, che tuttavia non toglie affatto dignità storica alla negazione ed al superamento almeno nel sogno collettivo ad occhi aperti di realtà storiche disumane, e caratterizzate da forme feroci di sfruttamento e dalla miseria di massa di produttori diretti spesso abbruttiti da un eccesso di lavoro e di privazioni.[3]

Bisogna infine sottolineare come non sempre le due componenti fondamentali del bisogno omega abbiano coesistito in modo armonioso e si siano riprodotte senza contraddizioni all’interno degli stessi soggetti collettivi, nella sfera dei desideri/aspettative materiali e sociopolitiche di determinate frazioni dei produttori diretti. Mentre l’appropriazione/riappropriazione totale del surplus e del prodotto sociale costituisce la precondizione necessaria – ma non sufficiente – per la soddisfazione collettiva e sociale dei bisogni materiali più ambiziosi ed elevati del “proletariato storico”, a volte l’azione della “sindrome di Chukut’ien” – modificatasi nel tempo – si è scontrata con delle controtendenze antagoniste che, in particolari scenari storici, sono diventate eccezionalmente centrali e decisive.

Ad esempio l’ascetismo rivoluzionario è risultato un fenomeno abbastanza diffuso tra le masse popolari in rivolta portandole carsicamente ad un rifiuto radicale di qualunque forma di consumo che eccedesse i limiti naturali e fisiologici. Tale ascetismo ha costituito il sottoprodotto di lotte sanguinose, e spesso disperate contro nemici di classe, di regola più potenti e nelle quali diventavano fondamentali l’abnegazione e l’eroismo collettivo, spinti fino al più totale sacrificio individuale/collettivo, ma anche in questi scenari l’autoriduzione collettiva e cosciente dei livelli di consumi nella fase rivoluzionaria lasciava comunque sempre aperto almeno uno spiraglio per i felici “tempi nuovi”, caratterizzati da pace, fraternità ed abbondanza universale.

Certo, una breve esperienza contadina quale quella della comune di Castro del Rio in Spagna attuò radicalmente l’espropriazione totale dei mezzi di produzione collocati nel villaggio andaluso nel 1936 ed allo stesso tempo si distinse anche per uno spirito ascetico molto rigoroso. «Difatti se il programma che esaltava le menti di contadini siciliani e di altri contadini rivoluzionari avesse potuto essere attuato, il risultato sarebbe stato senza dubbio simile alla situazione di Castro Rio nella provincia di Cordoba, nell’intervallo tra la conquista del potere e l’occupazione da parte dei soldati di Franco: espropriazione delle terre, abolizione del denaro, uomini e donne al lavoro senza proprietà e senza retribuzione prendendo ciò che era loro necessario dal magazzino del villaggio (“mettono tutto in comune, e ognuno prende quel che gli serve”), in un clima di formidabile esaltazione morale. I bar del villaggio erano chiusi. Presto non ci sarebbe stato più caffè nel magazzino del villaggio e i militanti desideravano che ogni altra droga si esaurisse. Il villaggio era isolato, e forse ancora più povero di prima; ma era libero e puro e coloro che non erano fatti per la libertà venivano uccisi. Se questo programma recava l’insegna del bakuninisno, era perché nessun’altro movimento politico moderno aveva espresso le spontanee aspirazioni di contadini arretrati con maggiore sensibilità e fedeltà del bakuninismo, che deliberatamente subordinò la propria dottrina a tali aspirazioni.»[4]

Ma in molti altri casi storici emerse e riemerse quasi subito, dopo un breve periodo di “formidabile esaltazione morale”, la (positiva) tendenza consumistica sempre latente nella coscienza/bisogni delle masse popolari, sia contadine che urbane: l’esperienza sovietica del 1917-24, dopo la fase iniziale di intenso ed esteso idealismo rivoluzionario di massa, è sotto questo aspetto esemplare.

Da dove nascono i bisogni omega degli sfruttati?

Per quanto riguarda il lato edonistico del bisogno omega delle masse popolari, si deve subito notare come la tendenza generale ad espandere i bisogni materiali – in presenza di una massa critica minimale di forze produttive sociali – abbia esteso il suo raggio d’azione anche sul “proletariato storico”, nel periodo compreso tra il 3700 a.C. e l’inizio del terzo millennio della nostra era: la “sindrome di Chukut’ien” sopra esaminata ha continuato a produrre i suoi effetti su scala globale ed in tutte le direzioni, anche se in forme distorte dal predominio dei rapporti di produzione classisti, proprio perché durante tutto questo lungo arco temporale lo sviluppo su scala mondiale delle forze produttive sociali si è mantenuto generalmente almeno quasi al livello tecnologico-produttivo del medio Neolitico (Catal Huyuk), creando e riproducendo in tal modo la base materiale indispensabile per la carsica soddisfazione concreta di un minimo di bisogni non immediatamente fisiologici durante la dura vita quotidiana dei “perdenti” e degli sconfitti nel processo storico di sviluppo delle società di classe, nella sfera dei desideri/aspettative materiali dei produttori diretti esclusi dall’utilizzo-controllo del surplus, del prodotto sociale e dei mezzi di produzione.

I produttori diretti, le masse popolari e il “proletariato storico” hanno ereditato, acquisito e trasformato nel corso del tempo il bisogno edonistico-consumistico dei loro antenati paleolitici e neolitici anche perché dei “germi” ed embrioni dei consumi di livello superiore, sconosciuti ad ogni altra specie animale, hanno quasi sempre caratterizzato anche il loro concreto processo di riproduzione materiale: basti pensare ai vestiti, ai cibi cotti e alle bevande alcoliche che hanno quasi sempre addolcito parzialmente l’esistenza dei “pezzenti” e dei poveri non ancora ridotti alla miseria assoluta o all’inedia, alla morte per fame/freddo.

Proprio queste minuscole conquiste, proprio queste minuscole e precarie “briciole di abbondanza” hanno costituito il primo “carrello elevatore” che ha trascinato quasi costantemente verso l’alto il complesso di bisogni-sogni dei produttori diretti e degli sfruttati nel corso degli ultimi sei millenni, a dispetto delle loro misere condizioni di vita, mantenendo in vita (come nel periodo paleolitico-neolitico) la positiva e iperprogressista tendenza consumistica che da almeno quarantamila anni ci contraddistingue con particolare riferimento agli oggetti materiali più difficili da raggiungere ed ottenere.

In secondo luogo lo studioso Hilario Franco jr. ha notato correttamente che almeno da quarantamila anni fa, almeno dall’ultima fase finale dell’austero Paleolitico, una delle caratteristiche comuni agli esseri umani sia stata proprio il processo continuo di creazione di immagini ed utopie che superassero le carenze della realtà vissuta, seppur partendo da elementi produttivi ancora in germe: l’uomo è un animale che sogna ad occhi aperti, anche se in modo rozzo ed intermittente, almeno fin dal periodo tardo paleolitico e da migliaia di generazioni.

«Gli uomini che dipinsero le pareti e i soffitti della grotta di Lascaux nella zona sud-occidentale della Francia, 17.000 anni fa, rappresentarono ben poche volte la renna (solo lo 0,16% dei seicento animali raffigurati), animale principale della loro caccia (88,7% delle ossa ritrovate), mentre il cavallo, raro (solo l’1% delle ossa) fu oggetto del 30,5% di quelle pitture. I sogni sociali, espressi in maniera letteraria o figurata, tendono a sostituire il banale, il conosciuto, con l’assente, col desiderato.»[5]

Proseguendo il cammino dei loro antenati paleolitici/neolitici e seguendo il trend consumista del periodo paleolitico-neolitico, le masse popolari ed i produttori diretti riprodottisi nel periodo compreso tra il 3700 a.C. ed il 2006 d.C. hanno ereditato, sintetizzato e rielaborato, in forme molto diverse a seconda delle epoche e dei contesti storici, la tematica delle fantasie materiali-collettive proprio esprimendo una spinta collettiva rivolta all’appropriazione di beni di consumo difficilmente raggiungibili, rari e pertanto preziosi, mantenendo in vita e riproducendo pertanto un livello superiore di desideri/aspettative “proletari” fondato principalmente su sogni, fantasie e utopie materiali che sostituivano il mancato consumo abbondante, sicuro e di alta qualità (presente solo in rari attimi fuggenti ed in periodi eccezionali).

Furono e sono “solo” delle fantasie ed utopie: ma fantasie ed utopie collettive molto concrete, elementi reali capaci di creare e produrre a loro volta dei variegati modi di pensare e delle proteiformi pratiche sociali e politiche, in ogni caso fantasie e utopie diventate delle parti integranti ed inscindibili del sistema plurilivellare di bisogni caratteristico delle diverse materializzazioni del “proletariato storico” anche in presenza di un livello di sviluppo delle forze produttive molto basso. L’uomo è un animale che ha sognato a occhi aperti anche in presenza di un livello di sviluppo molto basso delle forze produttive: ad esempio i tupi-guarani, una delle tribù più diffuse nell’Amazzonia prima della conquista spagnola-portoghese, avevano solo in parte raggiunto lo stadio neolitico dell’agricoltura coltivando in modo nomade mais, manioca e patata, ma nelle loro migrazioni periodiche essi cercavano sempre anche la “terra senza maya” dove vi sarebbe stata solo abbondanza materiale e vita eterna, senza privazioni e sofferenze.[6]

La terza fonte costante di produzione dei bisogni omega delle masse popolari è stata la stessa esistenza-riproduzione dei gruppi sociali privilegiati nelle società classiste e, più precisamente, la semplice osservazione empirica da parte dei produttori diretti e delle masse popolari del fatto evidente che una minoranza della società consumava – poteva consumare – molto più dello stretto necessario per sopravvivere, e molto spesso non partecipando al processo produttivo e realizzando nei fatti una sorta di diritto all’abbondanza ed all’ozio riservato a pochi eletti.

In sostanza il terzo “carrello elevatore” che ha garantito la riproduzione costante del livello più elevato di bisogni materiali delle masse popolari sono stati gli stessi oggetti pregiati ed i proteiformi livelli di consumo superiori raggiunti dalle classi privilegiate dopo il 3700 a.C., attraverso l’effetto di emulazione represso-latente che questa tipologia di iperconsumo ha creato e riprodotto costantemente nei sogni-bisogni delle masse popolari.

Non fu certo per caso che il comunista John Ball, sotto forme religiose, avesse sintetizzato un senso comune molto diffuso nell’Inghilterra del XIV secolo quando notò che i ricchi feudatari “sono vestiti di velluti e panni preziosi, coperti di pellicce”, mentre i contadini erano “vestiti di povere stoffe”; oppure quando egli affermò che “essi hanno le belle case, e noi abbiamo la pena e la fatica”, con l’affermazione che anche secondo cronache avverse “erano lodate” dalle masse contadine sfruttate.

Le masse popolari hanno sempre avuto “occhi” collettivi sufficientemente aguzzi per osservare e valutare le condizioni di vita delle élite privilegiate, comparandole parallelamente con la loro esistenza quotidiana, anche perché il surplus erogato gratuitamente dagli sfruttati agli sfruttatori consentiva – e consente tuttora – dei plateali squilibri nei livelli di consumo e nella distribuzione della ricchezza sociale; le “spie” inconsapevoli delle masse popolari, le serve/i servi al lavoro nelle residenze padronali, generalmente non sono mai stati muti o ciechi ed hanno diffuso quasi sempre notizie spicciole sul tenore di vita dei loro padroni mentre, d’altro canto, molto spesso la ricchezza e l’opulenza delle classi venute in possesso delle condizioni della produzione e del surplus è stata esibita ed ostentata platealmente di fronte a tutto il mondo, produttori diretti inclusi.

In sostanza gli stessi livelli superiori di consumo dei gruppi sociali privilegiati hanno dimostrato concretamente alle classi sfruttate, dal 3700 a.C. fino ai nostri giorni, che erano/sono sempre potenzialmente possibili delle modalità diverse e più sfarzose di esprimere e soddisfare i bisogni materiali, anche se esse erano riservate a pochi eletti, svolgendo in ultima analisi il ruolo oggettivo di “vetrine consumistiche” e di monumentali moltiplicatori dei desideri/aspettative (represse-latenti) all’interno delle masse popolari e dei produttori diretti.

L’appetito viene (anche) osservando, nella storia delle società di classe, tanto che non fu certo per caso che il celebre discorso della Montagna di Gesù di Nazareth contenesse degli espliciti paragoni tra le condizioni di vita degli affamati e quelli dei loro ricchi, sazi padroni.

«Beati quelli che ora hanno fame, perché sarete saziati. Beati quelli che ora piangono, perché riderete. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ora la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.»[7]

Il grande falegname di Nazareth anticipò di circa tredici secoli J. Ball e la sua efficace comparazione tra il tenore di vita contadino ed il livello di consumi dei loro signori feudali: le masse popolari e le loro avanguardie hanno sempre mostrato sufficienti doti di osservazione sull’esistenza empirica delle disuguaglianze sociali, almeno nel loro raggio d’azione e di esistenza socioproduttiva, mentre a sua volta la combinazione dialettica creatasi tra la presenza del bisogno omega-consumistico, l’indignazione collettiva (più o meno autorepressa, più o meno latente) per le plateali ingiustizie sociali e politiche ed i morsi allo stomaco spesso derivati dalla miseria assoluta o dall’abbassamento del normale potere d’aquisto hanno costituito le molle principali per la genesi-riproduzione negli ultimi millenni delle tendenze rivoluzionarie tra segmenti più o meno ampi dei produttori diretti sfruttati, fino ad arrivare ai nostri giorni.

A questo punto servono delle prove empiriche e dei “fatti testardi”, combinati tra loro, che supportino concretamente l’esistenza concreta del bisogno omega nella coscienza collettiva della grande maggioranza dei produttori diretti sfruttati, anche se esso si manifesta attraverso forme mutevoli e a volte contraddittorie, che si combinano in modo proteiforme nei singoli lavoratori e nei diversi esponenti delle masse popolari.

Il primo anello di prove materiali che attesta concretamente la riproduzione costante negli ultimi millenni del “sogno di una cosa” (Marx, 1844), la riproduzione storica del bisogno di comunismo (edonistico) e del livello omega dei bisogni materiali delle masse popolari nel loro aspetto consumistico, è costituito dall’enorme diffusione e dalla grande popolarità goduta dalle feste tra tutti i produttori diretti, urbani o rurali, durante tutti gli ultimi sei millenni di storia del genere umano ed in tutto il pianeta.

Durante alcuni brevi attimi fuggenti, che si riproducevano di regola ciclicamente ogni anno in periodi normalmente prestabiliti, le masse popolari si riposarono, si divertivano e si riappropriavano dei tempi della loro esistenza attraverso un consumo finalmente senza restrizioni di calore umano, erotismo, cibi e bevande alcoliche: tali feste potevano assumere a volte un aspetto laico o, più spesso, forme religiose, ma costituivano in ogni caso dei momenti importanti – anche se di breve durata – di socializzazione e di liberazione temporanea del “proletariato storico” e di comunanza fraterna (quasi) senza contraddizioni.

Ad esempio, all’interno delle società medioevali europee «la vendemmia, generalmente realizzata ad ottobre, era occasione per una festa contadina che celebrava la fine dei duri lavori agricoli d’estate. Era per questo occasioni di bevute e mangiate, con cui si celebrava la buona riuscita del lavoro, si ringraziavano le forze extra-umane che avevano favorito la produzione, e si cercava attraverso lo sperpero rituale di ricevere nuovamente tali favori in futuro.»[8]

Su questa falsa riga si trovavano anche le feste della dea Imbole e quella di Samain nell’area celtica, in cui il consumo di carne di maiale e di vino era ritenuto addirittura una delle chiavi di accesso all’immortalità, mentre nella cultura popolare romana erano celebrate con gioia le feste in onore della divinità pagana Proserpina, momenti episodici ma preziosi di fiducia e affetto reciproci

Ma c’è di più: i culti orgiastici in onore di Dioniso e i Saturnali romani, le Feste dei Pazzi medioevali e i Carnevali occidentali (e dell’America Latina) rappresentarono, in diverse epoche storiche, anche dei momenti di cripto-sovversione sociopolitica, brevi e rituali archi temporali nei quali il godimento collettivo dell’abbondanza e dell’ozio era collegata alla fine provvisoria delle gerarchie socioproduttive e politiche esistenti, o alla loro beffarda e dissacrante inversione.

Ad esempio già nell’XI secolo i pastori, i contadini e gli schiavi europei potevano festeggiare liberamente per tutto dicembre durante le Feste dei Pazzi, in cui «il basso clero esercitava allora le vere funzioni dell’alto clero, le donne comandavano gli uomini, i bambini occupavano cariche direttive, tutti danzavano nel recinto delle chiese», in una sorta di mondo alla rovescia.[9]

Processi materiali/emotivi e feste analoghe si sono svolte per millenni anche in Cina, coinvolgendo tutto il mondo rurale per brevi periodi di godimento, comunanza e gioia collettiva.

«La vita contadina, di solito laboriosa e monotona, conosce anche momenti di distensione e di allegria. Sono le feste annuali e principalmente quelle dell’anno nuovo, verso la fine di gennaio o l’inizio di febbraio, e quelle dei sacrifici al dio della Terra. La grande festa del dio della Terra ha luogo alla fine di agosto o nel corso di settembre. È fissato al quinto giorno del segno ciclico wu che segue la “fondazione dell’autunno”, data del calendario solare che corrisponde approssimativamente al 7 agosto.

Giochi, teatri, clown, giochi di abilità, eseguiti a volte da attori girovaghi assoldati per l’occasione, riuniscono gli abitanti del villaggio presso un santuario locale. Si ammazzano maiali e polli, si mangia riso di qualità superiore e si beve fino all’ubriachezza. I più poveri contraggono prestiti, per potere celebrare degnamente questi momenti eccezionali dell’anno.»[10]

Nell’era capitalistica e nelle metropoli imperialistiche, la moderna classe operaia ha vissuto ed assaporato con legittima frenesia alcuni momenti di “superconsumo proletario” e di liberazione temporanea dalla schiavitù del lavoro, brevi attimi fuggenti già notati da F. Engels nel 1845 mentre scriveva il suo splendido saggio sulle condizioni materiali della classe operaia inglese: vi sono stati quasi sempre dei brevi periodi di festa in cui i lavoratori dipendenti hanno potuto soddisfare parzialmente, anche se per breve tempo, le proprie latenti tendenze edonistiche, e non è certo casuale che alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale abbiano riprodotto con notevole successo il modello delle feste popolari di ispirazione religiosa. Il quadro politico (ed eroico partigiano) G. Pesce ha affermato che all’inizio le feste dell’Unità «erano solo un comizio, poi nacque la parola d’ordine: fare della festa dell’Unità qualcosa di simile alla festa del patrono. La sola differenza era questa: da una parte la processione, dall’altra il comizio.»[11]

L’attrazione spontanea e collettiva delle masse popolari per le feste era talmente estesa che più volte, nel corso degli ultimi sei millenni, i padroni si lamentarono apertamente per la “dissolutezza” manifestata dai produttori diretti da loro sfruttati. Rimanendo solo all’Italia degli inizi dell’Ottocento, quando Francesco Galvagna presentò nel 1802 un’inchiesta sulla condizione della tessitura serica a Como egli descrisse i salariati locali con queste parole: «Per uomini il cui vizio toglie ogni previdenza dell’avvenire nulla vi è di peggio che di trovarsi in un momento al possesso di qualche somma di denaro. Essa porta nell’animo loro il desiderio e la facoltà di darsi in braccio ai bagordi e alla dissolutezza a cui ne vengono dietro di necessità per alcuni giorni la dissipazione e l’amore dell’ozio.»[12]

Un’altra (timida) orma del bisogno omega-edonistico è rappresentata da buona parte delle più popolari fiabe e dei racconti popolari di fantasia (Marchen in Germania), apparsi e creati in misura considerevole fin dall’epoca schiavistica (si pensi solo ad Esopo e Fedro), i cui elementi utopici costituirono sia delle proiezioni parziali dell’insoddisfazione delle masse verso i rapporti sociali classisti che una protesta spesso vittoriosa (solo nella fiaba, ovviamente) contro l’oppressione sociopolitica. Mondi alla rovescia.

«Ecco perché era il popolo (das Volk) a tramandare le storie: il Marchen rispondeva alle sue aspirazioni e consentiva di credere che chiunque sarebbe potuto diventare un potente cavaliere in una splendida armatura o un’adorabile principessa; inoltre rappresentava la dura realtà delle strategie di potere, senza occultare la violenza e la brutalità della vita di tutti i giorni. Il modo in cui tutto ciò veniva rappresentato, come ha dimostrato Max Luth in La fiaba popolare europea, è diretto, chiaro, paratattico e unidimensionale. Questa prospettiva narrativa riflette le limitazioni della vita feudale, dove in effetti le alternative alla situazione di ciascuno erano estremamente ridotte. Così è anche nel racconto popolare: non si fa menzione di un altro mondo; viene descritto un solo aspetto dei personaggi e delle condizioni di vita; ogni cosa è confinata a una dimensione senza principi morali, dove sono la classe d’appartenenza e il potere a determinare i rapporti sociali. Per questo la magia ed il miracoloso servono a spezzare i confini feudali e rappresentano metaforicamente i desideri consci e inconsci delle classi inferiori. In tale processo è il potere ad assumere una qualità morale. “Mondo alla rovescia, mondo esemplare, la fiaba è una critica della realtà indurita. Essa non rimane ai margini della realtà, ma vi reagisce, invita a trasformarla, a rimettere a posto ciò che in essa è fuori posto”. Questa affermazione di Michel Butor sulla fiaba francese è applicabile anche al racconto popolare e mette in luce la critica sociale sottesa agli elementi immaginativi.»[13]

Una terza traccia storica lasciata negli ultimi sei millenni dal bisogno omega del proletariato storico è rappresentata dall’enorme diffusione della fede religiosa nel paradiso, e dall’ardente desiderio di larga parte degli sfruttati di vivere in un mondo nuovo ultraterreno in cui potessero finalmente regnare abbondanza, pace e tempo libero per tutti gli “eletti”, anche se solo dopo la fine della vita (dura ed ingiusta) terrena dei poveri-credenti

Il sogno edonistico del paradiso, di una vita eterna e felice goduta finalmente anche dalle emarginate masse popolari è risultato essere una delle molle principali nell’attivazione dei movimenti degli sfruttati che scossero l’Antico Egitto più di quattro millenni or sono. Alla fine del lunghissimo regno di Pepi II (2100-2000 a.C.), si aprì infatti un periodo di guerre civili in cui i contadini e gli operai egiziani si ribellarono in massa contro lo sfruttamento feroce attuato nei loro confronti dall’aristocrazia fondiaria, laica e religiosa, ed allo stesso tempo riuscirono a conquistare almeno l’enneade, il diritto ad usufruire legittimamente dei riti magico-religiosi e a godersi pertanto (almeno nella fantasia) una vita eterna all’interno dei campi inondati di luce di Osiride e di territori fatati, che in precedenza erano riservati esclusivamente al faraone e alla nobiltà laica/religiosa del paese.

La vita eterna estesa a tutti, il diritto allargato alla mummificazione ed all’usufrutto dei riti magico-religiosi costituirono alcuni elementi importanti del “programma” dei rivoltosi, descritti con odio dal nobile Ipuer e dal profeta di corte Neferohu: anche dopo il lento e difficile processo di restaurazione delle strutture economico-sociali e politico classiste, la democratizzazione dei diritti funerari a favore dei poveri rimase un punto fermo anche per la vita quotidiana dei contadini egiziani nei secoli successivi ed un ricordo tangibile dei processi rivoluzionari avvenuti nel 2000-1900 a.C.[14]

Il paradiso, il “nuovo millennio” utopistico religioso costituì per quasi tre millenni il punto di focalizzazione ideale – ed immaginario – del livello superiore dei bisogni materiali in larga parte degli oppressi del mondo ebraico, dell’impero romano ed in seguito dell’area geopolitica cristiana, mentre tale stella polare rimane ancora ai nostri giorni un punto di riferimento reale e concreto per importanti frazioni di lavoratori del mondo contemporaneo.

Il mito di derivazione sumera del giardino dell’Eden, con la sua costante pace ed armonia descritta nelle prime pagine del libro della Genesi, ha costituito un archetipo culturale per larga parte dell’Occidente ed una sorta di matrice originaria per altre famose narrazioni religiose sul paradiso. Nelle profezie di Isaia dell’VIII secolo a.C. si delineò chiaramente un nuovo mondo, contraddistinto da una pace e prosperità generalizzata, che avrebbe sostituito una volta per tutte le vecchie ed odiose strutture  classiste: infatti un inviato divino «giudicherà con giustizia i miseri e con equità prenderà sentenze in favore dei poveri del paese… Il lupo abiterà insieme all’agnello e la pantera giacerà insieme con il capretto; il vitello ed il leone pascoleranno insieme, un piccolo bambino li guiderà…»[15]

Anche la predicazione di Gesù di Nazareth fu imperniata principalmente sull’annuncio del vicino arrivo di un Regno di amore, pace e giustizia, annuncio e buona novella che si fondava principalmente su una «frontale opposizione ai ricchi ed ai potenti, assieme ad una radicale opzione per i poveri» (G. Gutierrez): le contraddizioni presenti anche nel Nuovo Testamento non inficiano il primato innegabile della componente utopica, egualitaria e materialistica presente nel primo cristianesimo.[16]

Ad esempio la visione messianica del vescovo cristiano Papia, che godette di larga popolarità tra le masse cristiane per un lungo periodo e che fu ripresa anche da Ireneo, il primo grande teologo cristiano, espresse esplicitamente agli inizi del II secolo d.C. le aspettative – allo stesso tempo utopiche e concrete – di benessere ed abbondanza espressi da porzioni importanti degli schiavi, dei contadini e degli operai liberi dell’impero romano,  ancora una volta riproducendo la visione di Isaia su un mondo senza guerre e violenze, oppressione di classe e fame/miseria.

«Verranno giorni nei quali nasceranno vigne con diecimila viti ciascuna, e ogni vite avrà diecimila tralci, ogni tralcio diecimila viticci, ogni viticcio diecimila grappoli, ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, pigiato, darà venticinque misure di vino.

E quando qualcuno dei santi coglierà un grappolo, l’altro griderà “io sono migliore, raccogli me e benedici me il Signore”. Allo stesso modo, ogni chicco di grano genererà diecimila spighe, ogni spiga diecimila chicchi di grano e ogni chicco darà cinque doppie libbre di fior di farina; e gli altri frutti, i semi, le erbe, in proporzione della loro utilità. E tutti gli animali, nutrendosi esclusivamente del cibo prodotto dalla terra, vivranno in pace ed in concordia tra loro, e sottomessi agli uomini con piena facilità.» Questa è la testimonianza di Papia, discepolo di Giovanni, compagno di Policarpo, uomo antico, nel quarto dei suoi cinque libri.

E soggiunge: «Tutto ciò appare ben credibile a chi ha fede. E poiché Giuda, il traditore, non credeva e domandava come tale fertilità si sarebbe realizzata, il Signore rispose: “Lo vedranno quelli che entreranno nel Regno”.»[17]

L’equivalente ideologico del desiderio di riscatto e di beatitudine delle masse proletarie giudaico-cristiane venne rappresentato nel mondo mediterraneo dalle religioni del “mistero” e dai culti di passione, morte e resurrezione connessi a numerosi salvatori divini/semidivini (Dioniso, Orfeo, Demetra, Osiride, Attis, Mitra), ai quali era affidato l’avveramento dell’aspirazione alla beatitudine e all’immortalità diffusa nei seguaci dei culti, raccolti in larga parte tra i ceti meno abbienti e tra gli schiavi del mondo antico.

Nella civiltà scandinava le narrazioni mitiche di provenienza pagana, ancora diffuse tra il V ed il XII secolo, descrivevano il Walhalla come un luogo paradisiaco di abbondanza in cui il cibo non finiva mai indipendentemente dal numero delle persone, in quanto ci si cibava della carne del cinghiale Saehrimnir, che veniva cucinato e consumato ogni giorno dagli eletti rimanendo tuttavia sempre intero; come bevanda i guerrieri prescelti per il Walhalla disponevano di una quantità enorme di idromele, sgorgato dal seno della capra magica Heidrun.[18]

Il libro sacro islamico, il Corano, descrisse il paradiso in termini molto diretti e comprensibili ai poveri. Nella terra delle delizie musulmane si ritrova infatti un bel giardino dal clima soave e con piacevoli ruscelli, ove si usano vestiti di seta, braccialetti di oro e perle, piatti, bottiglie e coppe d’oro, d’argento o di cristallo, e dove si ritrovano letti comodi, divani e tappeti (Corano, 35, 30; 38, 51; 43, 71; 56, 15); nel paradiso islamico gli eletti di sesso maschile hanno a loro eterna disposizione ed in grande abbondanza bevande provenienti da ruscelli di latte, vino, miele e acqua pura, oltre alla carne di uccello che preferiscono ed a frutta deliziosa, da raccogliere senza sforzi e a far loro compagnia vi sono anche tutta una serie di belle donne, dolci amanti eternamente vergini.

In una parte del buddismo l’ideale della giustizia sociale si alimentò anche del ricordo mitico di un’età dell’oro primitiva, in cui tutti i beni furono a disposizione illimitata di un’umanità illuminata dalla fraternità e dalla concordia, mentre proprio con l’avvento del Messia buddista, il Maitreya, si ricreerà sia un ordine universale di giustizia e di amore che uno stato di abbondanza eccezionale in cui “i gioielli costellano il suolo e sono abbondanti quanto le pietre”.

Secondo il buddismo birmano il Maitreya sarà preceduto da un sovrano di giustizia, il Cakkavati o Setkya Min, il quale costruirà senza violenza una collettività fraterna di stile monastico, con la comunione dei beni e la piena soddisfazione dei bisogni materiali umani mediante “l’albero dei desideri” (Padeytha Pin), tanto che in questo mondo utopistico-religioso nessuno avrà bisogno di lavorare.[19]

Il bisogno omega delle classi proletarie, nel suo lato edonistico, ha trovato un’altra condensazione storica nella grande popolarità e nell’enorme diffusione su scala planetaria assunta dalle laiche/semilaiche leggende su una terrena età dell’oro e su mondi terrestri paradisiaci, più o meno remoti nel tempo e/o nello spazio, contraddistinti dall’abbondanza di beni, dall’assenza di fatica e dall’armonia universale: negli ultimi millenni di storia ampie e variegate sezioni delle masse popolari di aree geopolitiche molto diverse tra loro hanno costantemente apprezzato le descrizioni proteiformi dei vari “Paesi di Cuccagna” tramandate oralmente, trovandovi l’espressione fantastica ed utopica del loro timido – ma ineliminabile – livello superiore di bisogni materiali.

Già in Mesopotamia il celebre Poema di Gilgamesh, più o meno del 2500 a.C., affermava di sfuggita che prima del diluvio universale, volendo gli dei distrarre gli uomini dal disastro imminente «pioverà in abbondanza gli uccelli migliori, i pesci più deliziosi, le messi più ricche. Al mattino pioveranno pani e alla sera vi sarà abbondanza di frumento».[20]

Un successivo poema dell’area mesopotamica, risalente più o meno al 1500 a.C., descriveva ampiamente una nazione perfetta, la Terra di Dilmun, regione piena di ciliegie, priva di malattie e di morte e in cui regna la pace tra il lupo e l’agnello, mentre anche nella civiltà egizia, in epoca quasi contemporanea a quella sumera, veniva descritto a volte un felice periodo del passato contraddistinto da condizioni di vita ideali e quasi paradisiache.

In un’altra zona geopolitica del pianeta il celebre poeta greco Esiodo decantò, nell’VIII secolo a.C., la “razza d’oro” che viveva senza conoscere la vecchiaia, in mezzo a feste ed una grande abbondanza, con la terra che forniva spontaneamente e generosamente i suoi frutti (Le opere e i giorni, vb 114-119); il famoso passo di Esiodo venne ripreso in seguito da molte altre narrazioni che attestano la larga diffusione del mito delle “terre beate” sia nel mondo greco che in quello romano, tra il V secolo a.C. ed il IV secolo dell’era cristiana.

Miti come quello della terra felice di Atlantide e del ricchissimo regno matriarcale delle Amazzoni erano molto diffusi nell’area ellenico-romana, mentre un testo greco che anticipava il medioevale paese di Cuccagna affermava che «nell’età dell’oro erano esistiti ruscelli di vino, pani che gareggiavano tra loro per essere divorati dagli uomini, pesci che entravano nelle case, si friggevano da soli e si posavano nei piatti, fiumi di minestra che trasportava pezzi di carne calda per i tavoli collocati sui margini, allodole arrosto che volavano in direzione delle bocche (Teleclide, Gli Anfizioni 1k, in Ateneu, 6, 268b-D, citato da Carriere 1979 p. 264)».

Un altro testo parlava di tavoli che si imbandivano da soli, bottiglie che si inclinavano per versare il loro contenuto, pesci che si friggevano di propria iniziativa (Cratete, Le Fiere, 14-15k, in Ateneu, 6, 267a-268a, citato da Carriere 1979, p. 256), mentre un altro autore vedeva l’età dell’oro come epoca caratterizzata da pioggia di vini e da alberi che al posto delle foglie avevano interiora di capretto arrosto, calamari e uccelli cotti (Ferecrate, I Persiani, 130k, 6, 269c-e, in Carriere, 1979, p. 268). Ancora nel V secolo a.C., Euripide affermava che le Menadi, che seguivano Dioniso, col tocco di una bacchetta magica dalla quale fuoriusciva miele, facevano sgorgare acqua dalla pietra ed estraevano vino e latte dal suolo (Euripide, Baccanti) e nel secolo successivo, Teopompo di Chio parlava della terra di Eusebia, così prodiga da produrre in abbondanza senza bisogno del lavoro umano (citato da Versins, 1971, p. 24).

All’inizio dell’era cristiana il celebre poeta romano Orazio tracciava un quadro simile di quelle isole, ove la terra produceva tutto senza lavoro, la vigna fioriva da sola, il miele scorreva dal tronco delle querce, le capre portavano il loro latte sino ai vasi, gli orsi non ruggivano, non vi erano vipere, la temperatura era sempre piacevole (Epodi, XVI, 43-57); Virgilio, suo contemporaneo, «uno degli autori pagani più noti e apprezzati in età medioevale, allorché era considerato un profeta del Cristo, descriveva l’età dell’oro come un’epoca in cui la terra produceva, senza bisogno di essere coltivata, piante aromatiche come il nardo e la colocasia, piante alimentari come il frumento e l’uva, e persino gli animali erano speciali, come la capra, che andava nella case della gente ad offrire i suoi seni pieni di latte, e come il montone dalla lana colorata (Virgilio, Bucoliche, IV, 19-45). Pochi decenni dopo, Ovidio immaginava quell’epoca mitica come un’eterna primavera: la terra dava raccolti abbondanti senza bisogno di essere coltivata, scorrevano fiumi di latte e di nettare, le foglie degli alberi stillavano miele (Ovidio, Metamorfosi, vv 101-113). Un secolo dopo, Luciano riprendeva il tema e attribuiva all’Isola dei Beati 365 sorgenti d’acqua, 365 di miele, 500 di mirra, 7 fiumi di latte e 8 di vino».[21]

In Cina, a migliaia di chilometri dall’area mediterranea, il celebre Libro delle Odi del IX secolo a.C. (Li ji, cap. VI, I) esaltava un’antica età dell’oro in cui “il mondo non era altro che una comunità… Non esistevano né ladri né briganti, e le porte esterne delle case restavano aperte. Era il periodo della Grande Unità”; anche secondo uno dei fondatori dell’importante scuola taoista cinese, Zhuangzi (V secolo a.C.), «nell’antichità la condizione umana era identica. Gli uomini tessevano i loro abiti e coltivavano tutti la terra per sopravvivere». Personaggi quali Tao Jingyan (III secolo d.C.) e Tao Yuannieng (365-427 d.C.) ripresero a loro volta l’antico sogno dell’età dell’oro, esaltando sia gli antichi rapporti di produzione collettivistici che i costumi gioiosi e cooperativi della Cina arcaica, in una mitica epoca ormai remota.[22]

Ritornando all’area greco-alessandrina, E. Bloch ha analizzato due altre popolari tipologie elleniche di comunismo consumistico e di terre dell’abbondanza, di mitici regni terrestri impregnati di felicità ed armonia sociale.

“Nel romanzo di Evemero, Iscrizione sacra (300 a.C.), venne unito il genere di racconti marinareschi con quello utopico. Infatti in esso si narrò che dall’Arabia lo stesso Evemero avesse raggiunto un’isola sino ad allora ignota, Panchea: «Qui la produzione è in comune, il prodotto è ripartito equamente e la terra (anche questo motivo si presenta per la prima volta) dà frutti senza essere arata né seminata. La felicità e la beatitudine di cui gode il popolo che abita l’isola nascono dalla connessione con il tempo in cui Zeus era ancora sulla terra. Anarchia e autorità, se si eccettua quella assai lieve dei sacerdoti, sono ignote e superflue: Zeus aveva infatti insegnato così compiutamente le leggi della felicità che altri interventi dall’alto non sono più necessari. Ma Evemero non presentava soltanto l’utopia sociale di un’isola remota, questa era a sua volta il travestimento per un racconto illuministico su Zeus e gli dei. Egli racconta di aver scoperto in un tempio l’”iscrizione sacra”, che dà il titolo alla sua opera: la storia degli dei al tempo dell’origine, un tempo di cui la felicità di Panchea, isolata dal resto del mondo, è ormai l’unica superstite. Urano, Cronos, Zeus, Rea erano principi e principesse che solo più tardi furono divinizzati – proprio come Alessandro e i diadochi al tempo di Evemero. Siamo di fronte a un vero e proprio ateismo: gli dei erano benefiche potenze umane locali, non c’entrano affatto col governo dell’universo né col cielo, sono prodotti della fama.»[23]

Appartiene allo stesso filone utopistico il posteriore e celebre (al tempo) racconto di Iambulo, denominato L’isola del sole, vera e propria celebrazione della gioia universale elaborata nel I secolo a.C.

«Il collettivismo in Iambulo è sviluppato e pensato in termini economici assai più che in Evemero. Il mito di una natura favolosa, vale a dire di una fecondità mille volte più grande, non manca veramente neppure qui. Questo elemento tropicale, romanzescamente condizionato dalla posizione dell’Isola del Sole di fatto tappa la falla di forze produttive non ancora sviluppate. È possibile che sulle utopie ellenistiche abbiano agito anche i culti dionisiaci e il culto di Helios, di ben altra provenienza che dal patriarcato e dall’età dei signori. Simili culti erano ancora vivi sulle coste orientali del Mediterraneo e precisamente come dionisicamente liberatori, come superamento di ogni differenza di ceto nell’ebbrezza e nella festa. Iambulo ambienta il suo romanzo politico su sette isole equatoriali: la felicità universale lì è fondata sulla completa assenza della proprietà. Su cambi sul lavoro i turni regolari, sull’eliminazione della divisione del lavoro, su una ponderata educazione indirizzata all’intesa e all’armonia. Sono altrettanto eliminate sia la schiavitù sia ogni tipo di casta e di platonica utopia di casta; un autentico dovere del lavoro vige per tutti, un’istanza assolutamente inaudita nell’antichità e anche nelle successive società feudali, un’istanza isolata sia che si guardi prima che dopo. Il fatto che non vi siano più forme di economia separate, per casa, corte, famiglia rende integrale l’immagine collettiva di questa utopia, l’ultima e la più radicale, tra quelle elaborate dall’antichità. Il carattere unificante presente nella festa doveva animare anche il dovere del lavoro e renderlo gioioso; la natura tropicale collaborava, procurando al turno di lavoro abbondanza e felicità… Accantonata la giustizia del suum cuique, Helios brilla qui egualmente sui giusti e sugli ingiusti, come se fosse realmente un benefattore dell’età dell’oro, anzi, l’età dell’oro in persona.»[24]

In entrambi i casi si trattava di utopie estremamente più avanzate di quella elaborata da Platone nella Repubblica, in cui l’usufrutto di rapporti di produzione comunisti era limitato solo ai magistrati che dirigevano lo stato ideale ed ai guerrieri che garantivano la loro sicurezza, con l’esplicita esclusione dal loro usufrutto dei contadini, condannati a dedicarsi unicamente a produrre il sostentamento delle altre due classi elette.

Cina, Grecia, ma anche mondo indiano e celtico.

La tradizione politico-religiosa tamil, diffusa nell’India meridionale, conservò sempre il ricordo di una lontana età dell’oro (Krithayuga) contrassegnata dalla giustizia e dall’abbondanza materiale, mentre anche nella lontana cultura celtica emersero prepotentemente numerosi e famosi miti sull’età dell’oro e su isole meravigliose e beate. «Diverse narrazioni celtiche parlano di mele che alimentarono una persona per molti giorni e che non si consumavano mai» (cf. Le Roux e Guyonvarc’, 1986, p. 58-61). Nei domini del dio Oengus esistono tre alberi perennemente carichi di frutta, un parco cucinato sempre pronto per essere mangiato, ed un recipiente dal quale la birra scorre incessantemente (Droege, 1992, p. 24). Più importanti e più note erano le tradizioni relative all’isola di Avalon, la cui natura fornisce spontaneamente cereali, uva e alberi carichi di frutta, tutto con tanta abbondanza che al suolo vi è frutta invece che erba (Geoffrey de Monmouth, vv. 903-914, in Faral, 1929, vol. III, p. 334).»[25] Sempre nell’area celtica godettero grande popolarità sia le narrazioni sui leggendari viaggi di San Brendano, nelle felici ed opulente “Isole delle delizie” e “Terra promessa dei Santi”, che i racconti sul presunto viaggio di Bran, in cui l’avventuroso giovane scopre una splendida “Terra delle Donne”, ove il cibo che si mangia non diminuisce mai ed i salmoni sono grandi come vitelli.

Sempre in Europa e durante il periodo medioevale, la famosa utopia comunistico-religiosa espressa da Gioacchino da Fiore, monaco calabrese vissuto nel corso del XII secolo, assunse col tempo ed almeno in parte delle forme materialistiche molto concrete, delineando i tratti di un paradiso molto terreno e dislocato molto concretamente all’interno della storia empirica – anche se futura – del genere umano.

«Per Gioacchino esistono tre età nella storia e ognuna si avvicina sempre di più ad attivare l’avvento del regno. La prima età è quella del Padre dell’Antico Testamento, della paura e della conoscenza della Legge. La seconda è l’età del Figlio ovvero del Nuovo Testamento, dell’amore e della chiesa, divisa in chierici e laici. La terza età, ormai imminente, è quella dello Spirito Santo ovvero dell’illuminazione di tutti, in una democrazia mistica, senza signori né chiese. Il primo Testamento ha prodotto l’erba, il secondo le spighe, il terzo porterà il frumento… Anche maggiore influenza esercitò il coerente completo dislocamento del regno della luce dall’aldilà e dalla consolazione dell’aldilà nella storia, anche se in un suo stadio finale. La comunità ideale in Iambolo (come più tardi in Moro Campanella e ancora spesso) era posta su di un’isola remota, in Agostino nella trascendenza: in Gioacchino invece l’utopia appare, come nei profeti, esclusivamente nel mondo come stato di un futuro storico. Gli eletti di Gioacchino sono il popolo ed essi devono entrare in paradiso con il loro corpo vivente e non solo come spirito. Nella società del terzo testamento non esistono più ceti; sorgerà un’”epoca di monaci”, vale a dire di un comunismo dei consumi e conventuale divenuto generale, un’”epoca del libero spirito”, vale a dire di illuminazione spirituale, senza particolarismi, senza peccato e senza il suo mondo. Anche il corpo diverrà così innocentemente gioioso, com’era nella condizione paradisiaca originale, e la terra da gelata sarà colmata dall’apparizione di un raggio spirituale. C’è un inno del gioachimeta Telesforo (fine del XIV secolo), che inizia con queste parole: «O vita vitalis, dulcis et amabilis, semper memorabilis» (“O vita vitale, dolce e amabile, sempre memorabile”) e la “libertas amicorum” non è puritana. Il suo tema è proprio l’esodo dalla paura e dalla servitù, ovvero dalla legge e dal suo stato, l’esodo dal governo clericale e dallo stato di minorità dei laici, ovvero dalla grazia dell’amore e dalla sua chiesa; la dottrina di Gioacchino, con la sua lega fraterna, non è più una fuga dal mondo in cielo e nell’aldilà. Al contrario: il regno di Cristo in Gioacchino è così radicalmente di questo mondo come in nessun altro luogo, a partire dal cristianesimo delle origini. Gesù è di nuovo il Messia di una nuova terra ed il cristianesimo accade nella realtà, non solo nel culto e nella consolazione: accade senza padrone né proprietà, in una democrazia mistica. È questa la meta del terzo vangelo e del suo regno, persino Gesù cessa di essere un capo e si dissolve nella societas amicorum[26]

Pochi decenni dopo, attorno al 1250, nasceva in Francia quel celebre mito del Paese di Cuccagna diffusosi rapidamente in tutto il mondo cristiano e destinato ad una fortuna enorme e plurisecolare, influenzando indirettamente molti individui ancora alla fine del Settecento, come nel caso del grande rivoluzionario Gracco Babeuf.

Nel mondo fatato di Cuccagna «tutti gli uomini sono uguali, vale a dire se la spassano tutti, senza fatica e senza lavoro. Piccioni arrostiti volano direttamente in bocca, quelli sul tetto è già come fossero in mano: tutto, case e sogni, è a portata di mano, pronto all’uso. Così gli abitanti del paese di Cuccagna vivono piacevolmente a loro agio, senza lasciarsi più ripetere dai ricchi quanto la ricchezza sia poco invidiabile, quanto sia nocivo il troppo dormire, quanto funesto l’ozio, quanto necessaria la miseria affinché non si paralizzi ogni forma di vita. Il popolo ha continuato a illustrare e, anzi, a caricaturare la sua fiaba più nutriente: i tranci delle viti sono legati con salsicce, le montagne sono diventate di formaggio, i fiumi scorrono gonfi dei migliori moscati. La tavola che si imbandisce da sé, le favolose distese indiane qui sono divenute installazioni pubbliche, condizioni di una vita felice in assoluto».[27]

Circa un secolo dopo, verso la metà del Trecento, John Maundeville scrisse un dettagliato resoconto sui suoi presunti viaggi, mai avvenuti in realtà, che divenne popolarissimo nell’Europa tardo medioevale. Nelle sue fantasiose narrazioni egli descrisse luoghi simili al Paradiso terrestre, e tra questi un’ipotetica Sumatra: in tale zona gli abitanti «vanno in giro affatto ignudi», «tutte le donne sono comuni, e non rinunciano ad uomo alcuno», «anche la terra è in comune… e in comune hanno i beni, il raccolto, il bestiame e ogni sorta di cose in questo paese».[28]

Il mito di un mondo terreno caratterizzato da abbondanza e fraternità riapparve anche nella celeberrima Utopia di Tommaso Moro, opera scritta agli inizi del Cinquecento e destinata ad un’enorme fama, oltre che nella “Città del Sole” descritta dal calabrese T. Campanella; utopie geografiche e finzioni letterarie a sfondo storico e di natura parzialmente criptocomunista riemersero anche nel Seicento, con il notevole successo dell’Histoire des Sevaranbes di Denis Vairasse e del Telemaque di Fenelon.

Lo stesso W. Shakespeare, nella sua Tempesta del 1615, fece esporre dal consigliere del re Gonzalo un modello di società comunista senza proprietà, avidità, lavoro ed autorità, mentre ancora nel XIX secolo si diffondeva in Norvegia un celebre canto popolare che faceva di Ole Bull un personaggio leggendario che senza lavorare godeva di tutti i piaceri della “libera Oleania”. Il canto varcò l’Atlantico con gli emigrati norvegesi e diede vita alla leggenda della “Montagna di zucchero candito” ed al “Paradiso dei miseri”, racconti molto diffusi in quell’epoca negli Stati Uniti ed in cui veniva impiccato “il Turco che inventò il lavoro” e gli uomini non dovevano più “sudare come schiavi”, i quali trovarono un eco lontano durante la seconda metà dell’Ottocento nella larga diffusione nel mondo anglosassone delle celebri utopie create da E. Bellamy (Guardando indietro) e W. Morris (Come potremmo vivere), permeate in modo diverso da un profondo afflato umanista e filosocialista.[29]

Con il marxismo e la sua prima “ricezione di massa”in Europa, nel corso del periodo compreso tra il 1878 ed il 1892, la tendenza utopistica-edonistica dei produttori diretti raggiunse la sua piena maturità, venendo finalmente collegata ad un realistico progetto rivoluzionario su scala planetaria e ad una concreta dinamica di sviluppo delle forze produttive sociali: in ogni caso la “corrente calda” del marxismo, secondo la splendida definizione fornita da E. Bloch, mantiene ormai da 140 anni un ruolo rilevante come forza motrice dell’azione collettiva di milioni di esseri umani e come sintesi collettiva dei desideri/sogni/aspettative materiali più ambiziose ed avanzate di una parte consistente dei lavoratori salariali e dei contadini poveri del pianeta.

Nel 1875, attraverso la sua Critica al programma di Gotha, Marx riprese e condensò ad un grado di elaborazione teorica molto avanzata i bisogni omega-edonistici del “proletariato storico”, indicando con chiarezza le caratteristiche fondamentali del futuro comunismo sviluppato, allo stesso tempo gioiosamente creativo ed umanistico.

«In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo omnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.»[30]

Per alcuni decenni, nel corso del Ventesimo secolo, il processo di sviluppo economico-sociale sovietico è stato vissuto da un settore significativo della classe operaia, sia russa che internazionale, come un processo di costruzione del “Paradiso in Terra” e spesso vennero espressi dei richiami espliciti a quei simboli «che appartengono agli strati più antichi e profondi della cultura popolare: il mito millenaristico dell’Eden, del Paradiso terrestre, del paese di Cuccagna».[31]

Nonostante alcune gravissime sconfitte ed arretramenti, la tensione utopica non è mai venuta meno del tutto su scala mondiale, nel mondo occidentale come in America Latina, Africa ed Asia, e agli inizi del III millennio è ancora viva, anche se duramente “ammaccata”: a volte essa riemerge in ambienti impensabili per la sinistra radicale occidentale, tanto sofisticata quanto impotente, come avviene tuttora nella contraddittoria e tumultuosa realtà politico-sociale cinese. Ad esempio il 9 luglio del 2003 il Quotidiano del Popolo di Pechino riprese un’analisi teorica effettuata da Hu Jintao, nuovo segretario del Partito Comunista Cinese, ricordando solennemente e pubblicamente a milioni di quadri e di militanti comunisti cinesi che «realizzare una società comunista, in cui la ricchezza materiale sia enormemente sviluppata, in cui il livello spirituale del popolo sia elevato al massimo ed in cui ogni persona sperimenti uno sviluppo libero e multilaterale costituisce il più alto ideale del marxismo sul piano sociale».[32]

Il filo rosso utopico continua ancora la sua strada, seppur tra mille difficoltà e tra contraddizioni tremende, anche all’inizio del terzo millennio. Si tratta di un “filo rosso” che ha appassionato almeno sporadicamente anche una parte minoritaria degli intellettuali e della sezione più colta delle classi dominanti e sfruttatrici, visto che il sogno-bisogno di un mondo fraterno e comunista ha infatti coinvolto più o meno apertamente raffinati intellettuali pagani come Esiodo e Virgilio, oppure religiosi come il vescovo milanese Ambrogio e i gesuiti che, tra il 1610 ed il 1754, animarono nell’odierno Paraguay le reducciones, le collettività comunistiche in cui vissero pacificamente alcune decine di migliaia di indios guarani; esso ha sicuramente motivato dei “traditori di classe” quali Valdo e Francesco di Assisi, Marx ed Engels, Lenin e Rosa Luxemburg, Mao e Fidel Castro, ecc.[33]

Invece la riproduzione della tendenza collettiva dei produttori diretti e del “proletariato storico”, tesa e diretta alla riappropriazione totale del surplus, del prodotto sociale e dei mezzi di produzione ha trovato una sua prima verifica empirica nelle grandi ribellioni attuate dalle masse popolari negli ultimi quattro millenni di storia, partendo dall’archetipo egiziano del 2000 a.C.; la spinta collettiva verso a giustizia sociale e la “guerra contro gli oppressori” ha avuto – ed ha tuttora – una serie di carsiche conferme, che partono dall’Egitto del 2000 a.C. per arrivare fino alla Resistenza di matrice comunista contro il nazifascismo, al Maggio francese ed al processo anticapitalistico bolivariano diretto da H. Chavez in Venezuela.[34]

La prima espressione storica conosciuta del proto-comunismo rivoluzionario si manifestò in Egitto, già nel 2000 a.C. Le uniche e tendenziose notizie relative al grande processo protorivoluzionario egiziano della fine del III millennio a.C. ci vengono fornite da un certo Ipuer, forse capo della nobiltà e consigliere del re, e dal profeta di corte Neferohu: l’odio di classe espresso dai due compari contro i ribelli non impedì loro di rilevare che ormai “oro, argento, malachite e cornalina ornano il collo delle schiave” e che “il popolo si ribella alla maestà del Faraone”, osservando da vicino “l’infimo in vetta e i servi che giubilano” nel primo caso storico conosciuto di processo di espropriazione dal basso delle classi dominanti sul piano socioproduttivo.

L’antico foglio di papiro contenente le Lamentazioni di Ipuer è quello cosiddetto di Leida 344r, proveniente da Menfi: mentre la rivolta infuriava, Ipuer si sentì obbligato ad erigersi a difensore dei gruppi sociali privilegiati dell’Egitto, alla fine del lungo regno del faraone Pepi II, affermando che «stanno succedendo i fatti che i nostri saggi hanno predetto. I beduini si atteggiano a egiziani, il furfante si trova in ogni luogo, i poveri sono ormai ricchi. Chi non possedeva un paio di sandali veste ora di lino e ostenta monili. I cuori sono violenti, il terrore dilaga e la nobiltà è costretta a mangiare l’erba dei prati e a bere l’acqua del Nilo.

Oro, argento, malachite e cornalina ornano il collo delle schiave, l’uomo guarda il figlio come un nemico, la paura spinge tutti a vedere sicari attorno a sé. Se tre uomini s’incamminano per la strada rimangono ben presto in due perché è il più debole a rimetterci la pelle. I campi non danno più grano, il bestiame muore di malattia o è razziato, l’acqua del fiume è sangue. Ah, forse questa è la fine del genere umano! Guarda, il paese è spogliato da pochi irresponsabili… Guarda, si vive nel terrore… Guarda, il popolo si ribella alla maestà del Faraone… Guarda, chi ha un semplice fardello viene trucidato a colpi di bastone. La terra di Kemet (Egitto) sta quindi girando in tondo come la ruota del vasaio».

Alle geremiadi di Ipuer fecero eco i sinistri ammonimenti del profeta Neferohu: «Il nostro paese è capovolto, ciò che non è mai successo sta accadendo. Io ti mostro il possidente in rovina e lo straniero appagato, l’infimo in vetta e i servi che giubilano». La caccia ai ricchi, o presunti tali, viene presentata come spietata e feroce. «Chi naviga ancora verso Byblos per comprare legnami d’abete per i sarcofagi quando i cadaveri vengono buttati nel Nilo?», aggiunge Ipuer. «Orrore! I coccodrilli, sazi, non riescono più a nuotare in quanto, oltre ai cadaveri, la gente di casta si getta nel fiume per sfuggire ai rivoltosi.»

Aggiungeva angosciato Ipuer: «I segreti del Faraone dell’Alto e Basso Egitto sono messi a nudo», il popolo in rivolta in sostanza non ha rispettato neanche le “sacre” residenze reali.[35]

Nel corso degli ultimi millenni si sono verificate numerose rivolte dei produttori diretti, molto spesso schiacciate allo stato iniziale. In precedenza sono già stati ricordati alcuni dei principali processi rivoluzionari riusciti/parzialmente riusciti nell’area cinese, tra gli schiavi africani trascinati in catene in America Latina, nell’area mediterranea, in Europa ed in Russia, il cui minimo comun denominatore è stato il tentativo delle masse di porre fine allo sfruttamento di classe e di riappropriarsi collettivamente di tutte le risorse economiche disponibili, al limite creando con la fuga nuove strutture socioproduttive (e sociopolitiche) ripartendo da zero.

Si tratta delle manifestazioni storiche (carsiche, periodiche e quasi sempre sconfitte) di quella “coscienza enorme” dei produttori diretti di cui parlava Marx nei Grundrisse, visto che la forza-lavoro collettiva a volte riesce a “riconoscere i prodotti come prodotti suoi e a giudicare la separazione dalle condizioni della sua realizzazione come separazione indebita e forzata”: dall’Egitto del 2000 a.C. fino al Venezuela e alla Bolivia, alla Colombia e al Nepal dei nostri giorni sono emersi, in modo carsico o aperto, numerosi tentativi collettivi dei produttori diretti tesi a ricreare forme avanzate di giustizia sociale e di uguaglianza, riappropriandosi almeno in parte del prodotto sociale e dei mezzi di produzione da essi stessi creati attraverso l’erogazione collettiva e su larga scala delle loro stesse capacità ed energie psicofisiche.

Una seconda testimonianza concreta su questo aspetto del bisogno omega viene anche dalla riproduzione parziale (e spesso deformata) dei rapporti di produzione collettivistici all’interno delle stesse formazioni economico-sociali classiste, come si è già visto in precedenza analizzando la “linea rossa” nel m.p. asiatico, feudale e capitalistico. In molti settori, sia rurali che urbani, i produttori diretti sono riusciti spesso a conservare dei vincoli socioproduttivi cooperativi, e contraddistinti dall’assenza di sfruttamento, anche dopo il 3700 a.C., e in questo senso sono particolarmente interessanti le dinamiche  delle comunità laiche/religiose fondate su rapporti di produzione comunisti: si pensi solo ad alcuni momenti della storia di una parte degli ordini monastici cristiani, della comunità taborita in Boemia (1420-1434) e di quelle dei Fratelli Moravi nell’Europa centrale (1530-1620), della repubblica gesuita dei guarani in Paraguay (1613-1754) e della setta di Mo-ti in Cina, delle comunità essene (IV secolo a.C.-III d.C.) nel mondo ebraico, ecc.[36]

Sotto questo profilo si è già notato in precedenza, parlando degli schiavi dell’America latina, come anche le fughe collettive dei produttori diretti a volte si siano spesso trasformate in processi di costruzione di società cooperative e solidaristiche, in modo simile a ciò che avvenne nei primi secoli di esistenza della più antica repubblica del mondo, quella di San Marino, fondata da schiavi dalmati scappati ai loro padroni all’inizio del IV secolo d.C.

La terza “orma” storica del bisogno omega-rivoluzionario all’interno della coscienza dei produttori diretti emerge dalla storia plurimillenaria dei “rossi”, dei “profeti” laici/religiosi e del “popolo organizzato” dei sovversivi, dalla riproduzione plurimillenaria di quella parte – più o meno consistente, a seconda degli scenari storici – delle masse popolari che esplicitamente voleva, e vuole tuttora l’espropriazione dei gruppi sociali privilegiati lottando a tal fine  sotto la guida di leadership ed organizzazioni rivoluzionarie, di matrice laica o religiosa.

Sotto questo aspetto è significativo che il filone dei “sovversivi” atei (Evemero, Meslier, Deschamps, Mably, Babeuf, Blanqui, Marx, ecc.) sia stata affiancata dall’esperienza del comunismo religioso. Essa parte, nel suo lungo processo di sviluppo, dai profeti Amos ed Isaia per arrivare alle sette motiste cinesi ed al sufismo di Abu Dharr al Ghiffari, uno dei primi compagni di lotta di Maometto, si incarna in Gioacchino da Fiore, Jacopone da Todi e fra Dolcino nel Medioevo per arrivare durante il 1400-1500 ai taboriti ed al primo anabattismo; riprende il suo cammino attraverso il semicollettivismo di Jacques Roux e dell’abate Fauchet durante la rivoluzione francese, per arrivare poi a Rodotà, ai Cristiani per il Socialismo ed alla teologia della liberazione del XX e XXI secolo, con il suo nuovo profeta Hugo Chavez.

Se si prende in esame l’opera del profeta Amos, vissuto in terra palestinese ancora nell’VIII secolo a.C., si nota subito che contro l’oppressione delle “prevaricazioni dei ricchi” egli chiamava in soccorso la mano vendicatrice di una divinità finalmente venuta in aiuto dei “poveri e dei giusti”; predicando tali contenuti, Amos acquisì rapidamente un’estesa popolarità tra le masse oppresse ebree, mentre del resto alcune sette eretiche già a quel tempo fomentavano l’opposizione popolare alle strutture sociopolitiche classiste di Israele.

Quasi tre millenni or sono Amos affermò: «Ebbene: poiché avete estorto l’affitto contro il misero e il tributo di frumento germinati da lui, case di pietra riquadre costruiste, ma non abiterete in esse; vigne ubertosissime piantaste, ma non berrete il loro vino. Davvero, conosco che molteplici sono le vostre prevaricazioni e sfrontati i vostri peccati.

Essi, che osteggiano chi è giusto, essi, che ghermiscono denaro per corruzione, i poveri alla porta respingono.

Perciò tace colui che riflette su questo tempo, perché tempo cattivo è questo. Cercate il bene e non il male affinché viviate, e avvenga così che il Signore Dio nelle schiere sia con voi come avete detto. (…) In tutte le piazze vi sarà lamento e in tutte diranno: Ahi, ahi! Chiameranno il villano al lutto e al lamento i conoscitori del gemito. In tutte le vigne vi sarà lamento, perché io passerò in mezzo a te, ha detto il signore» (Amos, 5, 11/17).

Dopo circa tre secoli il profeta Isaia riprese il messaggio mistico-apocalittico di Amos, puntando il dito esplicitamente contro gli sfruttatori ed il loro dominio di classe. «Guai a quelli che promulgano decreti iniqui e, nel redigere, mettono per iscritto l’oppressione, per privare i miseri della giustizia e derubare i diritti dei poveri del mio popolo, sì che le vedove diventino loro preda e spoglino gli orfani. Che farete nel giorno del castigo, quando la rovina arriverà da lontano?

Presso chi fuggirete per avere aiuto e dove lascerete la vostra ricchezza? Non rimarrà che curvarsi tra i prigionieri e cadere sotto gli uccisi. Malgrado ciò l’ira del Signore non scema, e la sua mano è ancora tesa» (Isaia, 10, 1/5).

Anche le plurisecolari sette essene, anche Gesù di Nazareth e le prime comunità apostoliche cristiane condividevano in larga parte le spinte collettivistiche-antagoniste rivelate da Amos ed Isaia, esprimendole soprattutto sotto forme apocalittiche ed attendendo il vicino avvento del Messia liberatore di origine divina.

Un’altra antichissima cristallizzazione dei desideri e delle aspettative materiali sociopolitiche di frazioni rilevanti dei produttori diretti, del loro odio di classe per lo sfruttamento e del loro bisogno collettivo di una riappropriazione globale della ricchezza sociale, proviene dall’antico Libro delle Odi, risalente all’VIII secolo a.C. e creato in terra cinese: l’antica eco dei sentimenti dei contadini cinesi si espresse parzialmente nel Libro delle Odi insultando apertamente e con durezza i grandi proprietari terrieri. «Grandi ratti, grandi ratti, grandi ratti, tenetevi lontano dal nostro grano! Per questi tre anni abbiamo lavorato per voi, ma voi ci disprezzaste.» La protesta popolare si trasformò in rilancio e fuga utopica: «Ora stiamo per abbandonarvi, e andare in un paese più felice, terra felice, terra felice, dove troveremo tutto ciò che c’è bisogno».

Da Amos e dai seguaci di Aristonico, con la loro Città del Sole, fino all’odierno movimento comunista del terzo millennio emerge un minimo di continuità organizzativa (con passaggi di testimone) e di lotte proteiformi condotte da milioni di donne e di uomini che, sfidando innumerevoli e feroci repressioni, hanno manifestato apertamente i bisogni collettivi di riappropriazione della ricchezza, di regola invece solo i latenti nelle masse popolari degli ultimi millenni: specialmente in tre importanti aree geopolitiche, quella mediterranea-europea, araba e cinese si sono riprodotti molto spesso numerosi gruppi “sovversivi”, sotto forme e vesti sia religiose che laiche.

I culti dionisiaci e la prima fase apocalittica del cristianesimo, in Europa e in Asia Minore (30-180 d.C.); le sette eretiche presenti nell’ultima fase dell’impero romano e durante buona parte del Medioevo (le plurisecolari chiese marcionite e manichee; gli pauliciani ed i bogomili; l’internazionale catara in Europa ed Asia; i francescani spirituali, i dolciniani ed i taboriti); il primo anabattismo, i diggers inglesi e il babuvismo nella fase manifatturiera del capitalismo; le prime sette socialiste, l’anarchismo ed il marxismo/leninismo negli ultimi due secoli di storia sono alcuni dei variegati tasselli europei di un filo rosso, a volte molto esile, di ribellione aperta (a volte non violenta) contro gli apparati statali ed i rapporti di produzione classisti.

Nel mondo iraniano e musulmano troviamo le sette religiose-comuniste di Mazdak (480-530 d.C.), di Babek (810-838 d.C.), la prima fase di sviluppo dello stato degli schiavi degli Zeng (869-883 d.C.), le sette democratico-radicali degli Zaiditi, dei Kharigiti e dei Carmati (VIII-XII secolo) e la ribellione comunista di Samawna (1358-1416).

In Cina sono state tradizionalmente le sette segrete, spesso sotto forma religiosa, a dare continuità politica ed organizzativa ai bisogni materiali latenti in buona parte dei contadini e degli operai cinesi, svolgendo pertanto una funzione a volte notevole in qualità di contropotere politico-sociale: si parte dai gruppi motisti del quarto secolo d.C. e dai Turbanti Gialli del 180 d.C. fino alle sette manichee cinesi e agli “adoratori dei demoni” comunisti del XIII secolo, per poi arrivare durante l’Ottocento ai Taiping sopra citati.

Una tenue e sommessa traccia storica del bisogno omega degli sfruttati, nel suo lato riappropriativo, emerge dal contenuto implicito che si deve desumere dalle leggende sull’età dell’Oro e sulle “terre beate”, oltre che da gran parte delle narrazioni sui paradisi religiosi già esaminati brevemente in precedenza. Esse infatti costituiscono una sorta di “sondaggio di opinione” plurimillenario, visto che uno dei minimi comune denominatori nascosti dentro tali miti, a partire dalla mesopotamica Terra di Dilmun (1500 a.C.) fino alla norvegese Oleania dell’Ottocento è costituito dall’assenza di sfruttamento e dalla presenza di un egualitarismo spesso gioioso: proprio la loro popolarità di massa, tra l’altro in epoche e contesti storici molto diversificati, indica l’evidente preferenza collettiva delle masse popolari e dei produttori diretti per scenari ideali e utopici contraddistinti dall’assenza di padroni, senza disuguaglianze sociali e senza sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Nella Terra di Dilmun regna la pace e l’armonia persino tra gli animali, mentre ad Oleania il felice Ole Bull non ha padroni e gode liberamente di tutti i piaceri della terra fatata in cui vive; un ragionamento analogo vale anche per tutte quelle “feste dissacranti”, estremamente popolari e diffuse (Saturnali, Carnevali, Feste dei Pazzi, ecc.), in cui vennero sovvertite per un breve lasso di tempo tutte le normali gerarchie economiche, sociali e politiche esprimendo – in modo criptico e semiclandestino – un latente antagonismo di massa nei confronti delle strutture classiste dominanti ed una volontà collettiva, seppur pavida e fugace, di sovversione.

Un’altra orma – timida e velata -, lasciata dal comunismo rivoluzionario è data dalla larga popolarità goduta tra le masse dalle gesta dei “banditi sociali”, dei fuorilegge che hanno lottato – in modo reale o presunto – a fianco dei poveri e contro i ricchi.

In alcune parti del Medioriente, fin dal 1500 a.C. si erano formate delle vere e proprie “zone ribelli” che sfuggivano al controllo degli stati classisti dell’area e che costituivano un forte punto di attrazione per gli schiavi, i poveri ed i diseredati, mentre alcuni secoli dopo i pirati svolsero per lungo tempo nel Mediterraneo un ruolo analogo, formando una sorta di polo magnetico per gli schiavi fuggitivi dell’impero romano.

La tradizione dei banditi/pirati “popolari” è continuata quasi fino agli inizi del Novecento e su scala planetaria: essa passa dai fuorilegge cinesi in lotta per difendere i diritti del popolo ai cangaceiros del nord del Brasile, dai banditi-patrioti della Grecia e della Serbia del ‘700-800, in lotta contro i feudatari e l’apparato statale ottomano, fino ai briganti-contadini dell’Italia meridionale del 1860-65, rappresentando una protoforma molto diffusa di microribellione parzialmente organizzata e sostenuta dalla simpatia (passiva) delle masse sfruttate.

Come ha notato giustamente E. Hobsvawm, «banditi e grassatori interessano innanzi tutto la polizia, ma dovrebbero interessare anche gli storici di questioni sociali. In un certo senso, infatti, il banditismo è una forma piuttosto primitiva di protesta sociale organizzata, forse la più primitiva che si conosca. Certamente questo è ciò che i poveri, in molte società, scorgono nel banditismo e perciò proteggono i banditi, li considerano loro campioni, li idealizzano e ne fanno dei miti: Robin Hood in Inghilterra, Janosik in Polonia e Slovacchia, Diego Corrientes in Andalusia, sono tutti, verosimilmente, personaggi reali, idealizzati. Da parte sua il bandito cerca di adeguarsi al ruolo affidatogli, anche se non è un ribelle sociale consapevole. Naturalmente Robin Hood, il prototipo del ribelle sociale “che prese ai ricchi per dare ai poveri e non uccise mai se non per difesa o giusta vendetta”, non è l’unico nel suo genere. Un uomo deciso, che non intenda sopportare il fardello tradizionale dell’uomo qualunque in una società classista, miseria e rassegnazione, può disfarsene unendosi agli oppressori e servendoli oppure ribellandosi a loro. In ogni società contadina ci sono banditi dei padroni e banditi contadini, per non parlare dei banditi al servizio dello Stato, sebbene solo i banditi contadini ricevano il tributo dell’aneddotica e dei canti popolari».[37]

Mentre la funzione storica reale dei “banditi contadini” è stata quasi sempre limitata, ciò che rileva in questa sede è notare che per ampie sezioni delle masse popolari urbane e rurali il “fuorilegge-eroe” ha rappresentato, per usare la definizione di Hobsvawn, “l’incarnazione di un sogno di tempi migliori” e allo stesso tempo il “terrore dei padroni”, combattente per la giustizia e vendicatore dell’ingiustizia; il mito di massa del bandito-ribelle ha in sostanza canalizzato, almeno in parte, la latente e seminascosta volontà di ribellione dei produttori diretti, quasi sempre incapaci di un’aperta azione di rivolta collettiva e tenuti a bada dalla paura collettiva della repressione statale ma certamente in grado di manifestare, in epoche e contesti storici diversissimi, almeno un’ampia simpatia e consenso di massa agli audaci ribelli e a coloro che sembravano sfidare ed intaccare i rapporti di produzione classista, almeno nei loro aspetti più rivoltanti.

Come le leggende sull’età dell’Oro, i miti ed i canti popolari sui banditi-eroi costituiscono una forma particolare di “sondaggio” storico planetario sulle preferenze sociopolitiche del proletariato storico e, allo stesso tempo, una prova concreta sull’esistenza-riproduzione clandestina di un livello “ambizioso” ed antagonista dei bisogni materiali delle masse popolari: livello che trova, in questi casi, forme di espressione ribelli deboli e limitate proprio perché sono state deboli ed impotenti nei confronti del padrone e dello stato le masse che le hanno via via espresse sul piano storico, con solo rare eccezioni.

«Ma proprio questa situazione esprime la tragedia del banditismo sociale. La società contadina lo crea e lo esige quando avverte la necessità di un campione e di un protettore, ma è proprio allora che egli è incapace di aiutare. Il banditismo sociale, infatti, è una protesta, ma debole e senza un contenuto rivoluzionario, non diretta contro il fatto che i contadini siano poveri ed oppressi, ma contro il fatto che qualche volta lo siano in misura eccessiva. Dai banditi-eroi non ci si aspetta una uguaglianza. Essi possono soltanto riparare i torti e dimostrare che qualche volta si può ritorcere l’oppressione. Non riusciranno però mai a capire quello che succede nei villaggi della Sardegna, per cui alcuni hanno bestiame in quantità ed altri, che ne avevano sempre avuto poco, non ne hanno affatto; nei villaggi calabresi, i cui abitanti diventano minatori di carbone in America; nelle montagne dei Carpazi, che si riempiono di uomini armati, fucili e debiti. La funzione pratica del bandito, nel migliore dei casi, consiste nell’imporre determinati limiti all’oppressione tradizionale, nel quadro di una società tradizionale sotto la minaccia di illegalità, assassinii ed estorsioni. Ma egli non assolve in pieno neppure questa funzione, ed un giro per Montelepre ce ne convincerà. Al di là di questa sua funzione, il bandito rappresenta soltanto l’incarnazione di un sogno di tempi migliori. “Per sette anni ha combattuto nella nostra terra”, dicono di Dovbus i contadini dei Carpazi, “e finché era in vita le cose andavano bene per il popolo”. Si tratta di un sogno suggestivo ed è questa la ragione del formarsi dei miti che attribuiscono ai grandi banditi poteri sovrumani, è quella specie di immortalità di cui godevano i grandi re giusti del passato, che in realtà non sono morti ma si sono addormentati e torneranno di nuovo. Così dorme Oleska Dovbus, mentre la sua scure sepolta ogni anno si avvicina di più alla superficie della terra, sospinta dal respiro di un seme di papavero e quando sarà emersa, sorgerà un altro eroe, amico del popolo, terrore dei padroni, combattente per la giustizia e vendicatore dell’ingiustizia. Così, anche negli Stati Uniti di ieri, in cui uomini deboli e isolati lottavano – se necessario con il terrore, come i IWW – contro il dominio di uomini forti e di associazioni, c’era chi credeva che il bandito Jesse James non fosse stato ucciso ma avesse riparato in California. Cosa ne sarebbe infatti del popolo se i suoi campioni fossero morti per sempre?».[38]

La lezione storica-artistica di Dario Fo ci permette di individuare un’altra “orma minore” del desiderio di rivolta, latente e represso/autorepresso nei produttori diretti, e cioè quella satira politico-sociale via via recepita di regola con entusiasmo dagli oppressi in tutte le sue diverse declinazioni storiche e geografiche, in molte parti e periodi del mondo europeo e mediterraneo, arabo e cinese. I giullari, i mimi e gli attori di strada, i burattinai, i teatri grotteschi e le “opere buffe” spesso sono stati i vettori storici con cui le masse popolari hanno manifestato, in modo prudente e velato, i loro bisogni materiali di giustizia sociale più nascosti e arditi: ad esempio, secondo uno dei temi più popolari nel teatro medioevale, la “Moralità del cieco e dello storpio”, molto diffuso in Francia, Belgio ed Italia tra il 1100 ed il 1500, «dignità è non avere un padrone che ti sottomette».[39]

Senza padroni e senza ingiustizie sociali: un sogno latente, spesso espresso nelle cosiddette arti minori di origine popolare.

Un’ennesima traccia lasciata dal lato antagonista del bisogno omega-antagonistico è fornita paradossalmente proprio dalla grande diffusione tra le masse popolari della letteratura apocalittica, in larghe zone del pianeta e per periodi di tempo molto prolungati, a partire dalla cultura ebraico-cristiana e dal mondo occidentale.

Dalle profezie di Amos agli Oracoli Sibillini, fino ad arrivare alle chiese millenaristiche dei nostri giorni, il mito della distruzione apocalittica dei ricchi e dei potenti per l’intervento provvidenziale di una forza onnipotente divina ha goduto di una grande popolarità tra una parte significativa degli oppressi, esprimendo allo stesso tempo sia i loro desideri di sovversione nei confronti dei rapporti di produzione di potere classisti che la loro parallela e sincronica impotenza-paura collettiva di fronte alla forza d’urto (ritenuta) invincibile e schiacciante degli apparati statali, posti chiaramente a difesa dei privilegi e degli interessi materiali delle classi privilegiate.[40]

Uno degli scritti del Nuovo Testamento, la lettera attribuita all’apostolo Giacomo, è diventata famosa per le sue violente invettive contro i ricchi e gli oppressori. Nessun accenno in essa al “porgere l’altra guancia”, ma invece in essa riemerse un preciso richiamo al “Signore degli eserciti” e la guerra di classe contro i ricchi, sotto la guida e con l’indispensabile aiuto divino, è evocata con forza e modalità simili a quelle contenute nell’Apocalisse di Giovanni con le sue invettive rivolte contro Babilonia, la Roma schiavista allora padrone del Mediterraneo.

«E ora voi, o ricchi!

Piangete, gemendo, per i guai che stanno per abbattersi su di voi; la vostra ricchezza è imputridita, e le vostre vesti sono rose dalle tarme.

Il vostro oro e l’argento si è arrugginito, e la loro ruggine sarà una testimonianza contro di voi, e divorerà la vostra carne come un fuoco.

Avete ammassato tesori proprio negli ultimi giorni! Ecco, il salario che avete defraudato agli operai che mietevano i vostri campi, grida, e le grida dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore degli eserciti.

Siete vissuti nelle mollezze sulla terra, e vi siete saziati di piacere, e avete rimpinguato i vostri cuori per i giorni del massacro!

Avete condannato il giusto, che non può opporvi resistenza!» (Giacomo, 5, 1/6).

Per millenni le dure regole dettate dai rapporti di forza, quasi sempre sfavorevoli/molto sfavorevoli alle masse popolari, costringevano queste ultime a sperare più o meno intensamente in un miracoloso intervento esterno, utilizzando delle modalità d’espressione del resto non troppo diverse da quelle contenute nel mito laico dell’arrivo dell’Armata Rossa e di Stalin, diffusosi tra parti consistenti degli operai dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra: infatti il “giusto” di regola non può “opporre resistenza” da solo e senza un aiuto proveniente da poteri superiori, almeno nella coscienza di larghe masse popolari e nelle loro aspettative premoderne-postmoderne.

Quasi due millenni dopo la lettera di Giacomo nel centro di Italia il millenarismo apocalittico trovò una sua ennesima reincarnazione storica nella bella figura di Davide Lazzaretti. Tra il 1870 ed il 1878 egli predicò ai mezzadri, agli artigiani ed ai poveri della zona del Monte Amiata l’avvento di un nuovo profeta, che sarebbe sorto a liberare i popoli di tutto il mondo gementi “come schiavi sotto il dispotico potere del mostro dell’ambizione, dell’ipocrisia, dell’eresia, dell’orgoglio”; nell’estate del 1878 Lazzaretti si proclamò Messia e fu subito ucciso dalla polizia italiana il 18 agosto di quell’anno, mentre con migliaia di fedeli scendeva dal Monte Amiata per erigere la Repubblica di Dio, secondo il suo parere terza ed ultima età del mondo.[41]

La storia dei movimenti apocalittici e dei loro seguaci attraversa la storia degli ultimi tre millenni senza quasi senza soluzione di continuità, per arrivare fino ai nostri giorni: anche nel XXI secolo e nel nuovo postmoderno millennio, dei settori consistenti delle masse popolari e del proletariato mondiale ripongono ancora le loro speranze antagoniste in una imminente fine del mondo causata da un decisivo intervento extraumano, che consentirebbe finalmente l’inizio di una nuova età millenaria contraddistinta da giustizia e eguaglianza per tutti i “santi” e per tutti gli eletti, seguendo in tal modo le orme dei loro fratelli di classe che ancora alla fine del primo secolo d.C. leggevano/ascoltavano le parole dell’Apocalisse attribuite all’apostolo Giovanni.

A. Lieven ha notato come, negli Stati Uniti post-moderni ed avanzati del XXI secolo, il millenarismo apocalittico coinvolga almeno un terzo della popolazione, per lo più povera e animata da sentimenti confusamente anticapitalisti.

«Infine, nel contesto delle tradizioni americane di sconfitta e dei loro legami con la paranoia dell’aggressione, dobbiamo notare, in seno all’intera tradizione millenarista, una forte componente di odio di classe: un sentimento magistralmente analizzato da Norman Cohn nel suo famoso libro I fanatici dell’apocalisse, in cui vedeva nei culti millenaristici dell’Europa medioevale e della prima età moderna, con i loro deliri di un regno di Dio all’insegna dell’eguaglianza e della distruzione di padroni e governanti legittimi, una sorta di precursori del comunismo (e in qualche caso del moderno antisemitismo).

Analizzando culti vecchi di cinquecento anni, a Cohn e agli altri sfuggì che gruppi millenaristici portatori della stessa tradizione erano ancora vivi negli Stati Uniti del loro tempo. Negli USA esiste una relazione fortissima tra credenze del genere e la povertà, la residenza in campagna e nelle piccole città, ma, soprattutto, la mancanza di istruzione. La combinazione è naturalmente alimentata da più ampi risentimenti meridionali e della Heartland contro le élite della costa orientale, nonché dall’ostilità delle classi subalterne per le élite in generale, specie quelle largamente identificate come di origine “straniera” quali i banchieri. Alcuni storici hanno infatti considerato il fondamentalismo statunitense nel suo complesso come una specie di “oppio del popolo”, un espediente che fa assumere ai risentimenti socioeconomici una forma ostile alla cultura delle élite ma che di fatto non ne minaccia l’effettivo potere.

Cento volte, nella letteratura millenaristica, personaggi facoltosi, colti e ricchi di prestigio muoiono e vanno all’inferno a causa della loro vita peccaminosa, mentre i semplici, i comuni credenti timorati di Dio si salvano. Gli scrittori millenaristi sferzano con la stessa regolarità anche l’edonismo e la cultura consumista degli Stati Uniti. Il millenarismo statunitense è da sempre, in larga misura, una religione dei diseredati, una sorta di socialismo spirituale per persone incapaci, per qualsiasi ragione, di aderire al socialismo.

I predicatori evangelici, specie quelli millenaristi, parlano del futuro regno di Cristo sulla Terra in termini che ricordano da vicino quelli usati da Karl Marx: il regno sarà, in sostanza, un’America grandemente migliorata, senza più povertà, peccati e valori estranei: “Molto come la vita attuale… ma senza tutti gli inconvenienti che hanno distrutto il vero, pieno significato della vita”. Il regno di Cristo porterà lavoro, avventura, emozione, occupazione e impegno. Vi è un forte accento posto sull’eguaglianza – compresa quella economica – di tutti quelli che credono in questo regno venturo, nel quale ogni uomo sarà un sovrano».[42]

Se si sommano le variegate ed a volte contraddittorie forme di espressioni agonistiche (lotte ed organizzazioni rivoluzionarie), produttive (la “linea rossa” nel m.p. asiatico, feudale e capitalistico) ed utopistiche (sogni di terre beate e paradisi fraterni, di banditi-vendicatori e di apocalissi) del bisogno omega-riappropriativo, si può concludere che quest’ultimo abbia coinvolto almeno fugacemente ed in forme iperprudenti larga parte dei produttori diretti vissuti dopo il 3700 a.C.

Come ultima massa di prove, si possono infine utilizzare le opinioni di alcuni esponenti intellettuali e/o politici particolarmente conosciuti delle stesse classi dominanti, che attestano l’esistenza storica dello “spettro” del comunismo rivoluzionario negli incubi vissuti da una parte consistente dei ceti privilegiati.

All’inizio del IV secolo a.C. il grande commediografo greco Aristofane, nelle Ecclesiazuse, descriveva nei dettagli una congiura immaginaria delle donne ateniesi, tesa a creare una società collettivistica; a sua volta lo storico Polibio, nel II secolo a.C., più prosaicamente rilevava che «poiché le masse sono leggere, avide, sfrenate, irragionevolmente colleriche, inclini alla violenza passionale, non resta che tenerle a freno con il terrore di entità che non sono visibili o con altre simili imposture».[43]

Molti rappresentanti dello scetticismo e dell’ateismo aristocratico del Seicento e del Settecento concordavano con la citata teoria di Polibio: per Gabrielle Naudè, bibliotecario del cardinale Mazarino ed autore del Considierations politiques sur les coups d’Etat (1639), la religione tradizionale, alleata dello Stato assoluto, ha la funzione di mantenere la massa nell’obbedienza e proprio per tale motivo era necessario opporsi a tutte le novità religiose, come il protestantesimo ed il giansenismo.[44]

Un secolo dopo l’ateo G. Naude, anche l’anticlericale Voltaire affermava provocatoriamente che se «Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo», al fine di permettere agli apparati religiosi di svolgere la loro indispensabile funzione di frusta e di diga contro le tendenze fameliche delle “belve” popolari; nel 1942 A. Hitler affermò chiaramente in un discorso segreto agli ufficiali tedeschi che «se nel 1933 non avessimo percorso la strada della nuova politica economica, saremmo stati spazzati via dalla rivoluzione bolscevica delle masse diseredate».[45]

Solo alcuni anni dopo fu G. Kennan, una delle “colombe” più lucide degli Stati Uniti e capo dell’Ufficio programmazione del Dipartimento di Stato fino al 1950, a scrivere lo Studio 23 di Pianificazione Politica: in esso era affermato apertamente, riferendosi al capitalismo statunitense, che «noi possediamo circa il 50% delle ricchezze del globo, ma solo il 6,3% della sua popolazione (…) In questa situazione, non possiamo che essere oggetto di invidie e di risentimenti. Il nostro vero compito nell’immediato futuro consiste nell’individuare uno schema di rapporti che ci consentano di mantenere tale posizione di disparità.»[46]

Anche un lucido conservatore come E. Nolte ha recentemente creato la categoria storica della sinistra eterna per definire le tendenze collettivistiche espresse apertamente, nel corso del processo storico degli ultimi millenni, dalla parte più generosa e combattiva dei produttori diretti. «Il contrasto tra “ricchi” e “poveri” è il contrasto sociale, elementare, in senso assoluto; non vi è nessun paese in nessun tempo in cui esso non compaia in un modo o nell’altro», ha scritto in un passo sovracitato.[47]

Si è già accennato al fatto che il bisogno omega-collettivo del proletariato storico, nelle sue due articolazioni concrete, si scontra ininterrottamente con delle potenti controtendenze che spesso lo rendono latente nella sfera dei desideri/aspettative delle masse popolari, o che viceversa lo indirizzano in una direzione profondamente individualistica.

Innanzi tutto la tendenza edonistica insita nelle masse popolari ha assunto inevitabilmente, almeno fino al 1850-90, delle forme mitiche-mistiche proprio per il livello assolutamente insufficiente e arretrato raggiunto dalle forze produttive sociali negli ultimi cinque/sei millenni: persino all’inizio del terzo millennio dell’era cristiana, la possibile esistenza del comunismo sviluppato e di una distribuzione gratuita e senza controlli (che non sia quello interiore di ciascun individuo) dei mezzi di consumo, secondo la regola del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, si scontra frontalmente con l’ancora basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali, persino nelle più avanzate metropoli imperialistiche.

Nel migliore degli scenari, la creazione reale di rapporti di produzione e di distribuzione comunisti-sviluppati su scala mondiale costituirà l’orizzonte del genere umano solo alla fine di questo secolo (sempre escludendo catastrofi planetarie…) e la soddisfazione generalizzata e su scala mondiale del livello più elevato dei bisogni materiali dei produttori diretti dovrà essere rimandata forzatamente ad un futuro abbastanza lontano: il nuovo Eden terreno richiede ancora un nuovo e formidabile sviluppo della tecnologia e della scienza, in assenza del quale tutte le forme di distribuzione sociale pienamente comuniste (gratuità+assenza di controllo statale) faranno la triste ed ingloriosa fine delle cucine popolari gratuite create per breve tempo nella Barcellona del 1936, correttamente descritte dall'(allora) anarchico catalano Abad de Santillan come «un incubo ininterrotto», che «rovinò l’economia della regione».[48]

Invece il lato rivoluzionario del bisogno omega è rimasto quasi sempre nascosto, latente e clandestino – almeno nella grande maggioranza degli scenari storici creatisi negli ultimi sei millenni – nella coscienza/sogni della grande maggioranza del “proletariato storico” principalmente a causa della presenza quasi ininterrotta, durante questo lungo arco temporale, di rapporti di forza politici (e politico-militari) sfavorevoli/molto sfavorevoli agli oppressi ed alle masse popolari e della derivata paura di massa che essi creano e riproducono costantemente al loro interno.

Solo degli scenari storici molto particolari hanno permesso a delle frazioni consistenti del proletariato storico di manifestare apertamente, nell’arena politico-sociale, i loro bisogni di classe più avanzati ed arditi e proprio per questo maggiormente repressi/autorepressi, visto che l’azione rivoluzionaria di larghe frazioni degli sfruttati presuppone un precedente e radicale mutamento dei rapporti di forza politici (e politico-militari) a loro favore oppure un gigantesco ed incontrollabile aumento del livello dello scontento e dell’indignazione tra i produttori diretti, capace di vincere i loro timori collettivi.

Non è un caso che quando si modifica profondamente la correlazione di potenza politica (e politico-militare) tra sfruttatori e sfruttati, i bisogni collettivi di riappropriazione del prodotto sociale e del surplus riemergono con forza dal loro letargo e diventano centrali nelle coscienze dei produttori diretti, proprio perché viene meno la loro paura collettiva e il sentimento correlato di impotenza.

Prendendo come esempio il primo periodo di formazione del feudalesimo, l’Alto Medioevo europeo non conobbe solo l’appoggio degli schiavi e dei coloni al “barbaro” Totila, che aveva promosso direttamente la loro (temporanea) liberazione, ma anche le lotte dei contadini di S. Vincenzo al Volturno. Tre secoli dopo la morte di Totila il monastero di S. Vincenzo al Volturno, in Campania, era diventato uno de più grandi feudi d’Italia (400 kmq), sotto la cui autorità lavoravano migliaia di servi della gleba, in un apparente stato di remissività e sottomissione ormai secolare: ma quando nel 881 d.C. i “cattivi” musulmani saraceni attaccarono i “buoni” monaci-feudatari, i cattolicissimi servi della gleba campani si unirono ai primi nell’allegro incendio e saccheggio del monastero, ed in seguito essi abbandonarono il servizio per il monastero ed iniziarono a coltivare i fondi per proprio conto, “scordandosi” subito delle corvée e delle decime prima estorte dai loro sfruttatori e fratelli di fede religiosa.

In tal modo essi imitarono inconsapevolmente l’azione degli schiavi-coloni dell’epoca di Totila e l’azione degli schiavi-coloni dell’ultima fase dell’impero romano, i quali nello scontro tra i Goti/e le autorità imperiali avevano appoggiato attivamente gli invasori: le sacre porte di Roma nel 410 d.C. furono aperte ai barbari (ed agli schiavi insorti al loro seguito) proprio dai servi della capitale eterna.

Il desiderio di liberazione dallo sfruttamento, il bisogno di appropriazione totale del prodotto del proprio lavoro migliorando via via le proprie condizioni di vita rappresenta realmente una costante repressa-autorepressa del processo di sviluppo delle società classiste, perché pericolosa e potenzialmente devastante per chi lo esprima: tanto repressa e pericolosa – per gli sfruttati – che spesso essa ha assunto la forma prudente della “fuga”, intesa in senso multiforme. Fuga nel mondo delle utopie, ma anche fuga individuale/collettiva degli schiavi e dei servi della gleba, capaci a volte di creare nuove società fraterne in cui i fuggiaschi si riappropriavano della propria vita e del prodotto del loro lavoro collettivo; fughe molto spesso sognate, qualche volta tentate, in qualche caso riuscite effettivamente.

In ogni caso la paura collettiva e la forzata acquiescenza/sottomissione al dominio socioproduttivo classista costituiscono i principali “antibisogni”, rappresentando da sei millenni i più importanti fattori di riduzione verso il basso del complesso di bisogni materiali dei produttori diretti: su questo importante tema si ritornerà più diffusamente in seguito, mentre invece è importante rilevare da subito che i rapporti di forza politico-sociali (e politico-militari) generalmente sfavorevoli agli oppressi, uniti al basso livello di sviluppo delle forze produttive sociali, creano e riproducono costantemente la base sociale indispensabile ed il brodo di cultura per le principali forme ideologico-culturali (o pratico-individualistiche) di neutralizzazione diretta-indiretta dei bisogni omega delle masse popolari, sia nel suo lato edonista che in quello antagonista.

Una prima forma di neutralizzazione è rappresentata dal messaggio religioso prodotto e selezionato dagli apparati burocratici e dalle alte gerarchie ecclesiastiche delle principali religioni, che da millenni rimanda completamente ed in ogni caso la soddisfazione delle aspettative/desideri materiali e politici degli oppressi a dopo la morte, in un altro universo paradisiaco (purtroppo immaginario, nella visione atea di chi scrive). Riprendendo anche le lezioni di Donini e Bloch in questo campo d’analisi, emerge infatti in questo campo di analisi storica:

–         il carattere collettivistico e non-organizzato delle religioni matriarcali-animistiche, createsi durante il Paleolitico ed il Neolitico e riprodottesi per decine di migliaia di anni (culto della Dea Madre, totemismo e sciamanesimo).

–         che dopo la genesi dell’effetto di sdoppiamento, iniziò ad emergere la possibilità di uno sviluppo e di una trasformazione in senso classista delle religioni, attraverso la creazione di un apparato centralizzato e gerarchico destinato ad ottenere il monopolio delle pratiche religiose nelle società fondate sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

–         che i testi sacri sia delle tre grandi religioni monoteistiche che del buddismo contengono al loro interno due religioni e due morali alternative (Donini), due linee diverse di comprensione del mondo: un messaggio classista che difende i ricchi ed una contro-religione popolare e collettivistica, che esprime invece i bisogni e le speranze delle masse popolari. Esiste una particolare ambiguità-duplicità dei testi sacri religiosi, in cui è contenuta anche una forma di “protesta contro la miseria” (Marx) e lo sfruttamento.

–         che la pratica degli ultimi millenni insegna come sia possibile un duplice ed antagonista utilizzo politico-sociale dei testi sacri religiosi, in funzione di “oppio dei popoli” oppure come arma del popolo oppresso (T. Muntzer) e sua “anfetamina” ideologica.

–         che le gerarchie ecclesiastiche, burocratiche e centralizzate, sono state e sono tuttora il principale fattore di precipitazione in senso filoclassista della duplicità ed ambiguità propria dei testi più importanti di riferimento delle principali religioni, visto che gli apparati ecclesiastici sono da millenni alleati dei fedeli delle classi privilegiate e senza soluzione di continuità.[49]

Per l’analisi in corso diventa centrale notare e sottolineare proprio l’indubbia capacità degli apparati ecclesiastici nel neutralizzare in larga parte i bisogni omega delle classi popolari, attraverso un utilizzo partigiano e selettivo dei testi sacri delle religioni “rivelate”.

Il messaggio religioso degli ultimi millenni è stato infatti filtrato e diretto principalmente dagli apparati dirigenti-burocratici clericali, strutturati gerarchicamente in forme più o meno complesse ed a loro volta parti organiche – in forme diverse – delle classi dominanti sul piano sociopolitico, in qualità di possessori dei mezzi di produzione e di proprietà immobiliari, di rendite e di masse di denaro accumulate in quantità variabili, ma sempre consistenti. Ora, una parte importante dell’azione delle ideologie e della pratica concreta delle “religioni ufficiali”, legate a ceti privilegiati ed ai loro apparati statali, è costituita storicamente dallo sforzo di trasferire completamente e rimandare la soddisfazione dei bisogni più radicali ed ambiziosi degli sfruttati solo ed esclusivamente in un diverso ed alternativo continuum spazio-temporale, rendendo tale processo di soddisfazione in ogni caso assolutamente dipendente e condizionato da una volontà extraumana, superiore ed onnipotente. L’affermazione costante del necessario e indispensabile intervento divino tende a creare e riprodurre ininterrottamente all’interno delle coscienze dei “fedeli-proletari” un abisso tra i loro desideri più arditi ed ambiziosi e l’azione collettiva umana, considerata (quasi sempre) da questi ultimi come subordinata totalmente alle imperscrutabili scelte divine ed all’approvazione delle gerarchie ecclesiastiche; la concreta pratica politico-sociale del Vaticano, il centro dirigente della chiesa cattolica, è sotto questo aspetto assolutamente esemplare e si è prolungata per quasi due millenni proprio in questa direzione.

Lo iato così prodotto tra i bisogni collettivi e la pratica umana ha reso molto spesso inoffensivi, nella vita ed azione politico-sociale, alcuni splendidi desideri “sovversivi” tesi a raggiungere l’abbondanza, l’ozio e la felicità eterna, trasformandoli in bisogni rassegnati. Radicali, ma trasferiti nell’aldilà, in una futura e più felice esistenza; radicali, ma impotenti. Radicali, ma resi inerti sul piano della praxis storica politico-sociale: la stessa categoria storico-sovversiva di “millennio”, che per le masse popolari ebree e dei primi cristiani indicava una terrena, concreta, vicina “età felice di abbondanza e giustizia per i poveri” (Donini), fu assorbita e resa in larga parte innocua per molti secoli dall’azione delle gerarchie cattoliche/ortodosse/protestanti.[50]

I diversi apparati clericali apparsi dopo il 3700 a.C. hanno amministrato e diretto in una precisa direzione, funzionale alla riproduzione dei sistemi classisti, la potenza esplosiva dei bisogni degli oppressi e di quei “contenuti di desideri e tesori di speranza” (E. Bloch) che sono stati via via assorbiti e resi in larga parte innocui dalle pratiche religiose ufficiali, proprio perché le gerarchie ecclesiastiche hanno tentato continuamente e senza sosta di disinnescare proprio la mina vagante di quei bisogni omega (depositati e proiettati nella fede religiosa) che hanno contraddistinto la coscienza collettiva di larghi settori dei produttori diretti in questi ultimi millenni.

Gli alti dignitari e le burocrazie ecclesiastiche non sempre hanno avuto successo, visto che non solo anche le masse popolari “religiose” ciclicamente hanno lottato e si sono ribellate contro padroni e stato, proprio a dispetto delle direttive emanate dai “loro” apparati religiosi, ma che in molti casi il messaggio religioso “originale” dei testi sacri, nella sua parte sovversiva, è stata utilizzata concretamente da molte eroiche sette e gruppi eretici proprio al fine di supportare l’azione di rivolta dei produttori diretti: non mancano certo gli esempi in questa direzione, a partire dagli eroici marcioniti e montanisti, dagli agonisti-donatisti fino alla Teologia della liberazione del XX-XXI secolo, per limitarsi solo alla storia della religione cristiana. Tuttavia il Vaticano, come i leader dei fondamentalismi di matrice protestante o islamica ed i dirigenti attuali del cristianesimo millenaristico ed apocalittico, diffuso sia negli Stati Uniti che in altre zone del pianeta, finora sono riusciti molto spesso a canalizzare i “risentimenti socioeconomici” di larga parte delle masse popolari a loro legate verso una «forma ostile alla cultura dell’élite, ma che di fatto non ne minaccia l’effettivo potere», secondo l’esatta definizione di A. Lieven riportata in precedenza.

La connessione dialettica esistente tra i bisogni omega-collettivi delle masse popolari e la stabilità-invincibilità (reale-presunta) delle strutture economiche, sociali e politico-militari classiste, hanno creato le premesse materiali per una seconda forma di neutralizzazione del livello superiore dei desideri-aspettative materiali dei produttori diretti: si tratta dei processi di autopromozione individuale, legale o illegale, e dei tentativi effettuati in modo isolato da determinati individuali di origine proletaria al fine di inserirsi individualmente nelle classi dominanti e nei gangli più elevati degli apparati statali, per garantendosi in tal modo una fetta dei privilegi, del reddito e delle proprietà accumulate dai “ricchi e potenti”.

Spesso sono le stesse regole del gioco vigenti in alcune delle formazioni economico-sociali classiste ad aprire degli spazi di manovra, più o meno ampi, per processi legali-legittimi di scalata sociale da parte di segmenti molto ristretti dei produttori diretti, particolarmente abili e/o fortunati: in determinate formazioni economico-sociali classiste hanno infatti agito e funzionato alcuni meccanismi di integrazione sociopolitica che, allo stesso tempo, permettono ad una ristretta minoranza delle masse popolari una reale ascesa nei ranghi delle classi privilegiate e che soprattutto creano la speranza collettiva in strati molto più ampi dei produttori diretti di poter anche loro arrivare, a determinate condizioni, a soddisfare in modo individuale e con le proprie sole forze i loro bisogni più ambiziosi di abbondanza materiale e di tempo libero. In sostanza, molto spesso la ribellione (ritenuta) impossibile di massa viene sostituita dall’”assalto al cielo” in forma individuale al reame dorato dei possessori del surplus e delle condizioni della produzione.

Un esempio classico di autopromozione sociale si ritrova nell’esperienza dei liberti all’interno della formazione schiavistica romana. Infatti non solo delle porzioni consistenti degli schiavi ottennero la loro liberazione individuale dal giogo servile, ma alcuni di loro riuscirono a volte a conquistare posizioni importanti nella struttura classista romana: in tutti questi casi lo schiavo affrancato diventava un liberto, anche se l’affrancamento (manu missio) non eliminava subito ogni rapporto di dipendenza poiché il liberto passava a far parte della clientela del suo padrone, assumendone il nome di famiglia.

«Talvolta egli rimaneva obbligato a restare in casa del padrone, talvolta invece a pagargli un contributo. Spesso l’affrancamento di uno schiavo rappresentava un’operazione vantaggiosa in quanto, normalmente, lo stesso schiavo si riscattava pagando.

La categoria dei liberti era a Roma molto numerosa. I grandi proprietari di schiavi, dato il loro alto tenore di vita, le spese improduttive, le speculazioni, e data l’impossibilità per i senatori di occuparsi legalmente di commercio (legge di Claudio), avevano bisogno di gente fidata, di persone interposte, di agenti per incarichi, ecc. Le persone più adatte erano i liberti. Ecco perché ogni ricco disponeva di decine e talvolta di centinaia di clienti provenienti dagli schiavi. Non bisogna neppure dimenticare che i clienti appoggiavano l’influenza politica del loro padrone. I liberti godevano di tutti i diritti politici, ma erano obbligati ad iscriversi solo nelle 4 tribù cittadine.»[51]

A volte i liberti riuscivano a mettersi in proprio, diventando a loro volta dei grandi proprietari di schiavi e/o ricchi imprenditori in grado di godersi i privilegi materiali riservati alla classe dominante, come accadde ad individui provenienti dal popolo, particolarmente dotati/fortunati, che riuscirono ad inserirsi nella fascia medio-alta della gerarchia ecclesiastica durante il medioevo europeo.

Nel modo di produzione capitalistico la realtà parziale, e (soprattutto) il mito della mobilità sociale verso l’alto permisero – e permettono tuttora – di indirizzare e di convogliare in senso funzionale al sistema capitalistico tutta una serie di bisogni materiali, di sogni e di aspirazioni “radicali” presenti in settori rilevanti della classe operaia e delle masse popolari.

Il culto del self-made man, dell’uomo fattosi da sé non fu e non rappresenta tuttora un’esclusiva della società statunitense, mentre la progressiva (anche se limitata) apertura dell’istruzione superiore a porzioni minoritarie di figli degli operai lo ha reso più convincente e verificabile a livello di massa, soprattutto nell’ultimo secolo.

Negli USA l’ideologia dell’autopromozione sociale dal basso raggiunse fin dagli inizi dell’Ottocento un grado abbastanza elevato di diffusione tra i proletari, partendo dai libri ottocenteschi di Horatio Alger (Strive and Succeed, alias “Datti da fare per avere successo”) per arrivare ai best sellers di Dale Carnegie negli anni Trenta del nostro secolo: una promozione ideologica di massa che continua ancora ai nostri giorni, con i successi di autori quali Peters, Jacocca, Robbins, ecc.[52]

«I romanzi popolari di Horatio Alger contribuirono a diffondere l’idea che anche un ragazzo povero, purché dotato di un certo talento, potesse far fortuna nel mondo degli affari se lavorava duramente, dimostrava coraggio ed era aiutato dalla buona sorte.»

Certo, il dislivello tra le aspirazioni di massa e la loro realizzazione concreta era – ed è tuttora – indubbiamente enorme, anche negli Stati Uniti del XIX e XX secolo. «Studi e ricerche condotte sulle personalità di maggior successo del mondo degli affari e dell’alta finanza hanno invece rilevato che una notevolissima percentuale di costoro era nata in una famiglia agiata e che, citando William Miller, l’autore di una di queste ricerche, “i poveri ragazzi figli di immigrati o i poveri ragazzi di campagna che insieme costituiscono non più del 3% dei grandi uomini d’affari” (dell’inizio del Novecento) “hanno sempre avuto un ruolo molto più importante nei libri di storia americana che non nella storia americana”. La conferma della crescente rigidità della struttura sociale negli Stati Uniti del periodo in esame viene anche da una ricerca sulla mobilità della classe operaia: a Newburyport (Massachusetts) gli operai e i loro figli raramente arrivavano a essere titolare di incarichi direttivi o anche a livello di funzionari; il tipo più frequente di mobilità era il passaggio da un lavoro generico a uno semiqualificato, o da un lavoro semiqualificato a uno specializzato. Negli Stati Uniti quindi la mobilità della struttura sociale era in realtà abbastanza ridotta, e comunque i lavoratori bianchi nati in America vi partecipavano più degli immigrati, e questi ultimi più della gente di colore.»[53]

Tuttavia, come per i liberti, l’elemento centrale non era/è tanto l’esiguità del numero degli effettivi scalatori sociali e dei nuovi “eroi ricchi” provenienti dalla classe operaia, quanto la loro stessa esistenza concreta e l’influsso che tale fenomeno oggettivo, anche se limitato, esercitava (ed esercita tuttora) su larghe sezioni delle masse popolari: la possibilità reale per una ristretta minoranza proletaria di soddisfare i propri bisogni più elevati all’interno del sistema capitalista, utilizzando le stesse regole del sistema borghese, attenuava in passato e neutralizza tuttora, almeno in parte, le forme antagoniste di esistenza degli interessi-bisogni omega nella coscienza di larghi strati popolari, rimasti affascinati dai casi reali di scalate sociali “dal basso” e disposti a seguirne le orme.

La realtà e soprattutto l’ideologia dell’autopromozione sociale, promossa con i mezzi e le possibilità offerte dalla stessa struttura dominante, permetteva – e permette tuttora – di indirizzare almeno in parte dei bisogni materiali potenzialmente sovversivi verso forme di comportamento e di pensiero perfettamente compatibili con la riproduzione continua dei rapporti di produzione classisti, anche perché dal 3700 a.C. i processi individuali di autopromozione “legale” sono stati affiancati dal fenomeno variegato dell’autopromozione illegale, individuale o di gruppo, tesa solamente all’arricchimento personale dei sottoproletari impegnati in attività criminali quali il furto e l’omicidio a scopo di lucro, il traffico di sostanze illecite ed il contrabbando, in forme mutevoli a seconda delle diverse epoche storiche.

Nelle moderne metropoli imperialistiche le forme principali di autopromozione sociale “dal basso” sono ormai molto variegate, oltre che diffuse, e tra di esse si possono ricordare:

–         l’utilizzo efficace, dal punto di vista economico-professionale, dell’istruzione superiore da parte dei figli degli operai e dei lavoratori dipendenti;

–         la creazione di attività produttive autonome quali bar, ristoranti, microaziende nel settore dei servizi o in quello industriale da parte di ex-lavoratori salariati;

–         la partecipazione ad attività criminali redditizie, quali traffico di droga e/o l’appartenenza a bande criminali organizzate su larga scala;

–         l’utilizzo delle forme legali di gioco d’azzardo: lotterie, totocalcio, casinò, corse di animali, ecc.

–         l’attività sportiva di tipo professionistico;

–         l’attività artistica ad alto livello nel settore cinematografico, musicale, teatrale, ecc.

Ancora una volta non è tanto importante il numero reale e la quantità effettiva dei vincitori alle diverse “lotterie tardocapitalistiche” provenienti dalle masse popolari e dalla classe operaia, quanto il fatto stesso che tali individui esistano effettivamente e che i loro successi personali vengano realmente a conoscenza di larghi strati popolari della società, servendo come modelli concreti ritenuti raggiungibili – almeno a livello potenziale – da ampi strati popolari e canalizzando allo stesso tempo verso modalità individuali, non-socializzate ed innocue per i sistemi classisti i loro progetti e pratiche, tese a soddisfare in modo isolato sogni personali più arditi sul piano materiale (ivi compreso il diritto all’ozio). Sotto questo aspetto non è certo casuale il grande successo del mondo capitalistico-virtuale di Second Life, capace di attrarre in un universo parallelo di tipo computerizzato quasi otto milioni di utenti alla metà del 2007,  nel quale con poche monete (reali) si può fare tutto quello che nella vita reale metterebbe in crisi anche il budget di un manager ben pagato, a partire dall’acquisto (virtuale) di ampi terreni e grandi ville.

Il terzo fattore di neutralizzazione dei bisogni omega delle masse popolari è venuto proprio dai fallimenti storici dei loro tentativi di emancipazione collettiva, che provocano inevitabilmente un riflusso politico-sociale (più o meno prolungato nel tempo) ed un letargo dei bisogni radicali all’interno delle coscienze del “proletariato storico”. La risacca e la delusione collettiva, di dimensione mondiale, provocata dal crollo del socialismo deformato di matrice sovietica è sotto questo aspetto un caso esemplare, ma non certo unico, che trova un suo precedente nel processo di trasformazione in senso iperpacifista ed iperlegalitaria vissuto da quasi tutto il movimento anabattista, prima rivoluzionario ed antagonista, dopo la sconfitta subita dalla Comune di Munster del 1534.

Un’altra forma di neutralizzazione ideologica dei bisogni omega è rappresentata dalla (falsa) coscienza diffusa in strati rilevanti del proletariato storico sulla presunta insostituibilità dei gruppi sociali privilegiati nel processo produttivo: “senza di loro sarebbe il caos, anche a nostro svantaggio”. La favoletta attribuita a Menenio Agrippa, nelle sue varianti locali, è spesso riuscita ad irretire delle sezioni consistenti dei produttori diretti, specie se collocate nelle zone dominanti e privilegiate di imperi in grado di appropriarsi di flussi consistenti di surplus dalle zone periferiche da loro dominate.

Il quinto processo di neutralizzazione del livello omega espresso dalle masse popolari viene rappresentato, in modo solo apparentemente paradossale, dai processi di miglioramento reali e prolungati rispetto al passato avvenuti nelle condizioni di vita materiali dei produttori diretti, dalla produzione/riproduzione di livelli crescenti (in termini assoluti e/o relativi) di soddisfazione dei bisogni materiali delle masse popolari in determinate formazioni statali e in certi periodi storici.

Di regola il raggiungimento di conquiste materiali consistenti e durature, anche se ottenute mediante lotte di massa più o meno aspre, ha allo stesso tempo determinato uno stato di congelamento più o meno prolungato del livello omega dei bisogni proletari e la comparsa di sensibili processi di riduzione qualitativa dell’intensità con cui le aspirazioni “massimalistiche” sono state percepite dalla maggioranza dei produttori diretti interessati.

La storia politica-materiale della classe operaia occidentale nel periodo compreso tra il 1948 ed il 1976, con il netto miglioramento registratosi in quel tempo dalle condizioni di vita dei lavoratori dipendenti ha mostrato un parallelo processo di integrazione politico-sociale della grande maggioranza di questi ultimi nelle regole del gioco fondamentali della formazione economico-sociale capitalistica: per fare solo l’esempio più clamoroso, mentre nel 1945-48 la maggioranza della classe operaia italiana si riconosceva nel Partito Comunista e dimostrava nei fatti precise tendenze “omega-espropriatrici”, già nel 1975-79 la maggioranza di lavoratori (che ancora votava PCI) manifestava i suoi bisogni omega solo attraverso delle forme a bassa intensità e accettando sostanzialmente di rimandare in tempi lontani la soddisfazione concreta di questi ultimi, dato che allora era stato raggiunto attraverso dure lotte un grado abbastanza soddisfacente di consumismo di massa da parte dei lavoratori salariati italiani, specialmente se rapportata con la loro situazione materiale di tre decenni prima.

Un’altro elemento narcotizzante è costituito dall’apparizione di stati di emergenza – reali o immaginari – e la comparsa più o meno improvvisa di pericoli – reali o presunti tali – provenienti dal quadrante internazionale, dalle minacce provenienti dall’estero che possono provocare per periodi anche prolungati dei fenomeni di “unione sacra” tra gran parte degli sfruttati ed i loro sfruttatori, unendoli contro gli invasori reali/potenziali o le minacce esterne e mettendo allo stesso tempo dentro al congelatore della storia i bisogni omega, per periodi più o meno prolungati.

Nei processi storici degli ultimi millenni hanno infine agito anche le forme variegate degli “oppiacei” materiali ed emotivi, consumati concretamente dai popoli nelle diverse epoche storiche, visto che essi hanno contribuito via via a neutralizzare parzialmente/totalmente i bisogni materiali più arditi di segmenti più o meno vasti dei produttori diretti. L’alcolismo, l’utilizzo delle droghe vere e proprie (oppio, cocaina, eroina e sostanze stupefacenti industriali del XX secolo) ed il vizio del gioco d’azzardo  sono stati i principali veleni che hanno devastato le coscienze, i valori ed i bisogni di masse consistenti di donne e uomini del popolo durante gli ultimi millenni di storia del genere umano, con i “paradisi artificiali” da essi creati e la parallela neutralizzazione “fisica” ed individualistica dei loro bisogni omega di molti appartenenti alle classi popolari.

Si può in sintesi affermare che il livello omega costituisce una parte integrante della piramide plurilivellare dei bisogni collettivi espressi da gran parte del “proletariato storico”, ma quasi sempre esso si è manifestato mediante forme utopistiche (laico-religiose) sotto l’aspetto edonistico e con modalità di regola criptiche/semiclandestine per quanto riguarda il campo delle tendenze antagoniste.

Negli ultimi sei millenni, visti specialmente gli sfavorevoli rapporti di forza politici generalmente esistenti tra i possessori delle condizioni della produzione ed i produttori diretti, i “bisogni radicali” in campo economico hanno svolto quasi sempre un ruolo storico limitato del processo storico ed assunto la forma di luce utopico-edonistica tenue e diffusa, diventando forza motrice di reali rivolte di massa solo in casi particolari e per periodi storici abbastanza brevi, con l’eccezione dei gruppi eroici di proletari impegnati attivamente in senso rivoluzionario, quasi sempre minoritari-iperminoritari rispetto all’insieme delle masse sfruttate.


[1] T. Parks, “La fortuna dei Medici”, p. 35, ed. Mondadori

[2] K. Marx, “Critica al programma di Gotha”, cap. I, Ed. Editori Riuniti

[3] R. Mordenti, “La rivoluzione”, p. 68, ed. Feltrinelli

[4] E. Hobsbawn, “I ribelli”, p. 170, ed. Einaudi

[5] Hilario Franco jr., “Nel paese di cuccagna”, p. 14, ed. Città Nuova

[6] J. Del Roio, “Tupac amaru”, pp. 19-20, ed. Città Studi

[7] Vangelo secondo Luca, 7, 21/25

[8] Hilario Franco jr., op. cit., p. 110

[9] Hilario Franco jr., op. cit., p. 114

[10] Sabattini e Santangelo, op. cit., p. 260

[11] G. Gozzini e R. Martinelli, “Storia del PCI dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso”, p. 465, ed. Editori Riuniti

[12] G. Maifreda, “La disciplina del lavoro”, p. 54, ed. Mondadori

[13] J. Zipes, “Spezzare l’incantesimo”, p. 73, ed. Mondadori

[14] B. Tacconi, “Il pittore del faraone”, pp. 90-96, ed. Mondadori

[15] Isaia, 11, 4/6

[16] G. Gutierrez, “Teologia della liberazione”, p. 231, ed. Querignana

[17] A. Donini, “Storia del cristianesimo”, pp. 40-41, ed. Teti

[18] Hilario Franco jr., op. cit., pp. 44-45

[19] J. Droz, “Storia del socialismo”, vol. I, p. 40, ed. Editori Riuniti

[20] Hilario Franco jr., op. cit., p. 35

[21] Hilario Franco, op. cit., pp. 37

[22] J. Droz, op. cit., pp. 29-30 e 32

[23] E. Bloch, “Il principio speranza”, vol. II, pp. 584-585, ed. Garzanti

[24] E. Bloch, op. cit., vol. II, pp. 561-563

[25] Hilario Franco, op. cit., pp. 42-43

[26] E. Bloch, op. cit., vol. II, pp. 584-585

[27] E. Bloch, op. cit., vol. II, pp. 561-563

[28] J. Winson, “La terra piangerà”, op. cit., pp. 49-50

[29] Prefazione di M. Dommanget a “Il diritto all’ozio” di P. Lafargue, p. 58, ed. Feltrinelli

[30] K. Marx, “Critica al programma di Gotha”, op. cit.

[31] G. Gozzini e R. Martinelli, op. cit., p. 457

[32] Quotidiano del Popolo, Pechino, 9 luglio 2003, “Una teoria scientifica, una grande bandiera”

[33] K. Marx e F. Engels, “Manifesto del Partito Comunista”, cap. I e R-Po-chia Hsia, “La controriforma”, pp. 221-223, ed. Il Mulino

[34] C. Pavone, “Una guerra civile”, p. 362, ed. Bollati Boringhieri

[35] B. Tacconi, “Il pittore del faraone”, p. 94, ed. Mondadori

[36] J. Droz, op. cit., p. 111 e U. Gastaldi, “Storia dell’anabattismo”, vol. II, ed. Claudiana

[37] E. Hobsbawn, op. cit., p. 32, ed. Einaudi

[38] E. Hobsbawn, op. cit., pp. 46-47

[39] Dario Fo, “Mistero buffo”, pp. 5-12 e 40, ed. Einaudi

[40] A. Donini, op. cit., p. 98

[41] E. Hobsbawn, op. cit., pp. 100-104

[42] A. Lieven, “Giusto o sbagliato, è l’America”, pp. 201-203, ed. Sperling&Kupfer

[43] Polibio, “Storia”, vol. VI, cap. 56, 7

[44] G. Minois, “Storia dell’ateismo”, pp. 210 e 398-400, ed. Editori Riuniti

[45] E. Nolte, “Controversie”, p. 127, ed. Corbaccio

[46] N. Chomsky, “I cortili dello zio Sam”, pp. 19-20, ed. Gamberetti

[47] E. Nolte, op. cit., p. 78

[48] H. M. Enzensberger, “La breve estate d’anarchia”, p. 179, ed. Feltrinelli

[49] A. Donini, “Storia del cristianesimo”, pp. 86-88, ed. Teti e E. Bloch, “Ateismo nel cristianesimo”, pp. 102-141, ed. Feltrinelli

[50] A. Donini, op. cit., p. 41

[51] S. I. Kovaliov, op. cit., libro I, pp. 325-326

[52] F. Wheen, “Come gli stregoni hanno conquistato il mondo”, p. 54, ed. Isbn

[53] M. A. Jones, “Storia degli Stati Uniti”, pp. 297-298, ed .Bompiani

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