Archivi Mensili: Maggio 2016

Risposta del compagno Giulio Bonali alla discussione sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento

Cari compagni, cerco di rispondere alla vostra gradita sollecitazione alla discussione critica sulla teoria dell’ effetto di sdoppiamento, limitandomi tuttavia a qualche breve riflessione purtroppo alquanto vaga e non documentata (di più in questo momento i limiti di tempo a mia disposizione e soprattutto i limiti culturali miei propri non mi consentono).

 

Una prima riflessione che mi sento di (ri-) proporre (si tratta di una questione complessa, già da parte vostra e di altri compagni ottimamente affrontata da vari punti di vista, sotto diversi aspetti; e mi scuso perché in gran parte queste mie considerazioni sono certamente ripetizioni di cose risapute) è quella che un po’ grossolanamente si potrebbe denominare dell’ “indeterminismo storico” (considerato in generale, astrattamente).

“Indeterminismo relativo”, ovvero limitato, parziale: una sorta di sintesi dialettica fra “determinismo integrale o assoluto” (tesi) e “indeterminismo integrale o assoluto” (antitesi). Un po’ come l’ indeterminismo quantistico nell’ ambito delle scienze naturali, che non significa “caos” o imprevedibilità assoluta, bensì solo incalcolabilità relativa, limitata ovvero calcolabilità e prevedibilità limitata, di tipo probabilistico-statistico (e non “meccanicistico”: non dei singoli eventi, ma comunque delle proporzioni definite, universali e costanti intercorrenti fra un numero limitato di alternative possibili in serie sufficientemente numerose di eventi).

E d’ altra parte relativo è tutto, in fondo, nella natura e pure nella cultura e nella storia umana; e a maggior ragione nella conoscenza e dominio pratico che della natura e della storia umana può di fatto aversi.

Indeterminismo relativo nel senso che se è verissimo che la storia non segue “deterministicamente” (in senso assoluto) un “unico percorso inderogabile”, una sorta di “laico destino ineluttabile”, nemmeno essa è aperta a qualsiasi esito immaginabile e desiderabile dall’ uomo (come individuo e come masse, classi, popoli, nazioni, ecc.).

In ogni momento storico non un solo possibile futuro sta avanti all’ umanità (in toto; e a ciascuna classe sociale in lotta, a ciascun popolo, nazione, ecc.), ma nemmeno qualsiasi ipotesi razionalmente concepibile è effettivamente realizzabile. In ogni momento è aperto di fronte agli agenti sociali della storia umana un “ventaglio” più o meno ampio ma comunque limitato di alternative possibili, e nemmeno fra loro “equiprobabili”: talune sono infatti più probabili di altre, talaltre meno.

E la scelta che di fattosi di volta in volta si avvererà –non necessariamente la più probabile- sarà determinata dallo scontro innanzitutto politico, ma ovviamente anche teorico, culturale, economico, organizzativo, militare, ecc., fra le classi in lotta. Essa di norma non coinciderà perfettamente, nei dettagli, con nessun preciso “progetto politico”, ma deriverà da una sorta di risultante o di “somma algebrica” delle forze di volta in volta applicate alla contesa storica, non di rado verificandosi quella che molti autori, anche reazionari, hanno chiamato “eterogenesi dei fini” (per questo i classici del socialismo scientifico lasciavano volentieri alla fantasia degli utopisti l’ esercizio poco produttivo della compilazione di dettagliati “menu per le osterie del futuro”); e tuttavia la conoscenza teorica, la maggiore o minore correttezza scientifica nell’ analisi dei termini oggettivi dello scontro di classe di volta in volta in atto da parte delle classi in lotta è decisiva nel determinarne gli esiti, come da voi egregiamente affermato anche in una delle vostre recenti lettere elettroniche.

 

 

Più in particolare sarei propenso ad applicare questo indeterminismo relativo alla teoria dell’ effetto di sdoppiamento (ma devo dire che le considerazioni che sto per fare in proposito sono alquanto astratte, non supportate da un’ analisi –che non sono in grado di operare- dei fatti empirici relativi alla storia dell’ umanità a partire dal decimo millennio a.C., e cioè dalla determinate svolta costituita dall’ invenzione dell’ agricoltura, allevamento, primitivo artigianato e conseguentemente dall’ acquisita capacità umana di erogare un pluslavoro eccedente la produzione dei mezzi di mera sussistenza – riproduzione e dunque di ottenere costantemente un surplus di beni relativamente conservabili e accumulabili).

La “suggestione apriori”, per così dire, che mi viene in mente in proposito (tutta da vagliare e confrontare con l’ osservazione empirica dei documenti disponibili circa i fatti; ed eventualmente magari da scartare a posteriori, se da essi falsificata) è che da allora sia oggettivamente operante nella storia una tendenza progressiva alla maggiore probabilità di realizzazione della “linea rossa” collettivistica sulla “linea nera”, in conseguenza del tendenzialmente crescente sviluppo delle forze produttive (tendenza ovviamente non lineare e assoluta ma relativa e, discontinua, caratterizzata da “zig.zag” e da fasi di regresso, come lo è la storia umana in generale).

Ma ripeto che si tratta di una suggestione vaga, probabilmente difficilmente conciliabile con il prolungato successo –almeno dal 9000 al 4000- di esperienze collettivistiche relativamente avanzate anche agli albori della storia umana, da voi argomentatamente sostenuta con forza.

Credo comunque che questa ipotesi sia di un certo interesse se non altro perché, qualora si dimostrasse per lo meno in qualche misura fondata, consentirebbe di ottenere una maggiore “vicinanza” alle tesi classiche del materialismo storico rispetto alla vostra originale teoria dell’ effetto di sdoppiamento (non che ai classici si debba cercare per forza, dogmaticamente di essere quanto più fedeli possibili, ma…): la “successione classica” di modi di produzione (asiatico, schiavistico, feudale, borghese-capitalistico) non andrebbe più intesa come qualcosa di inesorabile, “obbligatorio per tutti i popoli e tutte le nazioni”, ma resterebbe comunque la più probabile delle sequenze possibili nello sviluppo umano, con la possibilità –in varia misura effettiva nelle diverse circostanze storiche- in ogni momento di “saltare delle tappe” o anche di “regredire a fasi più primitive” (a parità, o comunque con relativa, limitata indipendenza dallo sviluppo di volta in volta raggiunto dalle forze produttive).

 

 

Un’ ultima considerazione mi sentirei di riproporre come modesto contributo da parte mia al dibattito da voi giustamente sollecitato (vi avevo in realtà già accennato in una precedente discussione).

Secondo me l’ epoca dell’ “effetto di sdoppiamento”, iniziata circa 11000 anni fa, si sta obiettivamente chiudendo ai giorni nostri per l’ enorme sviluppo ormai raggiunto dalle forze di produzione (e inevitabilmente anche di distruzione: in generale di trasformazione della natura) umane.

Esso infatti consente ora la eliminazione definitiva, l’ “estinzione prematura e di sua propria mano” (Sebastiano Timpanaro) dell’ umanità.

E anzi tende sempre più oggettivamente a determinarla, stanti (e in conseguenza de-) gli attuali assetti sociali capitalistici: o in forma “acuta” a seguito di una guerra nucleare generale (di cui “l’ imperialismo è gravido come le nubi sono portatrici della tempesta”), o comunque in forma “cronica” per il fatto di imporre inevitabilmente la concorrenza “anarchica” fra unità produttive private e reciprocamente indipendenti nella ricerca del massimo profitto a breve termine e a qualsiasi costo (chi non produce abbastanza per farvi fronte inevitabilmente fallisce e “chiude bottega” lasciando campo libero a chi produce di più), il che comporta inevitabilmente la produzione tendenzialmente illimitata di merci (beni e servizi) nel contesto di un ambiente realisticamente (e non: fantascientificamente!) praticabile e sfruttabile dalle risorse vitali (caratteristiche climatiche, acque potabili, terreni coltivabili, biodiversità indispensabile alla sopravvivenza umana, ecc.) limitate, che conseguentemente a un certo punto -alquanto prossimo nel tempo- non potrà oggettivamente più mantenere caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche compatibili con sopravvivenza della nostra specie.

Si sta inesorabilmente chiudendo la fase di oggettivamente possibile coesistenza in varia misura e/o alternativa fra divisione della società umana in classi antagonistiche e produzione privatistica da una parte e collettivismo sociale – produttivo dall’ altra: o i vigenti rapporti di produzione capitalistici saranno superati per tempo definitivamente dal comunismo, oppure inesorabilmente la vita umana finirà e l’ evoluzione biologica proseguirà “imperterrita”, seppur fortemente indebolita e “mutilata” da un’ estinzione di massa simile ad altre che la geologia ha già conosciuto in passato, senza di noi, del tutto “indifferente verso il nostro destino”.

Solo una programmazione generale ben calcolata e prudente di produzioni e consumi, che inevitabilmente comporta, come un’ ineludibile conditio sine qua non, la proprietà collettiva sociale dei mezzi di produzione, potrà, stante lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive, consentire la sopravvivenza dell’ umanità e il prosieguo e della sua civiltà e della sua storia.

 

Grazie per l’ attenzione.

 

Giulio Bonali

 

L’effetto di sdoppiamento nella storia delle idee e dei sistemi di pensiero

 

 

Risposta del compagno Filippo Violi alla teoria dell’effetto di sdoppiamento.

Cari compagni, devo essere sincero sono stato molto combattuto nello scrivere alcune riflessioni sul vostro valido lavoro riguardante questo nuovo filone di studi.  Devo dire che la vostra idea di farne un piccolo dibattimento mi è piaciuta molto. Dopo aver letto l’e-mail del compagno Fabio Scolari, la vostra esaustiva risposta e l’invito ad entrare attivamente nel dibattito, dapprima, per il poco tempo a disposizione, ho declinato, poi ho pensato ad un mio vecchio lavoro lasciato incompleto, e cioè quello di mettere a confronto, diciamo pure con un “effetto sdoppiamento”, la dialettica del processo triadico (hegeliano-marxista-platonica) nonchè quella della non-contraddizione, del dialogo e della non-tesi (Socrate-Aristotele), con la geneologia dei saperi-poteri (Deleuze-Foucault), quale metodo diverso d’indagine storica.

Ovviamente il discorso sarebbe stato troppo lungo e avrei dovuto introdurre un nuovo filone di studi che avesse riguardato un “effetto di sdoppiamento” al quadrato, da inserire nel campo della “metodologia della ricerca storica”. Percorso un pò complicato direi. Qualche cosa comunque ho cercato di far uscire fuori (maieutica), andando oltre il seminato, con lo stimolo che forse un giorno questo campo d’analisi potrà essere approfondito.

Devo dire che ho trovato molto stimolante leggere il libro “Filosofi di frontiera”, il cui lavoro rappresenta un minuzioso laboratorio di studio improntato su quaderni materialisti, anti-emperiocritici (per dirla con Lenin) e dialettici (per dirla con Lukacs e Korsch) sull’effetto di sdoppiamento nella filosofia occidentale; un meticoloso scavo sotto i piedi che ha permesso di riportare in superficie ciò che nel percorso di analisi si è rilevato in voi decisivo ed essenziale: le tre tendenze fondamentali della filosofia nel campo politico-sociale, ovvero la linea rossa collettivista, la linea nera filo-classista e la linea meticcia che include entrambe le tendenze. Un’indagine archeologica e teorica che ha mosso i suoi primi passi a partire da quel prezioso manoscritto, politico-filosofico e storico, da voi redatto che porta il titolo di “Pitagora, Marx e i filosofi rossi”.

Non è facile esprimere un giudizio esaustivo su questa lucida impostazione d’analisi fatta nel campo della storia delle idee, si dovrebbe a limite rispondere prima e quasi compiutamente secondo tradizione alla fatidica domanda che cos’è la filosofia? E poi andare ancora giù in fondo, negli abissi del pensiero storico-filosofico contemporaneo,  scavare, frugare e mettere uno di fronte all’altro, in un nuovo percorso di studi sull’ “effetto sdoppiamento”, irrazionalismo e razionalismo.

Lasciando per il momento da parte l’importante decostruzione storico-filosofica che la scuola strutturalista e post-strutturalista francese (dei vari irrazionalisti – secondo lo schema di Lukacs –  Derrida, Foucault, Deleuze, Blanchot, Lacan, Barthes, Lyotard eccetera) fa partendo da questo interrogativo di domanda (che cos’è la filosofia e qual’è la funzione che assurge in una società data), riuscendo a smantellare in toto il cogito ergo sum cartesiano, ebbene, partendo proprio da questo interrogativo, sarebbe giusto risalire al V e al VI secolo a.C., trovando la prima risposta  proprio attraverso il geniale filosofo matematico e proto-comunista (per dirla con gli autori stessi) Pitagora.

Seguendo le “stimmate” del pensatore di Samo si potrebbe subito affermare che la filosofia è l’amore del sapere, il desiderio di conoscere la verità, i cui contenuti sono le domande, le più generali possibili, che l’uomo si pone per tentare di comprendere la totalità del reale, in rapporto ai problemi del conoscere (gnoseologia) e dell’essere (metafisica).

Detto questo, ogni essere animato dal desiderio di conoscenza, da volontà di sapere direbbe Foucault, dovrebbe abbracciare il campo filosofico e politico della storia delle idee ponendosi in una via di mezzo come fa l’ape in Bacone: che ricava la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi, e la trasforma e la digerisce in virtù di una sua propria capacità, trasformandola in qualcosa del tutto nuovo per la conoscenza. Ecco, questo è stato l’imponente contributo, il lavoro produttivo dei compagni-autori Burgio, Leoni e Sidoli nel loro stimolante studio storico-filosofico e politico sul concetto di effetto sdoppiamento.

Il materialismo storico, da dove discerne tutta l’analisi degli autori, ha tutte le ragioni per distinguersi nettamente rispetto alle forme tradizionali del pensiero borghese. Il suo prospetto fondamentale non è il progresso ma l’attualizzazione, così come piaceva definirlo Benjamin e in un certo senso anche Derrida, tanto per citare due geniali pensatori appartenenti alla “linea rossa”. L’attualizzazione non è un processo di avvicinamento e di ricostruzione di ciò che fu – evento storico, opera d’arte o dottrina filosofica. Il materialista storico, alla Benjamin, ne riconosce la rilevanza metodologica, perché egli sa quanto sia importante distinguere con estremo rigore la costruzione di un fatto storico da ciò che abitualmente viene definita la sua “ricostruzione”. Ricostruire il passato significa per la “storiografia convenzionale” ripercorrere, a ritroso, la serie casuale come se fosse una catena continua, fino a che non si ritrova ciò che si cercava. Viceversa il principio al quale agisce l’attualizzazione, che sta alla base dello studio degli autori, impone di saltare la serie delle cause e degli effetti per mettere in corrispondenza il passato con il presente. Ecco perché è stato per gli autori facile accumunare, rendere visibili e vicini nei tempi, mettere in contatto, a confronto, far dialogare allo stesso istante pensatori come Pitagora e Marx o come Eraclito e Voltaire o come Trasimaco e Nietzsche, seguendo le “loro” linee di pensiero.

L’idea degli autori di rileggere tutta la storia contribuendo ad una ricerca di base che allo stesso tempo riprenda la tradizione per tradurla (ma anche per tradirla, perché no!?) è utile di sicuro alla storia del pensiero politico – filosofico contemporaneo. Ogni ricerca di base che si prenda in carico tutta la storia è sempre necessaria. Penso anche a quei autori che in passato, lavorando fortuitamente insieme o da soli, si sono adoperati  rileggendo tutta la storia del pensiero e poi hanno preso posizione sul presente (contro il presente). Mi viene in mente l’idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer) ma anche il romanticismo tedesco (Goethe, Schiller, Schlegel, Novalis), al lavoro di Koyéve, Koyré (l’incerto, lo scomparso, il ritrovato), Hyppolite, al gruppo dei ricercatori che ruotava in Italia intorno ai quaderni piacentini, oppure al gruppo americano di Harry Braverman e compagnia bella, gli esempi sono molti. Pensiamo solo a cosa c’era dietro al lavoro di Althusser, al lavoro di Foucault eccetera. Credo che senza un gruppo di ricercatori che si dedicano a questo tipo di lavoro sia difficile prendere posizione sul presente. La ricerca di base “sull’effetto di sdoppiamento” nel libro “Filosofi di frontiera” e, ancor di più in “Pitagora, Marx e i filosofi rossi” va in questa direzione, anche se in alcuni tratti, non per colpa loro ma a mio modesto parere per l’idealismo contenuntistico impresso da Lukacs, tende al meccanicismo, al finalismo, alla teleologia. Ma l’azzardo, il rischio, è stato ben calcolato.

Insieme a questo lavoro, anche per dare un’idea più completa a chi si occupa di storia dei sistemi di pensiero, sarebbe utile riprendere in mano concetti quali discontinuità, rottura, dissidio (per dirla con Lyotard), ma anche termini quali archeologia dei saperi, genealogia dei poteri, dialettica di guerra (non solo in un’ottica di superamento), macchine desideranti, corpo senza organi, deteriolizzazione, extralocalizzazione (Bachtin), i quali meriterebbero un certo approfondimento. La stessa questione del doppio, affrontata ampiamente da Deleuze ma anche da Antonin Artaud, come continue aperture di campi di sapere, riassume una quantità di ricerca di base impressionante. Dietro, dentro, al di fuori di questi studi s’intravede il lavoro di tantissimi e tantissimi ricercatori, i quali per anni si sono applicati a smontare il teologo-fallo-centrismo.

Ora mi chiedo e vi chiedo, cosa ci facciamo oggi con questa tradizione? Cosa ci facciamo con queste formule, con queste aperture di campi di sapere non contemplati da tutta una tradizione di autori che si muovono nel campo del materialismo storico e dialettico?

Forse potrebbe essere utile cominciare a chiedersi per esempio: cosa a che fare il “doppio” di cui parla Deleuze con la produzione in serie? Non possiamo disconoscere il fatto che se il pezzo “n” che esce dalla catena di montaggio non è la riproduzione dello Stesso, ma una “ripetizione del differente”, se il medesimo è intaccato dall’altro, sin dall’inizio, (se vogliamo seguire la traccia dell’eterno ritorno di Nietzsche, in un’ottica rossa più che nera), allora la crisi, la rottura, la discontinuità, non è un accidente tipico del capitalismo. La crisi è il modo di presentarsi della serie. Non c’è serie senza crisi, e viceversa. E poiché non c’è l’uno senza l’altro, vuol dire l’uno, l’altro e la crisi formano una serie, fanno sistema. Dell’altro qualcosa sfugge sempre: questa è la crisi (e siamo fortunati). La formula andrebbe applicata anche al debito pubblico e alla finanza. Da quando lo Stato non può più andare a bussare alla zecca (pressappoco dai primi anni 80), e, come un privato, deve elemosinare moneta presso le banche, pagando il pizzo, il tema della serialità nella produzione della moneta sta diventando ridicolo. Considerando  soprattutto il fatto che la produttività nella produzione di moneta sta toccando il record di una quasi totale automatizzazione (si pensi al bitcoin). Sarebbe bello vedere il tema dell’Euro alla luce delle svolte radicali attuate all’inizio degli anni Ottanta. In molti pensano che sia esistita un’età dell’oro pre-euro alla quale si possa ritornare. Ma la espropriazione del potere di battere moneta inizia molto prima dell’euro. Se applichiamo la formula di Deleuze al debito pubblico, alla serie di titoli di stato che vengono stampati e immessi sul mercato, al meccanismo di raddoppiamento dell’altro, di riproduzione del medesimo che è sempre contemporaneamente riproduzione dell’altro e della crisi, anche qui l’idea che la crisi sia anche un effetto della finanziarizzazione non è sostenibile. Negli scacchi, il valore di un pezzo dipende sempre da come sono disposti gli altri pezzi sulla scacchiera. E un pedone può tenere sotto scacco un re tanto quanto una regina. Il valore deriva dal fuori. Ciò che valgo viene anche dall’esterno. Ciò che sono è intaccato dall’altro. La finanza si inserisce in questa fessura. Non appena lo Stato esiste, esiste lo stato finanziario. Non c’è possibilità di esistenza dello Stato senza finanza. La finanza è il segno della frattura tra lo stato e il suo altro, tra lo stato e se stesso, tra lo stato e il suo fuori. Stato-fuori-finanza sono una serie. Come gli stessi autori Burgio, Leoni e Sidoli ci indicano, nella loro ricerca di base sull’effetto di sdoppiamento, c’è finanza e finanza, c’è stato e stato, c’è politica e politica, c’è filosofia e filosofia. E il fatto che lo Stato debba presentare garanzie alle banche sulla sua solvibilità, alla stessa stregua del privato, la dice lunga sulla confusione che c’è a proposito di stato, di finanza e di debito. Rimane comunque attuale nello studio degli autori la lezione del marxismo. C’è sempre differenza di classe, c’è finanza e finanza, c’è stato e stato, c’è persino un contro-stato dentro lo stato, c’è sempre nello stato un altro stato che lavora per noi contro di noi (la linea meticcia per esempio), come hanno mostrato gli autori nel loro ottimo studio.

Violi Filippo

Ancora sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento.

 

 

Una richiesta del compagno Francesco Maringiò sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento e la nostra risposta.

Come particolare riassunto rispetto alla teoria dell’effetto di sdoppiamento, proponiamo in breve uno scritto del 2009 “Le sorprese della storia” e una parte della nostra prefazione al libro “Ratzinger o fra Dolcino?”, 2012, editrice Aurora.

  1. Sidoli, M. Leoni, D. Burgio

Buona lettura.

 

Un riassunto alla teoria dell’effetto di sdoppiamento.

Cercando di analizzare la tematica dei rapporti di forza in campo politico-sociale, mi sono imbattuto in alcune “sorprese” che entrano in contrasto con la concezione ortodossa e tradizionale del materialismo storico, del marxismo e della “ filosofia della prassi” (Gramsci).

Prima sorpresa. In un lungo periodo, dal 9000 a.C. e fino al 3900 a.C. (epoca neolitica e calcolitica), sono spesso coesistite nello stesso periodo, nella medesima area geopolitica e a parità di sviluppo qualitativo delle forze produttive, due diverse forme di rapporti sociali di produzione/distribuzione e di potere: quella protoclassista, fondata sull’appropriazione da parte di una minoranza di uomini del surplus e dei mezzi di produzione, e quella collettivistica, basata invece sull’appropriazione collettiva ed egualitaria delle forze produttive e della ricchezza prodotta in molte culture e civiltà del periodo neolitico/calcolitico.

Due opposte tendenze e “linee” socioproduttive, la “linea rossa” collettivistica e la “linea nera” protoclassista, sono convissute negli stessi archi temporali e nelle medesime zone geopolitiche per circa cinque millenni all’interno dell’area eurasiatica, ma anche in Africa, America, Corea, Giappone, ecc.

Ne deriva che lo sviluppo dell’agricoltura, allevamento ed artigianato, tipico del periodo neolitico, e la conseguente produzione di un surplus costante ed accumulabile non hanno portato inevitabilmente al sorgere di società con al loro interno delle classi sfruttatrici e degli apparati statali, come pensava Engels nel 1878-1884 (in modo corretto, visto l’insieme di dati empirici allora a sua disposizione), mentre hanno determinato l’emergere sia di un campo di potenzialità/alternative, a disposizione della pratica complessiva del genere umano, che di una sorta di “effetto di sdoppiamento” nei rapporti sociali di produzione e di distribuzione, via via riprodottisi in quel lungo e plurimillenario periodo, per cui poterono esistere e coesistere fianco a fianco sia rapporti di produzione collettivistici che classisti durante il periodo in esame.

Seconda sorpresa. Nella fase neolitica e calcolitica, le civiltà più avanzate dal punto di vista tecnologico e dello sviluppo qualitativo delle forze produttive e sociali appartenevano alla “linea rossa”, dalla città di Gerico (8400 a.C.) fino agli Ubaid (5000-3900 a.C.): eppure spesso esse vennero soppiantate da invasori nomadi molto più arretrati dal punto di vista economico, ma più potenti invece sul piano militare e tecnologico-militare.

La pratica politica, la sfera politica ed i rapporti di forza politici (e politico-militari) tra società diverse svolsero frequentemente un ruolo decisivo nel determinare il successo/insuccesso nella riproduzione delle due “linee” socioproduttive, sempre in base all’effetto di sdoppiamento, formatosi in conseguenza del processo di produzione di un surplus costante ed accumulabile da parte del lavoro collettivo impiegato nelle attività agricole.

Terza sorpresa. Più volte Marx rilevò che sia nel modo di produzione asiatico che in quello feudale assunse costantemente un ruolo importante la proprietà collettiva del suolo, oltre che il lavoro sociale nella riproduzione delle condizioni della produzione (irrigazione, strade, ecc.) ed il lavoro collettivo nella stessa attività agricola, seppure in proporzioni diverse secondo le situazioni storiche concrete.

Quindi, anche dopo il 3900 a.C. e dopo la fine del periodo neolitico/calcolitico, la “linea rossa” dei rapporti di produzione collettivistici ha giocato una funzione rilevante (seppur subordinata) all’interno di molte formazioni economico-sociali classiste, dimostrando nei fatti la riproduzione e resistenza di quell’effetto di sdoppiamento sopra citato.

Non a caso. Anche dopo il 3900 a.C., la “linea rossa” trovò dei punti d’appoggio materiali e concreti su cui appoggiare per riprodursi sia realmente, anche se molto spesso in modo deformato e parziale, che a livello potenziale poiché:

  • il livello di sviluppo delle forze produttive sociali, all’interno delle società classiste, non cadde mai sotto la soglia già raggiunta durante il periodo neolitico-calcolitico e non si deteriorò fino al punto di creare un recupero generalizzato della raccolta di cibo-caccia tipica dell’era paleolitica, con la sua correlata assenza di processi di produzione-accumulazione continua del surplus.
  • la produzione ininterrotta di surplus rimaneva utilizzabile anche per scopi collettivi, almeno a livello potenziale.
  • poteva essere utilizzato sia per fini cooperativi che per scopi di profitto privato il lavoro universale, termine con cui s’intende «qualunque lavoro scientifico, qualunque scoperta o invenzione. Esso dipende in parte dalla cooperazione tra i vivi e in parte dall’impiego del lavoro dei morti» (K. Marx, Il Capitale, Libro III, Cap. V, par. 4).
  • il ”bene immateriale della conoscenza” (E. Grazzini, 2008), anche in campo scientifico e tecnologico, può essere sempre utilizzato dagli esseri umani per fini cooperativi e senza brevetti di sorta, può essere riprodotto e replicato con relativa facilità dai non-inventori in seguito all’uso, è un bene facilmente (anche se non inevitabilmente) condivisibile: può diventare un bene privato, ma anche e più facilmente un bene pubblico.
  • la terra continuò ad essere il “grande laboratorio” (Marx, Grundrisse) che forniva al genere umano sia “i mezzi di lavoro” che il “materiale di lavoro”; arsenale sempre suscettibile, almeno a livello potenziale, di essere destinato a processi di appropriazione collettiva da parte del genere umano, mentre considerazioni analoghe possono essere effettuate anche per l’acqua e le opere d’irrigazione, partendo dai sumeri e dai famosi giardini pensili di Babilonia.
  • una parte del suolo e dell’acqua continuò ad essere realmente proprietà collettiva, “proprietà tribale o comunitaria” (Marx, Grundrisse), anche dopo il 3700 a.C. e in larghe sezioni del pianeta.
  • anche altri oggetti del lavoro umano, come i metalli preziosi, le materie prime (rame, ferro, ecc.) e le diverse fonti energetiche (legname, carbone, idrocarburi, uranio, ecc.) hanno potuto essere appropriati realmente dal processo lavorativo umano sotto modalità di lavoro cooperativo e con una proprietà collettiva, spesso statale, sempre durante il periodo post-calcolitico.
  • anche dopo il 3900 a.C., si riprodusse una “comunanza del lavoro” (Marx, Grundrisse) e una cooperazione lavorativa nei processi di riproduzione delle “condizioni comuni della produzione” (sempre Marx, Grundrisse): “sistemi di irrigazione”, “mezzi di comunicazione” (Marx, Grundrisse) ed opere di dissodamento del suolo.
  • anche dopo il 3900 a.C., almeno una parte variabile del suolo venne molto spesso coltivata in modo cooperativo dai produttori rurali, in una concreta “comunanza lavorativa” che divenne un “vero e proprio sistema” (ancora Marx, sempre nei Grundrisse) in larga parte del pianeta, ivi compresa l’Europa.
  • la manifattura prima, la grande industria molto in seguito divennero delle esperienze diffuse di stretta cooperazione nel processo produttivo proprio dopo il 3900 a.C., partendo dalla prima fase della società sumera: mezzi di produzione sociali suscettibili, sia potenzialmente che realmente, di processi di appropriazione collettiva in grado di assorbire il loro prodotto e surplus sociale.
  • alcune sezioni e frazioni dei produttori diretti sfruttati continuarono ad essere dei convinti sostenitori della “linea rossa”: uomini/donne in lotta più o meno aperta contro il sistema di sfruttamento classista, le disuguaglianze socioeconomiche e la miseria, anche se spesso utilizzando ideologie e relazioni organizzative di matrice religiosa.

Quarta sorpresa. In una lettera del 1881 a Vera Zasulich, Marx notò la coesistenza conflittuale tra “linea rossa” e “linea nera” nella formazione economico-sociale feudale russa e nella comune rurale russa, sottolineando tra l’altro come all’interno di quest’ultima vi fosse una sorta di “dualismo intrinseco” che ammetteva e consentiva la riproduzione di un variegato campo di potenzialità storiche e di due soluzioni (Marx, 1881): “o il suo elemento” (della comune rurale russa) “di proprietà privata prevale il suo elemento collettivo o questo si impone su quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili”.

In altri termini, Marx aveva notato già nell’inverno del 1881 una dualità all’interno di una determinata formazione economico-sociale, la Russia del tempo; l’emergere sincronico di due “linee” e tendenze socioproduttive alternative tra loro, ma che coesistevano in modo conflittuale, ed il non-determinismo nell’esito finale della loro coesistenza (poco) pacifica.

Si tratta della prima formulazione dell’effetto di sdoppiamento, effettuata tra l’altro senza poter conoscere i dati empirici emersi nell’ultimo secolo rispetto al periodo neolitico/calcolitico, a partire dalla sua grande estensione temporale.

Quinta sorpresa. Dopo il 1770-1810 si è affermato progressivamente il capitalismo (prima industriale, poi monopolistico-finanziario) su scala mondiale e fino ai nostri giorni: ma allo stesso tempo, oltre ai fenomeni della cooperazione produttiva e del capitalismo di stato, dopo il 1917 e l’Ottobre Rosso il mondo inaspettatamente si “sdoppiò” e si divise essenzialmente tra due sistemi socioproduttivi e politici alternativi, capitalismo (monopolistico di Stato) e socialismo (più o meno deformato).

Addirittura si possono trovare alcune nazioni che si sono “sdoppiate” concretamente in campo socioproduttivo e politico, nelle relazioni sociali di produzione e distribuzione:

  • Germania, dal 1945 al 1989.
  • Corea, dal 1945 fino ai nostri giorni
  • Vietnam, dal 1954 al 1975
  • Cina, dal 1949 fino ai nostri giorni (si pensi alla dinamica socioproduttiva assunta dalle aree cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan, dal 1949 fino ad oggi).

Ancora una volta si è assistito ad una riproduzione specifica di quell’effetto di sdoppiamento sorto dopo il 9000 a.C., con la produzione continua di un surplus produttivo accumulabile (grazie all’agricoltura/allevamento/artigianato in una prima fase, ed alla manifattura/grande industria in seguito) per la prima volta nel processo di sviluppo del genere umano; ancora una volta il controllo della sfera politica e degli apparati statali è stato ed è tuttora decisivo nel determinare l’esito del confronto/scontro tra le due “linee”, volta per volta (si pensi solo all’URSS/Russia nel periodo 1989-1992).

In estrema sintesi, dopo il 9000 a.C. e l’effetto di sdoppiamento, non sussiste alcuna forma di determinismo storico nel processo di sviluppo del genere umano, ma viceversa un campo di potenzialità socioproduttive alternative tra loro.

Dopo il 9000 a.C. e l’effetto di sdoppiamento, inoltre, il primato nella dinamica del genere umano appartenne alla sfera politica e non a quella economica: tra i due litiganti (linea rossa e linea nera) il “terzo” (politico) gode.

 

Dalla prefazione al libro “Ratzinger o fra Dolcino?” (2012).

 

Secondo la concezione tradizionale ed “ortodossa” del materialismo storico rispetto alla storia universale, quest’ultima può essere paragonata ad una grande e lunga strada a senso unico, anche se composta da alcune diramazioni secondarie che in seguito si ricollegano al sentiero principale, oltre che da una serie di vicoli ciechi che vengono abbandonati, più o meno rapidamente.

In questa prospettiva storica, la “grande strada” è formata nella sua essenza da vari segmenti interconnessi, seppur ben distinti tra loro (comunismo primitivo/comunitarismo del paleolitico, nella preistoria della nostra specie; fase del modo di produzione asiatico; periodo schiavistico; fase feudale; epoca capitalistica e, infine, socialismo/comunismo), ma essa era ed è considerata tuttora un tracciato  predeterminato, almeno in ultima istanza: qualunque “viaggiatore” e società potevano/possono anche prendere delle “scorciatoie” ma alla fine, volenti o nolenti, erano /sono costretti a rientrare nel sentiero di marcia principale e nelle sue variegate, ma obbligate tappe di percorso.

In base ai dati storici allora a conoscenza di Marx ed Engels, fino al 1883-95, questa era probabilmente l’unica visione complessiva del processo di sviluppo della storia universale che poteva essere (genialmente) elaborata a quel tempo ma, proprio dopo il 1883-95, tutta una serie di nuove scoperte ed avvenimenti storici portano a preferire una diversa concezione generale della dinamica del genere umano.

Immaginiamoci una “grande strada” che, dopo un lunghissimo segmento (fase paleolitica e mesolitica) di scorrimento, si trovi di fronte improvvisamente ad un “grande bivio” e ad una gigantesca biforcazione: da tale bivio partono e si diramano due diverse ed alternative strade, che conducono a mete assai dissimili, senza alcun obbligo a priori per i “viaggiatori” (a causa del Fato/forze produttive) di scegliere l’una o l’altra.

Ma non basta. Non solo non vi è più una sola strada obbligata di percorso, ma – a determinate condizioni e pagando determinati “pedaggi”- qualunque  “viaggiatore” e qualunque società umana possono trasferirsi nell’altro tracciato, alternativo a quello selezionato in precedenza, cambiando pertanto radicalmente le proprie condizioni materiali di “viaggio” nell’autobus che stanno utilizzando con altri passeggeri: la scelta iniziale di partenza “al bivio”, giusta o sbagliata, risulta sempre reversibile in tutte e due le direzioni di marcia, in meglio o anche in peggio.

Fuor di metafora, la concezione che proponiamo ritiene che subito dopo il 9000 a.C., ben undici millenni fa nell’Eurasia del periodo neolitico, con la scoperta dell’agricoltura, allevamento e artigianato specializzato, si sia creato e riprodotto costantemente fino ai nostri giorni un “grande bivio”, da cui si sono diramate due “strade”, due linee e due tendenze socioproduttive di matrice alternativa, l’una di tipo comunitario-collettivistico e l’altra di natura classista, fondata invece sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Pertanto dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, nell’era del surplus, non sussiste alcun determinismo storico, ma altresì un campo di potenzialità oggettive (sviluppo delle forze produttive e creazione/riproduzione ininterrotta di un plusprodotto accumulabile… l’era del surplus) su cui si possono innestare, e si innestano poi concretamente e realmente delle prassi sociali contrapposte, volte a condividere in modo fraterno mezzi di produzione/ricchezza/surplus o, viceversa, a fare in modo che essi vadano sotto il controllo e possesso di una minoranza del genere umano, in entrambi i casi con immediate ricadute anche sulla sfera politico-sociale delle diverse società.

Detto in altri termini, a parità di sviluppo qualitativo delle forze produttive e già formatisi elementi cardine quali agricoltura/allevamento/surplus costante, fin dal 9000 a.C. per arrivare ai nostri giorni era possibile che si sviluppasse sia l’egemonia di rapporti di produzione collettivistici, che quella alternativa di matrice classista: un effetto di sdoppiamento nel quale nulla era/è tuttora scritto a priori, nei libri mastri della Storia.

Situazione di “sdoppiamento”, potenziale/reale, valida nel 9000 avanti Cristo ma anche nel 2010 della nostra era, valida nell’8999 a.C., ma anche nel prossimo anno e nei prossimi decenni: uno stato di sdoppiamento ed un’alternativa radicale nei rapporti di produzione possibili e praticabili sul piano storico, che da undici millenni esclude a priori qualunque forma di determinismo storico e di metafisica basata sul “progresso inevitabile” del genere umano.

Certo, qualunque regressione ad uno stadio paleolitico basato sulla caccia/raccolta di cibo era ed è tuttora impedita proprio da quel processo di sviluppo qualitativo delle forze produttive, da quell’“era del surplus” costante/accumulabile che determina il sorgere e la riproduzione ininterrotta dell’effetto di sdoppiamento. Ma a parte questo “dettaglio” non trascurabile, negli ultimi undici millenni il corso della storia universale è diventato decisamente multilineare, composto com’è dal “bivio” e dalle due “strade” alternative in campo socioproduttivo e politico, la cui logica ed essenza più profonda risultano essere l’antideterminismo e l’emersione costante di un campo di potenzialità alternative, nel quale la pratica collettiva degli uomini del passato, presente (noi stessi…) e del futuro assume un ruolo decisivo, sotto tutti gli aspetti.

Ancora sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento: la tecnofobia di sinistra.

 

Lettera del compagno Enrico Galavotti.

 

Marx è arrivato tardissimo a capire che la comune agricola primitiva o pre-borghese poteva essere un’alternativa al capitalismo e la base del socialismo democratico. La corrispondenza con la Zasulic l’attesta, ma non l’attestano gli studi fatti sul pre-capitalismo (a motivo del fatto ch’egli non ha mai cercato un rapporto con la società e la cultura agricola: al massimo la identificava con la rendita feudale).

Infatti in quella suddetta corrispondenza sostiene che senza una contestuale rivoluzione socialista in Europa occidentale, la comune agricola non avrebbe potuto farcela nei confronti del capitalismo, a lungo andare. Engels ha giustificato questo ritardo ermeneutico dicendo che gli studi sul pre-capitalismo erano molto scarsi al loro tempo. In realtà sin dalla relazione di Las Casas contro gli spagnoli abbiamo cominciato a studiare le popolazioni non europee, non feudali, non borghesi, e non abbiamo mai smesso, anche se da allora le abbiamo sterminate quasi tutte, o inglobate nel nostro sistema dominante.

Per me i classici del marx-leninismo non hanno capito che la comune agricola poteva costituire un’alternativa non solo al capitalismo ma anche al socialismo industrializzato. Lenin ha semplicemente pensato di favorire al massimo i contadini per poter realizzare più velocemente la rivoluzione industriale. Certo se lui non fosse morto così presto, i costi di questa industrializzazione non sarebbero stati fatti pagare interamente alla classe rurale, come si fece con Stalin e come si sarebbe fatto anche con Trotzsky.

“L’effetto di sdoppiamento” di cui parlate lo capì di più Lenin che Marx, proprio perché Lenin rimase un politico rivoluzionario sino alla fine dei suoi giorni e non rinunciò mai a un rapporto coi contadini. Marx invece diede il meglio di sé sino al 1848-50, poi – divenendo scienziato economista – si lasciò determinare dalla categoria hegeliana della “necessità”.

Sinceramente non so se sia possibile realizzare, sotto il capitalismo, un’alternativa sociale senza una contestuale rivoluzione politica. Penso anzi che Marx ed Engels avessero pienamente ragione quando dicevano che il socialismo utopistico peccava di un’ingenuità imperdonabile. Tuttavia, in attesa che avvenga la fatidica rivoluzione, sarebbe necessario iniziare a creare qualcosa di alternativo, proprio come facevano i socialisti utopisti. Deve però essere qualcosa non di industriale, bensì di rurale, perché dai tempi di Marx ed Engels il problema ambientale è diventato più importante di quello economico. Non serve a niente lottare per il diritto al lavoro e neppure per una proprietà sociale dei mezzi produttivi, se non si ripensano in toto i criteri con cui si produce ricchezza.

A tale proposito sono sempre più convinto che i modelli che possiamo prendere come esempi da imitare siano quelli delle ultime comunità primitive sparse qua e là nel nostro pianeta. Questo significa che l’approccio che dobbiamo avere nei confronti nella transizione deve per forza essere di tipo antropologico, con uno sguardo costante rivolto alle esperienze pre-schiavistiche. E su questo, purtroppo, il socialismo scientifico è ancora molto indietro, poiché non vede un’alternativa al sistema se non in rapporto al sistema stesso.

 

A presto

 

Enrico Galavotti

 

 

 

 

 

 

John Zerzan e il rischio della tecnofobia di sinistra.

 

 

Prendiamo spunto dall’interessante intervento del preparato e colto compagno Enrico Galavotti per indicare il pericolo, solo latente nelle tesi esposte da quest’ultimo, del primitivismo e della tecnofobia di sinistra, di matrice “antagonista”.

Secondo tali teorie, il capitalismo e il capitalismo di stato contemporaneo equivalgono al processo continuo di sviluppo della produzione, alla riproduzione allargata del processo produttivo, all’aumento continuo della produzione di mezzi di produzione e di mezzi di consumo.

Il “demonio” capitalista si incarna essenzialmente non nella proprietà privata dei mezzi e delle condizioni della produzione, il “diavolo” capitalista (di stato) non si incarna nella “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti” ecc., ma invece, si rivela attraverso l’aumento della produzione e…  l’orrendo, “antisocialista” aumento dei consumi, nel consumismo e nell’aumento dei consumi, nello sviluppo della tecnologia, ecc.

“Ma non è possibile, potrebbero obiettare larga parte dei lettori. Nessuno può essere così confuso da identificare il capitalismo con lo sviluppo della produzione, della produzione di generi di consumo, o ancora peggio nello sviluppo di scienza e tecnologia”.

Invece esistono proprio tali “pensatori”, anche se può sembrare incredibile.

Alla loro estrema sinistra, il teorico “primitivista” John Zerzan. A suo parere, per assicurare uguaglianza e solidarietà tra gli uomini bisogna necessariamente tornare al… paleolitico e ad un modo di produzione basato solo su caccia/pesca e raccolta di cibo, abbandonando agricoltura, allevamento e proto urbanesimo, assieme ad altri “piccoli” elementi “alienanti” quali le pratiche artistiche, il linguaggio articolato, il senso del tempo e la progettualità.[1]

Grazie a tale processo di “eliminazione”, avremmo sicuramente una società collettivistica e nella quale sarebbe impossibile a priori la produzione costante di surplus accumulabile, il derivato effetto di sdoppiamento ed il possibile sviluppo di società protoclassiste/classiste, ecc.

Risulta inoltre addirittura possibile scavalcare “a sinistra” il provocatorio Zerzan, chiedendo invece una società nella quale, a differenza degli Homo Habilis (di 2.200.000 anni fa) ancora difesi in parte dal teorico primitivista, venga eliminata anche la capacità di produrre strumenti attraverso altri strumenti (i primi chopper) e la tecnologia umana, assicurandosi ancora di più contro il “progresso” e l’aumento di beni di consumo: l’iperzerzanismo da questo momento diventa una nuova teoria, che vive/lotta in mezzo a noi.[2]

Come dite? Che non ci sarebbe differenza tra questo collettivismo “umano” e a quello degli scimpanzé?

Certo, avete ragione, ma non si può sicuramente confrontare questo insignificante problemino “di regresso” con il vantaggio di aver avuto finalmente ragione, una volta per tutte, del “capitalismo di stato cinese”, ed ancora prima di quello sovietico… niente accumulazione, viva Zerzan ed abbasso la Cina Popolare!!!

Viva la “fattoria degli animali”, non a caso  ideata da quel G. Orwell che nel 1948/49 faceva opera di spionaggio (si, il “Piccolo fratello”) sugli intellettuali comunisti per conto dei servizi segreti britannici, secondo le (tardive) rivelazioni fornite anche dal Corriere della Sera del 12 luglio del 1996, e non a caso ignorate quasi sempre dagli intellettuali “antagonisti” del mondo occidentale.

Al “centro-sinistra” dello schieramento “antisviluppista” appartiene invece Amedeo Bordiga.

Il brillante ed acutissimo teorico della desiderabilità della vittoria hitleriana nella seconda guerra mondiale, perché (“tanto peggio, tanto meglio”) essa avrebbe permesso il crollo simultaneo del più forte anello della catena imperialistica del tempo, il capitalismo colonialista inglese (leggere la biografia di Bordiga scritta da Livorsi, alle pp. 372-375), riuscì anche ad elaborare il primo schema della sottoriproduzione e della decrescita a nostra conoscenza.

Ancora nel 1952, con un mondo (eccettuato gli Stati Uniti) di regola ancora profondamente impoverito dalla tremenda seconda guerra mondiale, Bordiga infatti sostenne che una futura società socialista (il socialismo della miseria, ma questo è un altro discorso…) avrebbe dovuto avere al suo centro i seguenti punti programmatici:

  1. a) “Disinvestimento dei capitali”, ossia destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo;
  2. b) “Elevamento dei costi di produzione” per poter dare, fino a che vi è salario mercato e moneta, più alte paghe per meno tempo di lavoro;
  3. c) “Drastica riduzione della giornata di lavoro” almeno alla metà delle ore attuali, assorbendo disoccupazione e attività antisociali;
  4. d) Ridotto volume della produzione con un paio di “sottoproduzione” che la concentri nei campi più necessari, “controllo autoritario dei consumi”, combattendo la moda pubblicitaria di quelli inutili, dannosi e voluttuari, e abolendo di forza le attività volte alla propaganda di una psicologia contro-rivoluzionaria;
  5. e) Rapida “rottura dei limiti di azienda” con trasferimento di autorità non del personale ma delle materie di lavoro, andando verso il nuovo piano di consumo;
  6. f) “Rapida abolizione della previdenza” a tipo mercantile per sostituirla con l’alimentazione sociale dei non lavoratori fino ad un minimo iniziale;
  7. g) “Arresto delle costruzioni” di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città ed anche alle piccole, come avvio della distribuzione uniforme della popolazione sulla campagna. Riduzione dell’ingorgo, velocità e volume del traffico vietando quello inutile;
  8. h) “Decisa lotta” con l’abolizione di carriere e titoli “contro la specializzazione” professionale e la divisione sociale del lavoro;
  9. i) Ovvie misure immediate, più vicine a quelle politiche, per sottoporre allo Stato comunista la scuola, la stampa, tutti i mezzi di diffusione, di informazione, e la rete dello spettacolo e del divertimento”.[3]

Quindi per Bordiga il socialismo equivale alla sottoproduzione di mezzi di consumo e di produzione.

Socialismo = decrescita della produzione, a partire dai generi di consumo “voluttuosi” e non-indispensabili, con il “controllo autoritario dei consumi”.

Socialismo = miseria generalizzata e per tutti, austerità “pre-berlingueriana” o permanente.

Alla destra del fronte antisviluppista, Latouche ed i  suoi seguaci: per i quali risulta indifferente la questione della proprietà privata dei mezzi di produzione, mentre diventa invece centrale (e non impraticabile in termini assoluti, almeno a loro giudizio) la possibilità di ridurre gradualmente i livelli di consumo nelle “opulente” società occidentali e capitalistiche.

In ogni caso, se si adotta questo parametro principale al fine di definire l’essenza del modo di produzione capitalistico, se viene impiegato tale criterio principale per il processo di finalizzazione della formazione economico-sociale capitalista e del capitalismo di stato, ne discendono alcune  conseguenze inevitabili:

  • il miglior socialismo possibile risulta quello “iper-Zerzan”, in termini di capacità di ridurre a zero le possibilità di riaprire il tanto demonizzato processo di accumulazione di beni di consumo e di mezzi materiali: nel “socialismo degli scimpanzé” mancano anche le mani necessarie per produrre strumenti di produzione e, a catena, gli odiati generi di consumo, tanto che la “decrescita” diventa permanente ed assicurata per sempre…;
  • il modello di “contro-sviluppo” paleolitico, elaborato da Zerzan, si conquista in ogni caso un onorevole ed indiscussa seconda posizione: con solo caccia/pesca e raccolta di oggetti naturali, tra l’altro, la popolazione umana non potrebbe che calare dai sette miliardi di unità attuali a circa cento milioni, eliminando sia l’inquinamento che la sovrappopolazione (e gli altri 6.900.000.000 di esseri umani? Piccoli prezzi da pagare, sull’altare della decrescita…);
  • la Cina contemporanea diventa realmente il capitalismo di stato “numero uno”, visto che il potere d’acquisto reale ed i consumi reali degli operai, impiegati  e contadini cinesi stanno fortunatamente aumentando costantemente ed a notevole velocità fin dal 1977/78, dato che (orrore!) gli operai cinesi hanno già quasi tutti il computer ed il telefonino e che (doppio orrore!) molti di loro hanno già acquistato una loro autovettura…;
  • ma soprattutto il reale, concreto capitalismo di stato (“socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti”, ecc.) delle metropoli imperialiste invece diventa un “capitalismo” solo a metà, e quindi assai preferibile al (presunto) “capitalismo di stato” cinese.

Per quale ragione?

Perché fin dal 1978 (negli USA) e dalla fine degli anni Ottanta nella altre sue sezioni nazionali (reali), il capitalismo di stato ha realmente attuato con successo una reale decrescita: una diminuzione reale del potere d’acquisto  reale degli operai e dei lavoratori salariati occidentali, una decrescita reale dei loro salari reali, al netto dell’inflazione.

“Ma sono interessati solo i salariati!”. D’accordo, ma essi almeno sono circa l’80% della popolazione occidentale: niente male, quindi, come risultato “positivo” di decrescita…

“Ma la decrescita è un processo di ben più ampio respiro e portata!”. Non preoccupatevi, cari sostenitori della decrescita: se il reale capitalismo di stato continuerà (purtroppo) a non incontrare una resistenza del tipo “Tunisia-2011”, la decrescita del potere d’acquisto reale degli operai e salariati occidentali diventerà sicuramente molto più veloce, come del resto è già avvenuto per i proletari greci nel 2010/2011: pane e cipolle per (quasi) tutti, e tanta nuova felicità anticomunista sparsa per il mondo occidentale da “Babbo Natale-Capitale”.

“Ma manca una prospettiva generale!”.

Anche su ciò non preoccupatevi!

A questi livelli (crescenti) di contraddizioni, il modo di produzione capitalistico-di stato (reale, non presunto) nel prossimo quadriennio attuerà una decrescita (alias depressione anni Trenta) davvero generale, davvero completa, davvero totalizzante! Sempre più felicità anticonsumista in giro per il mondo, e questa volta anche per sezioni importanti di molte borghesie nazionali, a partire da quella statunitense…

Una volta si diceva “liberi tutti”, tra poco esulteremo per lo slogan “poveri (quasi) tutti”, meno che nell’odiato (e presunto) capitalismo di stato cinese.

Conseguenze assurde? Certo, ma logiche ed inevitabili partendo da premesse assurde: non tanto la teoria della decrescita, errata a nostro avviso ma contraddistinta da alcuni elementi di positività, ma invece a causa dell’assurda pretesa di dare/negare la “patente di socialismo” in base alla presenza/assenza della decrescita.

L’operazione di definire il “socialismo della crescita” e del benessere crescente come capitalismo di stato non si basa infatti sull’analisi dei rapporti di produzione e distribuzione, ma solo su un cosiddetto “ragionamento a monte”: visto che sussiste sicuramente la riproduzione allargata della produzione anche in Cina, e si ritiene (a torto) che il processo di riproduzione allargata sia tipico solo del modo di produzione capitalistico, ne deriva che la Cina contemporanea sia un  capitalismo di stato particolare.

Il piccolo errore del sillogismo risulta ovviamente la considerazione per cui il processo di riproduzione allargato sia tipica e caratteristica solo del modo di produzione capitalistico.

Non si riesce infatti a capire perché i “produttori associati” (Marx, Critica del programma di Gotha) non dovrebbe desiderare/ottenere un continuo aumento della disponibilità di generi di consumo, un incremento del resto pienamente possibile sul piano tecnico-produttivo (a meno di ritenere che solo il capitalismo possa sviluppare le forze produttive). Un aumento che risulta sicuramente desiderabile/auspicabile almeno dal 95% dei lavoratori del passato, presente e prossimo futuro, e pertanto non si riesce  a capire in base a quale “decreto divino” tale scelta di massa debba essere considerata “capitalista”, se non per esaltare i desideri soggettivi di una minoranza di intellettuali a parole (ma solo a parole) pronti all’austerità della decrescita, a rinunciare alle loro auto e case grandi/ben riscaldate, ecc.

Per quello che può valere, anche Marx (e Lenin) detestava il “comunismo rozzo” e ascetico, tanto che proprio nella sua splendida “Critica del programma di Gotha” (1875) rese ben chiaro che il processo di  accumulazione risultava fondamentale nella prima fase della società comunista (di regola denominata socialismo), anche e soprattutto per poter in seguito effettuare il salto di qualità nel comunismo sviluppato del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Tutto il contrario dell’ascetismo della decrescita…

 

 

Roberto Sidoli,

Massimo Leoni,

Daniele Burgio.

 

Fonti:

  • “John Zerzan e la confusione primitivista”, p. 4, ed. Kinesis
  • cit., p. 5, ed. Kinesis
  • Livorsi, “Amadeo Bordiga”, p. 448-449, Editori Riuniti

 

Una nuova discussione sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento.

 

Salve compagni,
per prima cosa desidero ringraziarvi per la puntuale risposta alle mi sollecitazioni critiche. Ho molto apprezzato la ricostruzione, seppur sicuramente schematica dovendo essere sviluppata in una sola e-mail, delle “fonti” (Marx, Lenin e Mao) del vostro “effetto sdoppiamento”. Innanzitutto condivido l’importanza che voi attribuite all’esigenza di interpretare nel modo più corretto possibile il mondo, nel quale come comunisti siamo chiamati ad agire per modificare lo stato di cose presenti. Sottoscrivo di conseguenza le vostre parole quando affermate che:“ben conoscere il mondo significa anche iniziare a trasformarlo”.
Qualche parola in più vorrei spenderla, se me lo concedete, sulle ricadute filosofiche e più strettamente politiche della vostra teoria e delle vostre riflessioni. In primo luogo ritengo corretto il valore da voi attribuito alla “sfera politica”, che “è diventata l’anello centrale dell’attività umana dopo il 9000 a.C.”, e di conseguenza “all’assunzione di una responsabilità diretta delle forze anticapitalistiche per il futuro del genere umano”. Nulla di più deleterio sarebbe tornare, dinnanzi alle difficoltà attuali, a forme organizzative bordighiste, le quali, dietro la maschera della purezza ideologica, giustifichino in realtà l’inerzia e il rifiuto di “far politica”. A quanto ho appena detto, ritengo però necessario legare anche l’opera che le “forze anticapitaliste” devono saper predisporre e sostenere al fine di costruire una soggettività autonoma delle classi subalterne, per strapparle allo stesso tempo sia all’influenza della classe dominante sia a quella dei vari populisti, che negli ultimi anni stanno incontrando così tanto successo. Relativamente a questo aspetto devo però constatare che, almeno tra le nostre fila, si perda troppo tempo a discutere di alleanze politiche (di certo non sociali), arrivando a giustificare anche le pratiche più errate e opportuniste. Per ragioni anagrafiche non ho potuto partecipare agli eventi che ci hanno ridotto all’inconsistenza politica, ma negli ultimi tempi non ho neanche visto un reale processo di autocritica(avevo pensato che il libro di Giacchè, Diliberto e Sorini potesse da questo punto di vista aprire uno spiraglio). Rispetto a queste precisazioni di carattere prettamente “organizzativo” mi pare che ben si colleghi la necessità, che voi giustamente indicate, “dell’acquisizione per via rivoluzionaria del controllo degli apparati statali, con forme pacifiche/violente a seconda delle condizioni storiche concrete”. Pensare di poter cambiare il mondo senza prendere il potere, come recitava il titolo di un famoso libro, denota un certo infantilismo, il quale sfortunatamente ancora fa breccia nel campo della “sinistra radicale”. Per quanto possa contare il mio personale parere ritengo molto corretta la critica di Losurdo contro i residui populistici e messianici, fornendo anche importanti strumenti analitici per sfatare le posizioni di certi autori ancora di moda come ad esempio Latouche, allo scopo di ristabilire una corretta interpretazione dell’opera di Marx. Mi trova concorde allo stesso modo la vostra critica al “determinismo storico, giustamente detestato da W. Benjamin e inteso soprattutto come “inevitabile vittoria delle forze del progresso”. Queste semplicistiche asserzioni, dopo l’inglorioso crollo dell’Unione Sovietica e lo scioglimento del PCI nel nostro paese, non credo possano più essere sostenute. Inoltre quella peculiare costruzione storicistica del marxismo inaugurata da Togliatti nel dopo guerra deve essere necessariamente rivista e in parte depurata dalle asserzioni più falsificabili. Solo in questo modo potremmo disinnescare talune critiche che cercano di ricollegarsi in qualche modo alle riflessioni di Karl Popper. Anche in questo caso si tratterebbe di riuscire ad ereditare i lasciti più alti della tradizione dei comunisti italiani criticandone allo stesso tempo i cedimenti e gli errori teorici. Ancora oggi vedo, soprattutto nella generazione dei miei genitori, un attaccamento fideistico a vecchie icone che si credono buone per tutte le stagioni!
A questo punto vi esporrei l’unica mia perplessità riguardo l’ultima parte delle vostre argomentazioni. Giustamente delegittimate l’economicismo “inteso come culto ingiustificato del livello di maturità delle forze produttive”, forse ciò che voi indicate è uno dei più attuali insegnamenti del Leninismo e della Rivoluzione Bolscevica nonché di quella Cinese. Il mio timore è che il combinato disposto tra l’importanza prioritaria attribuita all’azione e alla sfera politica e la vostra peculiare critica all’economicismo possa essere portatrice di un ipersoggettivismo astratto, o comunque scindersi nella nostra quotidiana azione dall’indicare in modo completo e consapevole le “contraddizioni oggettive” del capitalismo o le tappe intermedie, sulle quali l’azione di un’organizzazione comunista dovrebbe fondarsi. In conclusione, avendo preso giustamente atto che la mancata “rivoluzione in occidente” non sia da far derivare da “un’inesistente arretratezza e immaturità nel livello di sviluppo delle forze produttive all’interno del mondo occidentale”, ma piuttosto da una “costante presenza di un rapporto di forza politico (che comprenda al suo interno anche le capacità direzionali, strategiche e tattiche) sfavorevole alla classe operaia e alle masse popolari”, quali sarebbero le vostre indicazioni strategiche per poter riaprire le speranze di una possibile fuoriuscita dal capitalismo nei nostri paesi? Mi interessa la risposta a due questioni in particolare: è oggi per voi possibile la ricostruzione di un partito comunista che sappia uscire dall’anonimato e dal settarismo? Come è possibile oggi riaggiornare il nesso democrazia e socialismo, che ritengo essere il problema strategico fondamentale, senza ovviamente accettare premesse liberali?
Un caro saluto!
Fabio Scolari

La centralità dei rapporti di forza.

Caro Fabio, dalla tua acuta e chiara risposta notiamo che siamo sostanzialmente d’accordo su alcuni elementi e categorie insite nella teoria dell’effetto di sdoppiamento.
Per quanto riguarda invece la tua stimolante affermazione in base alla quale può emergere una sorta di “ipersoggettivismo astratto” dalle tesi da noi proposte, vogliamo subito sottolineare che siamo pienamente d’accordo che il rischio dell’ipersoggettivismo, specie se declinato concretamente come avventurismo volontaristico, costituisca un rischio molto serio proprio per i comunisti rivoluzionari e una temibile “vertigine” che li può trascinare in una serie di sconfitte disastrose, a volte trasformandoli addirittura in involontari ma “utili idioti” della borghesia e dell’imperialismo: anche l’esperienza politica italiana degli ultimi cinque decenni risulta ricca di lezioni, concretissime e inequivocabili, in tal senso e in tale direzione.
Il principale antidoto a tale grave pericolo politico viene ovviamente costituito dal processo scientifico di calcolo dei rapporti di forza interni e internazionali e dalla loro dinamica, collegato dialetticamente a una costante autocritica e a una praxis politico-sociale concreta, collettiva e seria in relazione al processo di sviluppo della lotta di classe: ossia la base politica e la condizione necessaria al fine di individuare, a catena, nemico principale e compito principale di fase.
Come tu ben sai Fabio, Lenin, anche nel maggio del 1918, aveva notato a ragion veduta che il giusto calcolo, la corretta e rigorosa valutazione dei rapporti di forza concreti rappresenta in modo costante e decisivo “il nucleo del marxismo e della tattica marxista” in campo politico e nel livello più elevato della lotta di classe (Lenin, maggio del 1918, “Sull’infantilismo di sinistra”).
Secondo il geniale rivoluzionario russo, in ogni caso e condizione storica il “nucleo” e l’elemento principale della strategia/tattica del marxismo è costituito dal processo di analisi e calcolo concreto dei reali rapporti di forza nazionali e internazionali, oltre che dalla previsione del loro processo di sviluppo: si tratta di un importante tesi teorico-politica elaborato fin dal 1902 da Lenin e che ha contribuito ad arricchire e sviluppare il marxismo creativo, non dogmatico e rivoluzionario.
Una tesi tanto rilevante e corretta che è stata anticipata, anche se non in forma organica e con alcuni seri limiti, da tutta una serie di grandi teorici della scienza politica mondiale, partendo dal cinese Sun-Tzu fino ad arrivare a Gramsci e Mao Zedong passando per pensatori geniali quali Kautilya, Aristotele, Machiavelli e Hegel, per citarne solo alcuni: come si è sottolineato nel libro “I rapporti di forza”, una delle matrici che li accomuna è costituita infatti dalla centralità attribuita da questi ultimi ai rapporti di forza e alla loro valutazione corretta, per e nella lotta politica, alla correlazione di potenza concreta esistente tra i diversi protagonisti politici – e i loro mandatari sociali – e al corretto processo di calcolo dell’equilibrio/squilibrio di forza sussistente in ogni scenario storico concreto.
Va comunque subito evidenziato come il fenomeno politico dell’ipersoggettivismo astratto e dell’incapacità di valutazione realistica dei concreti rapporti di forza, creatasi in un dato momento storico e in una determinata area geopolitica, non rappresenti certo una peculiarità propria solo dei comunisti estremisti e delle “teste calde”, più o meno infantili, che si riproducono carsicamente all’interno delle file rivoluzionarie: anzi anche in questo campo specifico il pericolo viene da un’altra fonte.
Sul piano storico tutta l’esperienza storica della socialdemocrazia, dopo l’agosto del 1914, è caratterizzata infatti anche da una sorta di “culto” ed errato calcolo sulla presunta onnipotenza politica, materiale, culturale e ideologica del capitale finanziario e della rete imperialistica mondiale. Ma anche nel movimento comunista si è spesso manifestata la tendenza politica a sopravvalutare ingiustamente la forza concreta del nemico di classe e a sottovalutare simultaneamente la potenza d’urto concreta delle soggettività rivoluzionarie, a partire dalle posizioni politiche espresse apertamente da dirigenti bolscevichi quali Zinoviev e Kamenev nel 1917 e ancora alla vigilia delle Rivoluzione d’Ottobre, quando la coppia in oggetto riteneva che un insurrezione operaia sarebbe stata condannata a un sicuro e disastroso insuccesso vista la schiacciante superiorità politico-materiale che, almeno a giudizio di Zinoviev e Kamenev godeva e vantava anche allora la borghesia russa e internazionale rispetto alla forze antagoniste rivoluzionarie.
In ogni caso proprio la storia diede un giudizio inappellabile su chi avesse ragione a tal proposito, tra Lenin da un lato e Zinoviev/Kamenev dall’altro.
Passando invece all’esame del vitale e possibile processo di costruzione ricostruzione di seri e influenti pertiti comunisti nel mondo occidentale, le nostre limitate capacità ed esperienze politiche ci costringono a limitarci a due soli punti in un breve abbozzo di risposta a tale questione, centrale e decisiva.
Innanzitutto bisogna imparare a fare tesoro, certo in modo creativo, senza trasposizioni meccaniche e avendo sempre presente i loro limiti e le loro contraddizioni dei successi e dell’esperienza concreta e positiva di lotta politico-sociale che sono emerse all’interno del movimento comunista che agisce all’interno delle metropoli imperialistiche e dei paesi capitalistici più avanzati: e a nostro avviso, attualmente e almeno da un paio di decenni la migliore “stella polare” in questo senso viene costituita dalla praxis multilaterale del partito comunista portoghese.
Imparare con attenzione da Lisbona, in estrema sintesi: per lavorare poi meglio come comunisti nei nostri paesi e a partire ovviamente dall’Italia e dalla Svizzera, nazione quest’ultima nella quale opera concretamente il giovane, combattivo e intelligente partito rivoluzionario di cui fai parte.
In secondo luogo bisogna riuscire a concentrare la lotta teorica e culturale contro il principale cavallo di battaglia e il maggior baluardo dell’ideologia borghese contemporanea: e cioè il cosiddetto “TINA” della signora Thatcher, ossia il mantra politico-sociale in base al quale “non c’è un alternativa al capitalismo”.
Non vi sono dubbi, Fabio, che dopo il 2007-2008 l’insoddisfazione di massa contro le banche, l’1% dei ricchi e molti aspetti dell’attuale capitalismo finanziario e imperialistico sia ormai dilagata e si sia diffusa, seppur in forme spesso confuse e contraddittorie, in tutto il mondo occidentale, ivi compresi larga parte dei giovani e delle masse popolari statunitensi.
Tuttavia il problema politico è che non è emersa ancora un alternativa politico-sociale, realmente antagonista e allo stesso tempo credibile e concreta, agli occhi e nella coscienza collettiva della grande maggioranza dei giovani e dei lavoratori delle metropoli imperialistiche: si tratta di una pesante contraddizione e di un particolare “vuoto politico” che purtroppo può essere riempito e occupato, come dimostra l’esperienza concreta degli ultimi anni, anche dalle forze populiste di estrema destra e dalle loro demagogiche parole d’ordine.
Su questo tema politico specifico, a nostro avviso importante, bisogna che i comunisti ragionino con molta attenzione e soprattutto agiscano con efficacia, prendendo spunto dal processo di esposizione a livello di massa delle conquiste reali e dei successi concreti – assieme ai limiti, errori e contraddizioni – delle nazioni e aree geopolitiche nel quale ancora oggi sussistono e si riproducono concretamente come egemoni e centrali i rapporti sociali di produzione e distribuzione di matrice collettivistica e socialista sempre per essere concreti, stiamo riferendoci principalmente alla Cina (prevalentemente) socialista, al Vietnam e a Cuba.
Sappiamo benissimo che su questa tematica sfondiamo una porta aperta sia con te, Fabio, che con il partito comunista svizzero di cui fai parte, ma riteniamo che tale parola d’ordine debba essere almeno e come minimo discussa sul piano politico anche in Italia.
Un abbraccio e saluti comunisti.
Roberto Sidoli
Massimo Leoni
Daniele Burgio

Il crollo progressivo del “Pivot to Asia” degli USA.

Nel novembre del 2011 Obama enucleò in Australia la strategia del “Pivot to Asia”, il cui chiaro e principale obiettivo era quello di costruire una rete di alleanze in Asia dell’imperialismo statunitense al fine di circondare e indebolire la Cina Popolare.

Se solo due stati asiatici avevano risposto positivamente alla nuova chiamata alle armi anticinese di Obama, ossia Filippine e Giappone, da qualche mese i dirigenti del paese nipponico stanno ormai cercando timidamente d tirarsi fuori e di abbandonare la strategia aggressiva made in USA e diretta contro Pechino: alla fine di aprile del 2016, infatti, il ministro degli esteri Fumio Kishida ha effettuato la prima visita in Cina in 4 anni da parte di un alto esponente del governo giapponese.

 

“Cina e Giappone lavoreranno per ridurre gli attriti e accelerare il miglioramento dei rapporti bilaterali, secondo i risultati emersi dall’incontro di Pechino tra i ministri degli Esteri Wang Yi e Fumio Kishida: piccoli passi in avanti dopo il lungo gelo e senza la conferenza stampa congiunta, a conferma del lungo percorso ancora da compiere per rasserenare l’opinione pubblica cinese sensibile al tema.

“Vogliamo sviluppare una solida e stabile relazione di buon vicinato e amicizia”, ha affermato Wang, chiedendo a Tokyo di smettere di dipingere Pechino come una minaccia e di fare di più sul passato bellico per arrivare al salto qualitativo auspicato dei legami. “C’è la conferma dell’importanza delle relazioni di Giappone e Cina e per l’ulteriore miglioramento abbiamo deciso che le parti devono fare sforzi”, ha osservato Kishida, primo ministro degli Esteri nipponico in visita in Cina negli ultimi quattro anni e mezzo, a causa del blackout diplomatico seguito allo scontro sulle isole Senkaku/Diaoyu. “

Fonte : “Cina-Giappone: passi verso disgelo”, in http://www.ansa.it

Per conoscere la teoria dell’effetto di sdoppiamento.

 

Salve compagni,

a seguito dell’iniziativa svolta al Centro Concetto Marchesi ho ricevuto dal compagno Daniele Burgio il vostro testo “Filosofi di Frontiera La tendenza comunista nella Divina Commedia”. Come premessa ci tengo a precisare che si tratta di un libro molto comprensibile e di facile lettura, una caratteristica davvero sorprendente soprattutto per la complessità dei temi trattati. In un momento di grave difficoltà per la cultura e la ricerca marxista la chiarezza espositiva (e non la banalizzazione) deve essere a mio parere la principale qualità dei nostri lavori, al fine di raggiungere una più vasta platea di lettori interessati. Secondo il costume critico che contraddistingue noi comunisti, vorrei chiedervi alcune spiegazioni e precisazioni intorno al vostro “effetto sdoppiamento”. Preciso che mi ha molto colpito la vostra ricostruzione e divisione dei vari pensatori in due tendenze “l’una comunitario-collettivistico e l’altra di natura classista, fondata invece sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Mi pare che il vostro bersaglio polemico sia una concezione “marxista-ortodossa della storia universale”, caratterizzata da una visione lineare del processo evolutivo.

A questo punto però vorrei un chiarimento non riesco a comprendere la necessità di teorizzare “l’effetto sdoppiamento”, quando con la nascita del movimento comunista, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, si superò quella visione rozzamente meccanicistica del materialismo storico veicolata dalla II Internazionale? Si tratta a mio modo di vedere di attenersi alle indicazioni fornite da Engels nella celebre lettera a J. Bloch: “secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda”.

Il nostro compito sarebbe in sostanza quello di riattualizzare le analisi di Lenin, Gramsci ecc., intorno a una concezione più dialettica del materialismo storico e del processo di sviluppo storico. Inoltre il vostro metodo di indagine mi pare si ispiri in qualche modo allo schema utilizzato da Lukàcs ne “La distruzione della ragione”, opera nella quale egli scinde il pensiero filosofico moderno in due filoni: uno irrazionalistico/reazionario e l’altro razionale/dialettico. Anche su questa possibile similitudine vorrei una vostra opinione. In conclusione, il vostro lavoro mi sembra molto utile per portare avanti una serrata battaglia culturale contro l’ideologia borghese, ma vorrei delucidazioni a riguardo delle implicazioni filosofiche del vostro “effetto sdoppiamento”. Questo deve intendersi come contributo per restaurare una visione meno deterministica del materialismo storico?

E’ possibile a vostro parere utilizzarlo per fornire analisi più correte delle nuove esperienze di trasformazione socialista oggi in atto?

Un cordiale saluto compagni!

 

 

 

 

 

 

 

 

Marx 1881, il marxismo creativo e i “quattro enigmi” della storia contemporanea.

 

Caro Fabio, nel rispondere al tuo scritto – fin troppo generoso nei nostri confronti – vogliamo per il momento concentrarci solo su due distinte tematiche, e cioè:

  • Il rapporto tra marxismo e teoria dell’effetto di sdoppiamento, con il derivato primato della sfera politica (Lenin, “Che fare?”, 1902 e sulla successiva polemica contro Trotsky e Bucharin, nel 1920/21);
  • Quale sia l’utilità politica, a cosa serve concretamente la tesi dell’effetto di sdoppiamento, con la sua analisi dell’epoca “sdoppiata” del surplus dal 900 a.C. fino a i nostri giorni.

Sulla prima questione, sottolineiamo subito che il primo e finora ignorato precursore della teoria dell’effetto di sdoppiamento è stato Karl Marx, in un suo geniale lavoro del 1881 che semi-marxisti russi quali Plechanov, Axelrod e Vera Zasulich occultarono e nascosero vergognosamente per quasi quattro decenni e che venne invece pubblicato in Unione Sovietica nel 1924.

Infatti all’interno della bozza e stesura provvisoria della sua lettera del marzo 1881 indirizzata a Vera Zasulich, il  geniale rivoluzionario tedesco analizzò anche la dinamica generale di sviluppo delle millenarie comuni rurali (la “comune agricola”, nella terminologia usata da Marx), notando tra le altre cose che «come… fase ultima della formazione primitiva della società, la comune agricola… è nello stesso tempo fase di trapasso alla formazione secondaria e, quindi, di trapasso dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata.

La formazione secondaria, si intende, abbraccia tutta la serie delle società poggianti sulla schiavitù e sul servaggio. Ma significa ciò che la parabola storica della comune agricola debba fatalmente giungere a questo sbocco? Nient’affatto. Il dualismo ad essa intrinseco ammette un’alternativa: o il suo elemento di proprietà privata prevale sul suo elemento collettivo, o questo s’impone a quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili».[1]

Si tratta della prima ed embrionale formulazione della teoria dell’effetto di sdoppiamento e del campo di potenzialità storiche alternative, contenuta in un testo geniale anche sotto molti altri aspetti e che costituisce allo stesso tempo il vero testamento teorico di Marx, lasciato a marcire dai suoi presunti eredi della tendenza riformista all’interno della Seconda Internazionale .

Secondo anticipatore dello schema generale sotto analisi: V. I. Lenin.

Nel febbraio/aprile del 1922, infatti, il titanico rivoluzionario russo contribuì attivamente al processo di elaborazione collettiva delle posizioni e direttive generali che la delegazione sovietica avrebbe poi portato alla conferenza internazionale di Genova, convocata dalle principali potenze capitalistiche di quel periodo al vano fine di cercare di creare un “nuovo ordine mondiale”, che superasse le rovine create dal primo grande macello imperialistico.[2]

Ne derivò la dichiarazione che venne letta da G. V. Cicerin, in qualità di Commissario del popolo agli Esteri, nell’aprile del 1922 a Genova, nella quale la Russia sovietica ammetteva apertamente la possibilità concreta di una coesistenza conflittuale, ma presumibilmente di lungo periodo tra il mondo capitalistico e quello socialista, al tempo ancora rappresentato dalla sola Russia Sovietica/Unione Sovietica. [3]

Un pianeta quindi “sdoppiato” sul piano socioproduttivo e politico, nel quale in seguito si “sdoppiarono” anche alcune nazioni (Germania, 1945/89; Corea, 1945/2016)

Il 10 aprile del 1922 Cicerin proclamò infatti apertamente, seguendo fedelmente le istruzioni fornitegli da Lenin e dal nucleo dirigente del partito bolscevico, la necessità di una “collaborazione economica tra Stati… rappresentanti i due sistemi di proprietà in campo internazionale”: a livello pratico e senza un preventivo processo di elaborazione teorica della “novità” politica in via di esposizione, con fatti concreti veniva ammesso dai dirigenti sovietici il gigantesco e prolungato effetto di sdoppiamento su scala planetaria, provocato ed indotto da un lato dall’Ottobre Rosso del 1917, e dall’altro dalla purtroppo vittoriosa resistenza opposta dal campo imperialistico al processo rivoluzionario mondiale sviluppatosi nel 1918-20. [4]

L’effetto di sdoppiamento venne riconosciuto implicitamente da Lenin anche con l’introduzione della NEP (Nuova Politica Economica) nel 1921, con la sua coesistenza conflittuale tra i rapporti di produzione sociale e quelli invece capitalistici /Kulak, borghesia urbana), o contrassegnati dalla produzione individuale (contadini medi).

Ma Lenin aveva già approfondito in precedenza la tematica dell’effetto di sdoppiamento anche a livello teorico, nei suoi Quaderni filosofici (1915-16, pubblicati postumi nell’Unione Sovietica del 1929).

In poche ma splendide pagine, intitolate “A proposito della dialettica”, egli infatti notò che «lo sdoppiamento dell’uno» (di un singolo processo e cosa) «e la conoscenza delle sue parti contraddittorie… rappresenta l’essenza (uno degli essenziali, una delle particolarità o caratteristiche fondamentali, se non la fondamentale) della dialettica».[5]

Sempre nel brano in esame, Lenin rilevò che erano esistite due alternative concezioni delle leggi di sviluppo del mondo, quella metafisica e quella dialettica, affermando che «le due concezioni fondamentali (o le due possibili? o le due osservate nella storia?) dello sviluppo (evoluzione) sono: lo sviluppo come diminuzione e aumento, come ripetizione, e lo sviluppo come unità degli opposti (sdoppiamento dell’uno in opposti che si escludono reciprocamente, e loro rapporto reciproco)».[6]

Anche se applicata in un contesto filosofico, non si può certo dire che per Lenin l’effetto di sdoppiamento, lo “sdoppiamento dell’uno in opposti” (elementi e tendenze opposte), fosse un processo generale sconosciuto o impensabile, venendo altresì indicato come “l’essenza della dialettica” (Lenin) e dello “studio delle contraddizioni nell’essenza stessa degli oggetti”. Dopo Lenin, del resto, anche Mao Tse Tung evidenziò (Sulla contraddizione, agosto 1937) il fenomeno dello “sdoppiamento dell’uno in opposti che si escludono reciprocamente”: ed entrambi, con l’azione di gigantesche forze sociali di cui erano mandatari politici, aiutarono il mondo contemporaneo a “sdoppiarsi” nella realtà, e non solo negli (utilissimi) testi filosofici.[7]

Seconda questione: a cosa può servire la tesi dell’effetto di sdoppiamento? Può svolgere una funzione utile, sia in campo storico che per la dinamica di sviluppo del movimento anticapitalistico nel Ventunesimo secolo?

Se tale schema generale corrispondesse approssimativamente alla verità, e cioè al processo dinamico e contraddittorio di sviluppo del genere umano dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri giorni, esso svolgerebbe un ruolo positivo intrinseco innanzitutto perché, come aveva rilevato Lenin, “la verità è sempre rivoluzionaria”.

Per trasformare la realtà, infatti, bisogna in via preventiva ben comprenderla ed interpretarla. Innanzitutto e soprattutto serve una diretta pratica politico-sociale, individuale e collettiva, ma anche e simultaneamente un processo creativo di analisi della pratica presente e passata, delle esperienze via via vissute/subite dal genere umano: con un ininterrotto processo di esame autocritico del passato recente e meno recente, delle sue diverse tendenze e controtendenze, della dialettica storica creatasi all’interno delle multiformi formazioni economico-sociali sviluppatesi negli ultimi millenni. Sviluppando in tal modo il marxismo creativo (Stalin, luglio del 1917) contro quello dogmatico.

La celebre e geniale undicesima tesi su Feuerbach elaborata nel 1845 da Marx afferma infatti  correttamente che «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi: si tratta però di trasformarlo», ma essa non implica in alcun caso che bisogna smettere di conoscere e interpretare il mondo e che tale forma di pratica umana sia inutile, se non addirittura dannosa.[8]

Altrimenti non riuscirebbe assolutamente a capire, se non chiamando in causa la categoria del masochismo, per quale ragione Marx avesse passato più di vent’anni al British Museum di Londra, al solo scopo di elaborare la critica dell’economia politica borghese, perché egli avesse scritto nel 1875 la splendida Critica al programma di Gotha o in seguito si fosse affannato a scrivere e riscrivere più volte la lettera a Vera Zasulich nell’inverno del 1881, sempre al fine di “interpretare il mondo”. A nostro avviso ben interpretare e ben conoscere il mondo significa anche iniziare a trasformarlo, creando le premesse, le coordinate ed il “filo di Arianna” indispensabile per portare a buone fine tale compito di enorme portata storica.

In seconda battuta, la teoria dell’effetto di sdoppiamento può svolgere una duplice funzione di legittimazione di alcune pratiche positive dei militanti anticapitalistici, e di delegittimazione invece di altre pratiche (e atteggiamenti mentali) negative da essi sviluppate di frequente nel corso degli ultimi due secoli.

Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento aiuta a stimolare e legittimare:

– le pratiche politiche (politico-sociali, politico-sindacali, ecc.) degli attivisti anticapitalisti: far politica serve e diventa decisivo, perché la sfera politica è diventata l’anello centrale dell’attività umana dopo il 9000 a.C., con la genesi dell’era del surplus costante-accumulabile e del derivato effetto di sdoppiamento;

– l’assunzione di una responsabilità diretta delle forze anticapitalistiche per il futuro del genere umano, visto che la storia siamo noi (F. De Gregori) e la nostra pratica politica collettiva contribuisce direttamente ad indirizzarla in un senso o nell’altro, a sfruttare/non sfruttare le potenzialità socioproduttive offerte dall’effetto di sdoppiamento, a spostare “l’ago della bilancia storica” in un senso o nell’altro.

La migliore Rosa Luxemburg (quella del 1914.17) ha evidenziato il ruolo decisivo svolto dalla pratica politico-sociale per il destino del genere umano notando, durante il primo macello interimperialistico, che «noi» (esseri umani e movimento anticapitalistico del tempo) «ci troviamo oggi, proprio come F. Engels aveva presagito una generazione addietro, quarant’anni fa, davanti alla scelta: o trionfo dell’imperialismo e crollo di tutta la civiltà come nell’antica Roma, spopolamento, distruzione, degenerazione, un grande cimitero, oppure vittoria del socialismo, cioè dell’azione cosciente di lotta del proletariato internazionale contro l’imperialismo ed il suo metodo: la guerra. Questo è un dilemma della storia mondiale, un’alternativa, in cui i piatti della bilancia oscillano tremando davanti alla decisione del proletariato cosciente.

Il futuro della civiltà e dell’umanità dipende dal fatto che il proletariato sappia, con decisione virile, gettare la sua spada rivoluzionaria sulla bilancia… Tutta la desolazione e la vergogna» (in cui era caduta la socialdemocrazia tedesca, dopo il 4 agosto 1914 e la sua approvazione della guerra imperialistica) «possono essere controbilanciati soltanto se noi dalla guerra e nella guerra impariamo come il proletariato può redimersi dal ruolo di un servo nelle mani delle classi dominanti a quello di padrone del suo destino».[9]

Parole valide non solo per il 1916-17, a nostro avviso…

La resistenza offerta costantemente, seppur con alterno successo, dal movimento anticapitalistico contro l’avversario di classe, a dispetto della sua apparente strapotenza ed invincibilità: secondo la teoria in esame, niente è conquistato per sempre ma allo stesso tempo niente è perso per sempre, sul piano politico-sociale, guerra atomica di sterminio permettendo.

Infatti anche alcune colossali sconfitte storiche incontrate dal movimento operaio rivoluzionario, come quella subita nel 1914-16, a determinate condizioni lasciarono il campo a colossali vittorie di quest’ultimo (1917-20, Russia); già B. Brecht, nella sua splendida poesia Lode della dialettica, notò che i “vinti di oggi sono i vincitori del domani e il mai diventa: oggi!”

Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento serve invece a criticare e delegittimare:

– l’economicismo, inteso come culto ingiustificato del livello di maturità delle forze produttive. Le condizioni oggettive per l’affermazione della “linea rossa”, per un processo di sviluppo collettivistico del genere umano esistevano già nel 9000 a.C., anche se allora solo in alcune aree geopolitiche all’avanguardia nella grandiosa rivoluzione produttiva del neolitico, a partire dalla protocittà “rossa” ed egualitaria di Gerico;

– il disinteresse per la lotta politica e per l’acquisizione per via rivoluzionaria del controllo degli apparati statali, con forme pacifiche/violente a seconda delle condizioni storiche concrete;

– la fiducia nel determinismo storico, giustamente detestato da W. Benjamin e inteso soprattutto come “inevitabile vittoria delle forze del progresso”. Una volta smentita e falsificata da dure sconfitte (1989-91), tale credenza si trasforma inevitabilmente nella tacita acquiescenza di fronte alla “presunta fine nella storia” (Fukuyama) e al trionfo dei soliti “ricchi e potenti”, facendo sì che “tra gli oppressi molti dicano ora: quel che vogliamo, non verrà mai” (B. Brecht, ancora Lode alla dialettica).

Inoltre la teoria dell’effetto di sdoppiamento prevede anche per il presente e per i nostri tempi che una radicale trasformazione dei centrali e decisivi rapporti di forza politici (ivi compresi quelli politico-militari, il consenso di massa rispetto alle strutture socioproduttive dominanti, ecc.) comporti e determini simultaneamente un radicale mutamento dei vecchi rapporti sociali di produzione e di distribuzione, sia nelle società capitalistiche che in quelle (almeno in parte) ancora oggi collettivistiche: un’anticipazione che proprio la dinamica politica futura su scala planetaria potrà confermare o smentire, verificare o falsificare.

Infine la teoria dell’effetto di sdoppiamento permette di risolvere alcuni “enigmi”, ossia una serie di problemi importanti e ancora attuali, sia sul piano storico che in campo politico.

Essa serve innanzitutto a spiegare per quale ragione fondamentale si sia riprodotto ininterrottamente nelle principali nazioni borghesi, a partire dalla genesi della rivoluzione industriale (1763-1780 fino al 2016, il modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo rappresenta infatti uno dei due sbocchi ed esiti possibili all’interno del mondo contemporaneo e si colloca purtroppo “nell’ordine delle cose”, alias delle possibilità socioproduttive che si trasformano in realtà concreta in presenza di favorevoli e determinate condizioni politico-sociali; esso si può conservare (e sviluppare nel futuro) se la borghesia continua a detenere  e continuerà anche in futuro a detenere il potere politico, controllando più o meno direttamente gli apparati statali e riuscendo in tal modo a superare le periodiche crisi produttive più o meno gravi e prolungate, come quella del 2088/2009.

Lo schema in analisi può essere ovviamente utilizzato anche per risolvere il problema correlato del “ritardo della rivoluzione” nel mondo occidentale: quest’ultima non si è verificata nelle metropoli capitalistiche, o è stata sconfitta duramente come a Parigi nel 1871, in Germania nel 1918-23 o in Spagna nel 1936-39, principalmente a causa della costante presenza di un rapporto di forza politico (che comprenda al suo interno anche le capacità direzionali, strategiche e tattiche) sfavorevole alla classe operaia e alle masse popolari, e non certo per effetto di un’inesistente arretratezza e immaturità nel livello di sviluppo delle forze produttive all’interno del mondo occidentale.

La teoria in analisi consente anche di comprendere la ragione principale del successo della più grande “rivoluzione contro il Capitale” (contro il Capitale di Marx, almeno per il giovane Gramsci del 1917), e cioè della vittoria del processo anticapitalistico in Russia ed in quasi tutto l’ex impero zarista. La vittoria storica ottenuta dai bolscevichi infatti non derivò sicuramente da un (inesistente) alto livello di sviluppo delle forze produttive sociali nella Russia di quel periodo, ma viceversa da una favorevole correlazione di potenza politica, a vantaggio del partito diretto da Lenin, che permise alle forze rivoluzionarie di quell’area geopolitica di sfruttare tutte le potenzialità positive (possibilità di affermazione della “linea rossa” socioproduttiva) insite organicamente nell’effetto di sdoppiamento, anche e soprattutto per quanto riguarda l’epoca contemporanea.

Per ragioni molto simili, la teoria dell’effetto di sdoppiamento consente contemporaneamente di comprendere la causa fondamentale delle vittorie ottenute dai processi anticapitalistici in tutta una serie di “anelli deboli” della catena imperialistica, quali Cina (1929-49), Cuba (1959-61), Vietnam, Laos e Cambogia, Angola e Mozambico: nazioni molto diverse tra loro, ma unificate sia dal basso livello di sviluppo raggiunto a quel tempo dalle loro rispettive forze produttive che dall’alto grado di accumulazione di potenza politica e militare via via ottenuta dalle soggettività rivoluzionarie, prima e al momento della loro vittoria.

 

A risentirci presto, Fabio.

 

Roberto Sidoli

Massimo Leoni

Daniele Burgio

[1] K. Marx e F. Engels, India, Cina e Russia, p. 241, ed. Il Saggiatore.

[2] V. I. Lenin, Progetto di direttiva del CC del PCR (6) per la delegazione sovietica alla conferenza di Genova, 6 febbraio 1922.

[3] A. B. Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-67), p. 219, Ed. Rizzoli.

[4] G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica. 1917-27, p. 229, Ed. L’Unità.

[5] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, p. 343, Ed. Einaudi.

[6] Ibidem, p. 344

[7] Mao Tse Tung, Sulla contraddizione, par. primo, agosto 1937.

[8] K. Marx, Tesi su Feuerbach, in F. Engels, Ludwig Feuerbach ed il punto d’approdo delle filosofia classica tedesca, p. 86, Ed. Editori Riuniti.

[9] R. Luxemburg, “La crisi della socialdemocrazia”