Il Titanic USA e la tempesta perfetta

Capitolo sesto

Gli Stati Uniti sono diventati il “grande malato” del capitalismo mondiale almeno a partire dalla fine del 2007: alle “normali” tendenze di crisi capitalistiche (periodiche recessioni, caduta tendenziale del saggio medio di profitto e tendenza “vincente” all’impoverimento relativo/assoluto della classe lavoratrice), sommate all’azione della “diabolica coppia” formata da crisi della finanza e debito sovrano, operanti con particolare intensità dopo il 2002/2003, si aggiungono e si sommano infatti le specifiche e particolari tendenze autodistruttive che stanno scuotendo già ora il pericolante Titanic-USA, formando quella che si può definire la “tempesta perfetta” del mondo capitalistico per il triennio 2012/2014.

Tali “germi autodistruttivi” made in USA risultano essere:

–          l’enorme estensione quantitativa del debito pubblico statunitense, se valutato tenendo conto del deficit degli stati federali (California, ecc), di Fannie Mae e Freddy Mac e della sovrapposizione della stessa Federal Reserve: fenomeni aggravati in modo disastroso dall’“onda-tsunami” dei titoli di stato americani in scadenza nel 2012;

–          il basso livello di risparmio interno statunitense, da collegarsi dialetticamente alla tendenza di crisi sovraesposte;

–          il pauroso livello di indebitamento delle famiglie ed imprese statunitensi, oltre che del sovracitato settore pubblico;

–          il continuo processo di de-industrializzazione dell’economia americana;

–          l’enorme livello di spese militari statunitensi rispetto al prodotto interno lordo;

–          gli effetti prolungati dello scoppio della bolla speculativa all’interno del campo immobiliare americano;

–          la presenza abnorme negli USA dell’enorme “finanza parallela” anche rispetto al resto del mondo capitalistico, con i paurosi rischi derivanti dai derivati circolanti nel paese (= 250.000 miliardi di dollari, 18 volte il valore del PIL americano);

–          la ricaduta nella stagnazione dell’economia statunitense (il double-dip) già a partire dalla seconda metà del 2011, dopo appena un anno e mezzo dalla (presunta) uscita da una grave depressione durata due anni;

–          la consumazione ed il logoramento quasi totale dell’efficacia dei tradizionali “strumenti di salvezza” del capitalismo statunitense (= aumento del deficit statale, svalutazione monetaria, riduzione dei tassi d’interesse, acquisto da parte della Federal Reseve dei titoli di stato statunitensi, ecc.);

–          il deficit, ormai cronico della bilancia commerciale statunitense;

–          l’“ingorgo” finanziario che si verificherà su scala mondiale nel triennio 2012/2014, per effetto di una super massa di obbligazioni e titoli di stato da rifinanziare in giro per (quasi) tutto il pianeta.

Rispetto ai primi due “germi” distruttivi, già nella prefazione è stata esposta sia l’estensione quantitativa del debito pubblico (statale, federale, di Fannie Mae e Freddy Mac) americano che la sua continua, veloce e disastrosa dinamica di crescita, collegata inoltre ad un livello di risparmio interno assai basso ed inferiore di circa due terzi a quello (già in diminuzione) dell’Europa continentale: un processo di involuzione che ha portato, come ha dovuto riconoscere Margiocco, “rapidamente a un debito pubblico di proporzioni italiane, ma senza la nostra capacità di risparmio”.[1]

Se l’insieme del debito federale degli USA risultava pari a “soli” 7000 miliardi di dollari il 15/01/2004, esso decollava a quota 9000 già il 31 agosto del 2007, si impennava a 11.000 già il 16 marzo del 2009, e raggiungeva quota 15.000 già agli inizi del 2012, dopo meno di tre anni del dato precedente. Altro fatto significativo, durante l’anno fiscale 2010/2011 il deficit del bilancio federale USA aveva toccato quota 1290 miliardi di dollari, pari a circa l’8,5% del PIL USA: ma è più importante focalizzare a questo punto l’attenzione sulla dinamica prossima ventura, nel 2012/2015, del debito pubblico statunitense.

Jacques Attali fin dal 2010 aveva sottolineato l’importanza, allo stesso tempo materiale e psicologica, della soglia percentuale da allarme rosso del 40% per quanto riguarda il rapporto tra l’onere del debito pubblico e la globalità delle entrate fiscali di qualunque stato. In altri termini, se una nazione spende quattro decimi (o più) delle sue entrate derivanti da tasse, vendite di beni, ecc., per pagare gli interessi dovuti ai creditori sul debito complessivo accumulato in precedenza, siamo in presenza di una quasi certa bancarotta: è questo “l’unico indicatore serio che annuncia ai creditori l’imminenza di una grave crisi del debito pubblico”.[2]

Ora, nel triennio 2009/2011 tale indicatore negli USA risultava pari a circa il 25%, alias un quarto delle entrate fiscali statunitensi era già destinato a coprire le spese per il debito pubblico pregresso: si era ancora sotto (ma non di molto …) la soglia d’allarme rosso ma, anche non tenendo conto del double-dip, proprio nel 2012 verrà sicuramente alla luce la disastrosa “onda dei bond” (titoli di stato americani) in scadenza, una vera valanga disastrosa che si prospetta di fronte al “Titanic-USA”.

Come ha sottolineato con maestria A. Giannuli, ancora “nel dicembre 2009, su un giornale australiano apparve un articolo a proposito di una preoccupante congestione di scadenze finanziarie che si profila per il 2012. La notizia venne ripresa dal New York Times e, in Italia, da Repubblica (2.3.10) in una corrispondenza di Federico Rampini:

A lanciare l’allarme (è) […] l’agenzia di rating Moody’s. Un suo esperto del mercato obbligazionario, Kevin Cassidy, ha avvertito di recente che “una valanga di titoli viene a scadenza nel 2012, e ci travolgerà se le aziende non si premuniscono in anticipo”. Perché il 2012 è l’anno di una convergenza micidiale: verranno a scadenza simultaneamente titoli di Stato, obbligazioni di aziende solide, e junk-bond, per un volume complessivo che sarà quasi otto volte superiore a quello che i mercati assorbono quest’anno. Solo il Tesoro USA nel 2012 dovrà emettere titoli di Stato per quasi 2.000 miliardi, per finanziare il fabbisogno corrente e ri-finanziare debito venuto a scadenza. A questo verrà ad aggiungersi la valanga delle obbligazioni private in scadenza. Una quantità senza precedenti, tutta concentrata a partire dal 2012. Per capire il salto di dimensione: nel corso del 2010 in America vengono a scadere junk-bond per un valore di 21 miliardi di dollari, che quindi devono essere rimborsati dalle società emittenti, oppure rifinanziati sul mercato. Nel 2012 invece gli junk-bond in scadenza balzeranno di colpo a quota 155 miliardi. E da quell’anno in poi sarà peggio: 212 miliardi nel 2013, infine 338 miliardi nel 2014.

La ragione di questa congestione va rintracciata proprio nell’ultima crisi finanziaria. Infatti, sino alla metà del 2007 l’ipotesi di una crisi non era neppure presa in considerazione (come si è detto), per cui la liquidità scorreva abbondante, e in quel periodo venne emessa una grande quantità di obbligazioni ad alto rendimento, che spesso hanno scadenza a cinque e sette anni: appunto dal 2012 al 2014. Gli junk-bond (letteralmente, “obbligazioni spazzatura”) sono titoli fortemente speculativi perché offrono elevati interessi con un rating basso o molto basso o, addirittura, non presentando alcun profilo di rating. Dunque si tratta di debitori molto rischiosi.

Ma non basta, perché molte obbligazioni che venivano a scadenza nel 2009 e 2010, sono state invece “ristrutturate” con un prolungamento di due o tre anni, e quindi si andranno a sommare alle altre. E, siccome piove sempre sul bagnato, a partire dal 2010 e sino al 2014 verranno a scadenza anche molti titoli con i quali le banche centrali (Fed in testa) hanno sostenuto gli esborsi fra il 2008 e il 2009, per calmare la tempesta. Si tenga presente che gli emittenti hanno dovuto maggiorare le proprie spese anche per pagare il servizio al debito. Tanto per tirare su il morale del lettore, Rampini fa alcuni esempi di società attese al varco nel 2012-2014:

Solo per l’acquisto del gruppo ospedaliero HCA, nel 2006 le società di private equity Bain Capital e Kohlberg Kravis & Roberts (KKR) spesero 33 miliardi di dollari: di questi 13,3 miliardi furono reperiti con maxi-emissioni di junk-bond che verranno tutte a scadenza tra il 2012 e il 2014. Un’altra acquisizione da parte di KKR fu quella della società energetica texana Txu: in questo caso i junk-bond da rifinanziare a partire dal 2012 sono addirittura 20,9 miliardi. Un’altra celebre acquisizione compiuta negli ultimi bagliori di opulenza fu quella del colosso immobiliare Realogy, finito sotto il controllo della società di private equity Apollo nella primavera  2007, cioè alla vigilia del tracollo del mercato della casa. Come sempre accade nel private equity, l’effetto-leva dell’indebitamento è poderoso e si scarica sulla stessa società acquisita: la Realogy oggi deve rimborsare almeno 8 dollari di debito per ogni dollaro di ricavi.

Ovviamente, accanto ai titoli in scadenza è prevedibile che ne verranno proposti di nuovi che attireranno una parte degli investitori. Pertanto, pur nell’evenienza – poco probabile – che ci sia il denaro sufficiente a rifinanziare tutti i titoli proposti sul mercato, è probabile che i risparmiatori siano molto cauti nel reinvestirlo nelle situazioni più rischiose, pur in presenza di interessi elevatissimi: la crisi ha cambiato le cose e la percentuale degli investitori più “spericolati” si è assottigliata”.[3]

Tiriamo le somme.

Nel 2012 il deficit statale USA sarà equivalente a circa 1.200 miliardi di dollari anche nel migliore dei casi, in assenza di un double-dip recessivo, producendo interessi sul debito pari a circa 250 miliardi di dollari ed un rapporto interessi/entrate fiscali pari a circa il 25%.

Ma a tale (già pessimo) rapporto del 25% vanno aggiunti e sommati, proprio nel 2012/2014, almeno e come minimo altri 800 miliardi di nuovi titoli di stato, da riemettere solo per compensare quelli venuti in scadenza: si è già a quota duemila miliardi e oltre la soglia d’allarme indicata da Attali, pari al sopracitato tasso del 40%.

In altri termini, nel 2012 gli Stati Uniti saranno dentro il “punto di non ritorno” descritto da Attali, anche non tenendo conto di una  nuova recessione nel 2012 (con l’inevitabile e derivato calo delle entrate fiscali statunitensi) e degli junk-bond in scadenza, pari a ben 155 miliardi di dollari nel solo 2012 (e a 212 nel 2013, a cui si sommano altri 338 in scadenza durante il 2014).

Saremo in presenza, nel 2012/2014, del circolo vizioso e della “spirale negativa” del debito pubblico statunitense, anche in assenza del double-dip. Sempre Giannuli aveva sottolineato, ancora nel 2010, che “d’altro canto, questa è proprio la “spirale del debito”: i debitori meno sicuri devono pagare interessi più alti che aggravano la loro esposizione; di conseguenza aumenta il loro debito complessivo e scende la loro affidabilità, per cui alla scadenza successiva gli interessi aumenteranno ancora, e cosi via. Superata una cerca soglia, il debito alimenta se stesso e il debitore scivola su un piano inclinato verso la bancarotta. Pertanto, è facile prevedere che, allo scopo di non capitare nel pieno della tormenta, quando ci si contenderà con il coltello ogni singolo rivolo di denaro, le società anticiperanno i tempi già alla seconda metà del 2011, emettendo obbligazioni proprio per recuperare liquidità da impiegare per i rimborsi delle scadenze successive. Ma può accadere, come nei grandi flussi di traffico vacanziero, che a tutti venga in mente la stessa cosa e si formino comunque ingorghi mostruosi. Nel nostro caso, l’ipotesi è che, già a partire dalla seconda metà del 2011, si inizino ad avvertire gli effetti della valanga in arrivo, la quale, per questa ragione, sarà anticipata. Oltretutto questo scenario non cadrà in un momento favorevolissimo, perché, come ricorda Francesco Forte (G 13.12.09), già nel 2010 attendiamo di rifinanziare una massa complessiva di circa 2.300 miliardi di dollari di debito pubblico (1.300 Stati Uniti, 200 Germania, 200 Francia, 200 Inghilterra, 130 Spagna, 100 Italia) e nel 2011 la situazione non sarà affatto più rosea. Appunto.

Anche le aziende più caute e lungimiranti si trovano di fronte a un altro problema: la concorrenza degli Stati sovrani. Perché in simultanea con i junk-bond e le altre obbligazioni, anche per i titoli di Stato si avvicina la resa dei conti: attorno al 2012 si concentrano rimborsi relativi ai deficit pubblici accumulati per i salvataggi bancari e le manovre antirecessione. E’ il caso del Tesoro USA: anche senza ulteriori buchi nel bilancio pubblico, Washington sa già che dovrà reperire sui mercati 1.800 miliardi nel 2012, e altri 1.400 ogni anno nel biennio successivo [Rampini, 2.3.10].

Dunque, tutto lascia presagire una nuova “tempesta perfetta”, che si formerà una volta venuta a scadenza questa eccezionale ondata di obbligazioni. Anche di qui la decisione di Moody’s di anticipare la revisione del rating AAA sul debito sovrano delle nazioni più ricche d’Occidente, inclusi Stati Uniti e Germania (S24. 18.9.10)”[4]

Il successivo declassamento del debito pubblico americano, nell’agosto del 2011, rientra in questo processo di previsione. Del resto anche una (ristretta) minoranza di economisti statunitensi ha iniziato a prendere in esame il “triennio del giudizio” del 2012-2014, come nel caso di Gordon Lang che “sostiene sia giunto il momento di affrontare il problema in previsione del possibile “giorno del giudizio” finanziario, legato alle scadenze del debito (in parte alimentato dall’allungamento delle scadenze avvenuto nel 2009-2010). Lo stock di debito USA fra il 2010 e il 2014 è stimato in 9.200 miliardi di dollari. Altro elemento allarmante viene dall’andamento: junk-bond da 21 miliardi nel 2010, da 155 nel 2012, e da 338 nel 2014. L’enormità della cifra impone la domanda circa l’esistenza di risparmio disponibile sufficiente per finanziare la necessità statunitense e quella del resto del mondo. Di qui la prospettiva di tassi di interesse crescenti”.[5]

Non è pertanto casuale che l’importante Pacific Investment Management (Pimco), gestore del principale fondo obbligazionario degli Stati Uniti, abbia suscitato clamore avviando operazioni di vendita allo scoperto sui titoli di Stato americani, fin dal marzo del 2011.

“E’ quanto si legge sul Financial Times, dove si cita un rapporto reso pubblico dalla stessa Pimco.

Operativo per 236 miliardi di dollari, il fondo in gestione ha ridotto progressivamente le proprie esposizioni ai bond sovrani USA e agli assets collegati fino a raggiungere una quota negativa del 3%. Un orientamento esclusivo verso la vendita allo scoperto (il short selling), una pratica speculativa che consente di guadagnare sui ribassi, la scommessa sulla perdita del valore dei titoli e sul deterioramento dei conti statali.

Di questa operazione scrive anche il giornale britannico The Guardian, il quale sottolinea che Pimco ha venduto 7 miliardi di dollari di titoli con l’obiettivo di riacquistarli successivamente ad un prezzo inferiore. Appena un mese prima aveva ceduto titoli del Tesoro per 28 miliardi”.[6]

Previsioni drammatiche e più che fosche, certo, ma che ancora peggiorano se si prende in esame anche il terzo “germe autodistruttivo” insito nel sistema capitalistico americano, alias il pauroso livello di indebitamento delle famiglie e delle aziende degli USA formatosi già nel 2005/2011.

A partire dall’inizio degli anni Settanta, si è infatti via via sviluppato un pesante e costante processo di “indebitamente delle famiglie americane, sempre meno in grado di far fronte alle proprie pendenze; Massimo Di Nola calcola che, a partire dal 2005, l’indebitamento medio delle famiglie americane si sia approssimato ai duecentomila dollari.

Ormai l’America importa poco meno di un terzo dei prodotti che consuma e la metà del petrolio che utilizza, mentre il mercato totale del debito pubblico e privato (imprese incluse) pari a 44.000 miliardi di dollari, supera di tre volte e mezzo il prodotto interno lordo. Grazie a questa montagna di soldi da gestire, i servizi finanziari coprono il 20% del prodotto interno lordo del Paese. Questo significa, semplificando un po’ le cose, che un quinto della ricchezza creata negli Stati Uniti e distribuita sotto forma di profitti e stipendi deriva dall’intermediazione del debito. E’ una quota più grande di quella creata dall’industria, il cui contributo al PIL è più che dimezzato. Era pari al 25% negli anni Settanta, ma nel 2007 è sceso al 12%. La parte preponderante del debito è ancora coperta dal risparmio interno. Ma una quota crescente sta passando in mano a soggetti stranieri che posseggono titoli di Stato, obbligazioni e certificati di credito americani per un ammontare pari a 6.800 miliardi di dollari. Se si aggiungono azioni di società e altri titoli in mano a soggetti esteri si arriva a una cifra stimata superiore ai 12.000 miliardi. È questo afflusso di capitali che permetta all’America di vivere “al di sopra dei propri mezzi””.[7]

Sempre su questo fronte va aggiunto che, stando sempre alle valutazioni del sopracitato (anticomunista, fedele mandatario del sistema capitalistico) Bill Gross, il fondatore di Pimco e di uno tra i maggiori fondi azionari al mondo, prevede che appesantiti da un “reale ma non riportato” debito da 75 trilioni di dollari (l’equivalente di circa 70 mila miliardi di franchi svizzeri), gli Stati Uniti sono avviati inesorabilmente verso il default, ossia l’incapacità di far fronte al  pagamento degli interessi o di rimborsare il debito giunto a scadenza. Una situazione che potrebbe avere come conseguenza pesanti turbolenze.”[8]

Quindi 75 trilioni di dollari di debiti complessivi (famiglie ed imprese) dell’azienda-USA, e non 55 trilioni come invece stimato dagli analisti in precedenza: un aumento di ben ventimila (20.000!) miliardi di dollari, ma in debiti e non certo in ricchezza…

Sotto questo profilo va notata l’analisi sulla “deflazione da iper debito” proposta dall’australiano Steve Keeh, assai interessante anche se unilaterale e non capace di tener conto dei “virus” del capitalismo descritti nel primo cerchio di contraddizioni.

Keeh ha infatti mostrato “come, a partire dagli anni Sessanta, il debito del settore privato negli USA abbia iniziato a superare il Pil. Il debito si è portato a livelli largamente instabili a partire dai tardi anni Novanta, con punte nel 2008. L’inevitabile collasso con questi tassi di credito ha fatto abbassare la domanda aggregata del 14%, causando la recessione.

Col senno di poi avremmo dovuto capirlo facilmente, ma ciò che gioca a favore dell’analisi di Keeh è che lui lo ha previsto. Nel dicembre 2005, redigendo una perizia per un caso giudiziario, Keeh andò a cercare il rapporto fra debito privato e PIL nella sua patria, l’Australia, per vedere come era cambiato dagli anni Sessanta. Rimase attonito nello scoprire che era cresciuto esponenzialmente. Poi fece lo stesso per gli Stati Uniti, con risultati simili. Subito diede l’allarme: una situazione del genere dava adito a una crisi economica molto più grave di quella della metà degli anni Settanta o dei primi anni Novanta. Un’enorme bolla speculativa era sul punto di scoppiare. Ovviamente fu ignorato dai decisori politici.

Keeh ci dice che se non affrontiamo questi problemi, la crisi continuerà a sopravanzare. Le “forze della deflazione da debito” che si sono scatenate “sono molto maggiori rispetto a quelle che causarono la Grande Depressione”. Negli anni Venti il debito privato crebbe del 50%. Tra il 1999 e il 2009 è cresciuto del 140%. Il rapporto debito-PIL negli USA è molto più marcato di quanto non lo fosse all’inizio della Grande Depressione.”(G. Monbiot, 25 ottobre 2011, in guardian.co.uk)

Un ulteriore “virus” consiste nel continuo processo di de-industrializzazione che sta subendo l’economia statunitense, dalla fine degli anni Settanta ad oggi. Come ha notato Walden Bello “si stima che siano 8 milioni i posti di lavoro nel settore produttivo negli Stati Uniti ad essere stati eliminati tra il giugno del 1979 e il dicembre del 2009. Un report descrive il fosco processo della deindustrializzazione: “Molto prima del collasso bancario del 2008, le industrie statunitensi più importanti per la produzione di macchine utensili, di elettronica di consumo, parti di automobili, elettrodomestici, mobili, strumenti per la telecomunicazioni e di molti altri beni che in altri periodi avevano dominato il mercato globale soffrirono il proprio collasso economico. Gli impieghi nella produzione passarono a 11,7 milioni nell’ottobre del 2009, una perdita di 5,5 milioni – il 32 per cento – di tutti gli impieghi nella produzione dall’ottobre del 2000. Era dal 1941 che il settore produttivo impiegava meno di 12 milioni di persone. Nell’ottobre del 2009, c’erano più persone ufficialmente disoccupate (15,7 milioni) di quelle occupate nella manifattura.

Questa devastazione nel settore produttivo, che comportò l’eliminazione di una notevole quantità di impieghi ben pagati, svolse un ruolo centrale nella stagnazione delle entrate, dei salari e del potere d’acquisto negli stati Uniti. Nei tre decenni precedenti al collasso del 2008, segnala Robert Reich, il salario dello statunitense tipico è aumentato di poco, ed è poi diminuito negli anni 2000”. (“la apple connection, Walden Bello)

Quinto “virus autodistruttivo” caratteristico del capitalismo statunitense, il pauroso livello delle spese militari, con le sue inevitabili ricadute sul processo di crescita del debito pubblico interno.

“Osserva Fabio Mini a proposito del debito pubblico americano e del suo rapporto con le spese militari:

Durante le presidenze Reagan e Bush padre, dal 1980 al 1992, e con la guerra in Iraq e in Somalia, il debito pubblico è quadruplicato ed è rimasto a quel livello durante la presidenza Clinton fino al 2000 quando si è attestato sui 5,6 trilioni di dollari. Durante la presidenza Bush figlio e con le guerre in Iraq e Afghanistan il debito è raddoppiato ancora sino ai 10,7 trilioni del 2008 ed è salito dal 54% al 75% del Pil. A marzo 2009 il debito è stato stimato sui 13,7 trilioni pari al 97% della ricchezza prodotta 8814 trilioni) e supererà il 100% nel 2010.”[9]

Tra il 1995 ed il 2005 “ proprio in corrispondenza del periodo di massimo fulgore del progetto per un secolo americano, la spesa militare statunitense si manteneva stabilmente fra i quattrocento e i cinquecento miliardi di dollari annui; e se i ventitré miliardi di dollari spesi dal Giappone per la ricerca e sviluppo (d’ora in poi ReS) nel settore militare rappresentavano il 4,3 per cento sul totale degli investimenti ReS, e i 18 della Repubblica federale tedesca il 7,1 per cento, gli 86,7 miliardi di dollari spesi dagli Stati Uniti rappresentavano ben il 52,7 per cento della loro spesa in questo settore.”[10]

Il sesto punto di crisi, viene creato dalle ricadute prolungate (almeno fino al 2013)  dello scoppio della bolla speculativa immobiliare, avvenuto nel lontano 2007. Per rilanciare l’economia statunitense, dopo lo scoppio della “bolla tecnologica” speculativa e l’inizio della crisi di sovrapproduzione del 2000-2001, “gli americani, in conformità al credo neoliberale, avevano il dovere di consumare di più. Il primo a ricordarglielo fu il presidente Bush jr, il quale non trovò di meglio, poche ore dopo gli attentati” (dell’11/9/2001) “a invitarli a frequentare in massa i supermercati. Un potente motore di consumi privati è la costruzione di case. Oltre al lavoro edilizio in senso stretto, che di per sé comporta una notevole occupazione, le case nuove tirano la produzione di interi comparti industriali, poiché richiedono sale da bagno, impianti di riscaldamento, materiale di decorazione, mobili, elettrodomestici, serramenti, box auto. Il governo e la Fed decisero quindi di incentivare l’edilizia residenziale.

Nella quasi totalità  dei casi, dato il suo costo elevato una casa viene acquistata da una famiglia contraendo un grosso debito garantito dal valore della casa stessa, ossia sottoscrivendo con una banca o altro ente finanziario un mutuo gravato da ipoteca. La Fed facilitò l’indebitamento delle famiglie praticando tassi di interesse bassissimi tra il 2001 ed il 2006. Inoltre il Tesoro e il governo vararono diversi provvedimenti per consentire pure a famiglie dal reddito modesto o incerto l’accesso alla proprietà. Fu ancora il presidente Bush a vantare le mirabili sorti della “società dei proprietari di case (home-owner society)”. Da parte loro le banche, rovesciando una tradizione quasi secolare, passarono dal paradigma “origina (cioè concedi un credito, che è un debito per chi lo ottiene) e conservalo (in bilancio)” al paradigma che suona “origina e distribuisci (cioè vendilo a qualcun altro)”. Ciò significa che il credito concesso da una banca a una famiglia o ad una impresa veniva quasi subito trasformato, a volte nel giro di pochi giorni, in un titolo commerciabile. Lo si faceva mediante un’operazione detta appunto “titolarizzazione” (titrisation) o “cartolarizzazione” e venduto a società-veicolo, in genere create o sponsorizzate dalla banca medesima, divenute note col nome generico di Structured Investment Vehicles (Siv)”.[11]

Da tale politica economica nacque sia la bolla dei mutui subprime, con la concessione di finanziamenti bancari  per l’acquisto di immobili anche a soggetti privi di qualunque garanzia (che diventò la causa immediata ed il detonatore dell’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2007/2009), che un enorme incentivo allo sviluppo del già elevatissimo livello di indebitamento delle famiglie americane.

“I primi cinque o sei anni del 2000 videro quindi, in USA, un capovolgimento del tradizionale rapporto tra chi aspira ad acquistare una casa, e la banca che dovrebbe finanziarlo.. anziché doversi recare in banca carichi d’ansia a fornire ogni sorta di informazioni documentate su professione, occupazione, reddito, composizione della famiglia, eventuali altre proprietà o attivi, e finanche stato di salute, gli aspiranti proprietari di casa si ritrovarono assediati da falangi di procacciatori d’affari che non chiedevano nessuno dei predetti ragguagli. Per di più proponevano condizioni contrattuali attraenti – tipo un tasso d’interesse variabile, vistosamente basso per i primi due o tre anni – e mutui pari all’80 per cento, talora al 100 per cento del valore dell’immobile.

I risultati di questa campagna governativo-bancaria a favore dei mutui concessi con interessata facilità, e per questo definiti subprime o sub-standard, sono sintetizzabili in poche cifre. Nel 1997 l’indebitamento delle famiglie americane equivaleva al 66,1 per cento del Pil; nel 2007 era salito al 99,9 per cento. Si noti che il Pil USA di quell’anno toccava i 13 trilioni di dollari (13.000 miliardi). A fine anno il totale del solo debito ipotecario in capo alle famiglie ammontava a 11 trilioni. Si stima che i mutui intestati a proprietari quasi sicuramente insolvibili concessi nel solo 2006, l’anno pre crisi, ammontassero a 600 miliardi di dollari, pari a un quinto di tutte le ipoteche sulla casa stipulate in quell’anno. Il dato più critico era però l’aumento del prezzo delle case: fatto uguale 100 il livello del 2000, nel 2006 era salito a 220.

Pertanto nei primi mesi del 2007 tutto era pronto per la debtonation. L’innesco fu fornito da alcuni nuovi sviluppi. La Fed aveva aumentato i tassi di interesse. Per questo fatto, ma anche perché i procacciatori dei mutui si erano guardati bene dallo spiegare loro che cosa poteva significare, col tempo, la clausola contrattuale “a tasso variabile”, centinaia di migliaia di proprietari di casa che avevano stipulato il loro mutuo due o tre anni prima che scoprirono che la rata mensile aveva subito forti aumenti, anche del 100 per cento. Il loro modesto reddito non permetteva di farvi fronte; quindi smisero di pagare. Il valore delle case scese rapidamente sotto il livello del capitale da rimborsare. Ne seguì un’ondata di sequestri, per cui il valore degli immobili scese ancora.”[12]

Non si tratta di storia passata, seppur recente: fin dall’inizio del 2010 gli indici del mercato immobiliare statunitense hanno ripreso a scendere, indice US National e S&P/Case Shiller mostrando un settore immobiliare di nuovo in crisi profonda, dopo una breve ripresa durata un anno.[13]

Il vero problema  è che negli USA “l’ondata di sequestri di immobili e la profonda depressione sia del mercato immobiliare che del settore edilizio statunitense sono continuati fino all’inizio del 2012 e, con tutta probabilità, continueranno a produrre i loro negativi effetti anche nel biennio 2012-2013, e anche supponendo l’inesistenza del doble-dip recessivo in terra americana.

Come hanno  notato gli esperti del settore, ancora all’inizio del 2011 “il valore del mercato immobiliare dal 2000 si è ridotto del 36%” con una dinamica che continuerà ad aggravarsi nel futuro prossimo, “perché un gran numero dei mutui per la casa, senza contare i subprime, sono costruiti in modo da avere un sostanziale aumento della rata dopo un paio d’anni dalla stipula, in particolar modo nei periodi tra il 2011 ed il 2012. Ed è qui che entra la fregatura, in quanto numerose famiglie già in difficoltà con il pagamento delle rate dei mutui per colpa della crisi, riceveranno la stangata finale, in particolar modo nei periodi tra il 2011 ed il 2012”.[14]

Proprio a causa del crollo dei prezzi immobiliari americani, molti esperti (tra cui Mario Margiocco) quantificano in ben 5000 miliardi di dollari i prestiti bancari forniti in questa sfera produttiva che dovranno essere svalutati in modo assai pesante, con inevitabili ricadute sui bilanci (falsati) degli istituti finanziari statunitensi.

Come per la scadenza dei titoli di stato nazionali, pertanto, un’altra tegola sta dunque per cadere nel 2012/2013 sulla testa della già disastrata economia statunitense, elemento di crisi tra l’altro affiancata dall’enorme problema dei credit default swaps: diffusi principalmente negli Stati Uniti, e con un loro particolare effetto di moltiplicatore della crisi generale, già manifestatasi nel 2008/2010, e pronto a ripartire al galoppo anche nel prossimo triennio.

Fin dal 2007, infatti, a complicare ulteriormente il processo di sviluppo delle tendenze autodistruttive nel capitalismo statunitense (e mondiale) “sopraggiunge anche un nuovo strumento finanziario che, in teoria, avrebbe dovuto arrecare stabilità al sistema e, invece, ha agito da ulteriore moltiplicatore: i credit default swaps. Ecco in cosa consistono: il creditore ha dei dubbi sulla reale solvibilità del debitore, per cui si assicura presso un terzo (in cambio di una limitata somma come premio assicurativo) che, in caso di insolvenza, gli venga rimborsato il “valore facciale” del suo credito; alla fine del contratto, quando il debitore avrà estinto il suo debito, rimborserà al creditore anche le somme versate per l’assicurazione. Ovviamente esistono tipologie molto differenziate di CDS, ma non è il caso di entrare nel dettaglio.

Come per le altre forme di nuova finanza, anche i CDS ebbero un vistoso successo iniziale:

i Credit Default Swaps sono diventati uno degli strumenti di maggior successo  nella storia della finanza. Il valore “teorico” dei Credit Default Swaps – vale a dire la parte dei portafogli finanziari coperta da accordi sul rischio di insolvibilità dei crediti – è cresciuto dai 1.000 miliardi di dollari del 2001 ai 45.000 miliardi di dollari del 2007.

In sé l’idea era quella di farli agire da stabilizzatori del mercato finanziario, ma accadde che lo stesso assicuratore potesse riassicurarsi con un terzo e questi con un quarto e così via. Ovviamente, la crescita dei costi sarebbe stata scaricata sull’utente finale, ma nel frattempo i vari CDS potevano essere scambiati, riassemblati con altri titoli e commercializzati ecc. ed era possibile anche cederli senza la proprietà dei titoli sottostanti. Di Nola si domanda:

[…] come mai, all’inizio del 2008, il mercato obbligazionario mondiale, sommando titoli societari e municipali, non arrivava a 30.000 miliardi di dollari, mentre il valore di quelli assicurati superava i 65.000 miliardi ed è quasi raddoppiato in un solo anno? La spiegazione della moltiplicazione miracolosa risiede nel fatto che, col passare del tempo, all’utilizzo assicurativo dei CDS si è aggiunto un vorticoso giro di scommesse collegate ai rischi finanziari: una vera e propria Las Vegas del rischio finanziario. Speculazione, insomma.

Dunque i CDS finirono per diventare a loro volta un moltiplicatore di instabilità finanziaria per il concorso di un insieme di fattori: il meccanismo perverso delle riassicurazioni, l’incrocio con altri tipi di “prodotti finanziari”, la leggerezza con la quale molti operatori agirono, la totale assenza di norme che regolamentassero in qualche modo la possibilità di incrociare le varie tipologie contrattuali e la loro successiva commercializzazione”.[15]

In presenza dello scoppio di una nuova recessione, i CDS si trasformeranno di nuovo in fattori di acuta amplificazione della crisi produttiva e finanziaria, proprio e soprattutto partendo dagli Stati Uniti, attaccando di nuovo il suo (già pericolante) sistema bancario ed assicurativo, aggravati da sofferenze e crediti insolvibili pari a migliaia di miliardi di dollari.

Si è notato che, da sola, la grande banca JP Morgan Chase “ha contratti sui derivati per 78 trilioni di dollari…

Cinque banche hanno il 96% dei 250.000.000.000.000 di $ in derivati americani.

L’ultimo rapporto trimestrale dell’Office Of the Currency Comptroller è appena uscito e come al solito ci presenta in un formato incisivo, chiaro e molto impressionante il fatto che le 4 banche più grosse negli USA contano nel sistema finanziario per un ammontare di rischio da derivati massicciamente sproporzionato.

Nello specifico, dei 250 trilioni di dollari, in valore nominale lordo in contratti derivati (comprese Interest Rate, FX, Contratti Equity, Commodity e CDS) delle 25 maggiori banche commerciali (un numero che sale a 333 trilioni di dollari se guardiamo alle 25 principali Bank Holding Companies) 5 banche da sole (in realtà 4) contano per il 95,9% di tutte le esposizioni sui derivati (la HSBC ha rimpiazzato la Wells nella top 5 delle banche, che con i suoi “soli” 3,9 trilioni di dollari in esposizione nei derivati è ben distante dalla Goldman, 4° classificata, coi suoi 47,7 Trilioni).

Le top 4:

JP Morgan Chase, 78 trilioni di esposizione in derivati;

CitiBank, 56 trilioni di esposizioni in derivati;

Bank of America, 53 trilioni in esposizione in derivati;

Goldman Sachs, 48 trilioni di esposizione in derivati.

Queste quattro insieme fanno il 94,4% dell’esposizione totale.

Come da tradizione il cuore dell’esposizione consolidata sono gli Interest Rate swaps (204,6 trilioni di dollari) seguiti dai FX (26,5 trilioni di dollari), i CDS (15,2 trilioni di dollari), e le Equity e le Commodity, con 1,6 trilioni di dollari rispettivamente.

Ed eccovi servita la definizione di Too Big To Fail, troppo grosse per crollare: le banche più grosse non solo stanno diventando sempre più grosse ma la loro esposizione al rischio ha raggiunto i massimi di sempre in crescita di 5,3 trilioni nel primo trimestre, visto che per generare un penny in più di ritorno devono rischiare sempre di più nel mercato dei derivati”.[16]

La situazione non migliora, per il disastrato “Titanic-USA”, neanche sul fronte della bilancia commerciale e dei debiti contratti con l’estero: ormai dal 1970 gli Stati Uniti vivono largamente al di sopra dei propri mezzi anche rispetto al rapporto di interscambio con i paesi esteri.

Come ha notato M. Di Nola ancora nel 2008, “la parte preponderante del debito complessivo americano è ancora coperto dal risparmio interno. Ma una quota crescente sta passando in mano a soggetti stranieri che posseggono titoli di Stato, obbligazioni e certificati di credito americani per un ammontare pari a 6.800 miliardi di dollari. Se si aggiungono azioni di società e altri titoli in mano a soggetti esteri si arriva a una cifra stimata superiore ai 12.000 miliardi. E’ questo afflusso di capitali che permette all’America di vivere “al di sopra dei propri mezzi”.[17]

Rispetto agli squilibri (attuali e futuri) della bilancia commerciale degli USA, va notato che nel solo mese di giugno del 2011 il disavanzo era risultato equivalente a ben 53,07 miliardi di dollari, diventando pari a circa 600 miliardi di dollari (il 4% del Pil statunitense…) nell’intero 2011, con una dinamica, che con tutta sicurezza continuerà (in assenza di catastrofi) anche nel 2012/2014, nel migliore dei casi ad un ritmo lievemente rallentato.

La Cina ha ben valutato le modalità ( = produzione di capitale fittizio) con cui gli USA hanno “affrontato” il loro deficit commerciale.

“Così ne parla Ding Zhijie[i] su The Economic Daily del 7 dicembre 2011. L’autore dell’articolo, matita alla mano, fa una cosa che oramai nell’economia non si USA più: i conti: “dall’inizio del 21° secolo, il deficit commerciale e in conto corrente degli Stati Uniti è in costante crescita e ha superato il 4 per cento del prodotto interno lordo nella maggior parte degli anni” (presi in considerazione)” dal 2002 al 2007 Il Dollaro USA si è deprezzato quasi del 33 per cento nei confronti delle altre maggiori valute, mentre il suo deficit commerciale è passato da 361,8 miliardi di Dollari nel 2001 a 696,7 miliardi di Dollari nel 2007”.

Dal 2002 al 2010, il deficit totale nel commercio di beni è stato pari a circa 6.100 miliardi di dollari e il disavanzo delle partite correnti ha raggiunto complessivamente i 5.400 miliardi di dollari, ma il nuovo debito estero totale aggiunto è stato solo di circa 600 miliardi di dollari”.

Un “miracolo” quindi! A cosa si deve la sparizione di tanti miliardi di dollari dal fardello del debito americano? Vediamo la risposta di Ding: “La causa di questa situazione è stata la variazione del valore azionario. La scala di tale variazione di valore è estremamente grande, e la sua influenza sui crediti e di debiti degli Stati Uniti è persino superiore a quella della sua bilancia dei pagamenti internazionali. Gli americani chiamano tutto ciò la “materia oscura” che scorre incessantemente verso gli Stati Uniti proveniente da tutto il mondo. Nei nove anni tra il 2002 e il 2010, il reddito che gli Stati Uniti hanno ottenuto dalla “materia oscura”[ii] ammonta a 4.300 miliardi di dollari.” Questo tipo di capitale fittizio è difficilmente dichiarato, in quanto esso è la questione di sopravvivenza del Capitalismo stesso oggi. Non sapendo come chiamarlo in USA gli hanno dato il nome di “materia oscura” (G.Bellini, “I venti giorni che sconvolgeranno il mondo”).

Troppi debiti e disavanzi, accumulati da troppo tempo: la “festa” statunitense sta ormai avvicinandosi rapidamente alla fine…

Ulteriori elementi di autodistruzione a breve termine del capitalismo statunitense, il probabile  “double-dip”: e cioè il rapido rientro e ricaduta dell’economia USA in uno stato di stagnazione neanche due anni dopo la fine del precedente ciclo economico ed a partire dal gennaio/marzo del 2011, a dispetto di due fattori che in linea teorica avrebbero dovuto portare come minimo ad un boom prolungato dell’economia americana: l’enorme deficit statale e tassi di interesse pari quasi a zero, quasi quelli concessi dalla Federal Reserve.

I dati per il 2011 non lasciano spazi a molti dubbi, come del resto le previsioni (anche quelle più ottimistiche) per il biennio 2012/2013: del resto già nell’agosto del 2011 un vecchio “squalo” della finanza mondiale come G. Soros aveva annunciato in un intervista allo Spiegel la prossima entrata degli USA nella recessione, mentre quasi nelle stesse ore nelle quali la gigantesca Bank of America annunciava sofferenze di credito pari a 1.000 miliardi di dollari e perdite di 8,8 miliardi nel secondo trimestre del 2011.[18]

E’ appena il caso di ribadire i pesanti effetti di una caduta anche solo in uno stato di stagnazione dell’economia americana, a partire dal fronte del suo già disastrato bilancio statale.

Ulteriore ed importante fattore di accelerazione della crisi americana, già rilevato in precedenza, “l’ingorgo” gigantesco che si verificherà nel mercato finanziario (privato e pubblico) mondiale durante il triennio 2012/2014: nel periodo in esame, infatti, bisognerà rifinanziare su scala planetaria obbligazioni e titoli di stato per un importo pari a decine di migliaia di miliardi di dollari, creando inevitabilmente una super-scarsità di offerta di denaro a tal fine, con l’unica eccezione cinese.

Come ha notato C. Mezzanzanica alla fine del 2011, “l’anno prossimo in tutto il mondo scadono 11.550 miliardi di bond statali, e non. Italia in prima fila: Btp 350 miliardi, Unicredit 30, Intesa 24, Telecom 8.

L’allarme di Vegas sulla crisi di liquidità del sistema bancario italiano non va assolutamente sottovalutata. Siamo, infatti, alla vigilia dell’anno horribilis per la finanza mondiale. Nel 2012 dovranno essere rifinanziati titoli di stato per 11.550 miliardi di euro, par ad un sesto del Pil mondiale. Le banche europee, secondo le dichiarazioni di Draghi hanno in scadenza titoli propri per 800 miliardi. A tutto ciò dobbiamo aggiungere le scadenze dei titoli delle aziende – quasi ottocento miliardi solo in Europa – delle banche americane ed asiatiche. Occorre quasi un quarto del Pil mondiale per fare fronte a questa necessità finanziaria. Questo se il debito – privato o pubblico che sia – non aumenta. Secondo il Fmi, senza adeguati interventi, il debito dei primi 24 stati dell’occidente salirà di 364 miliardi. Cioè è destinato ad aumentare.

Nel corso del 2011 il fabbisogno finanziario è stato pari al 60% circa di quello previsto per il prossimo anno. Eppure tensioni non sono mancate. Cosa succederà il prossimo anno? Il 70% del debito pubblico è composto da emissioni di Giappone e USA. Tokio ha bisogno di rinnovare 3500 miliardi, Washington 4500. Per l’Italia si tratterà di un anno record: sono oltre 350 miliardi i titoli del debito pubblico in scadenza. Sul fronte dei privati, Unicredit ha in scadenza 30 miliardi, Intesa San Paolo 24 miliardi. Tra le aziende la più esposta è Telecom, con quasi 8 miliardi di dollari e Fiat: 1,25 miliardi (al tasso esorbitante del 9,25%) emessi tre anni fa. Anche altrove non stanno meglio. La francese Bnp Paribas da sola dovrà rinnovare  propri titoli per 270 miliardi di dollari, e, in generale, la Francia ha il 50% della esportazione a breve in tutta la Comunità Europea.” (Contropiano, 2/12/2011).

Uno scenario da incubo, per il capitalismo (a partire da quello statunitense).

Infine, ma non certo per importanza, viene prevista che la crisi del “commercial paper” (forme di pagherò cambiario emesse dalle aziende, con scadenza massima a 270 giorni) toccherà un suo nuovo apice proprio nel corso del 2012: alcuni ricercatori autorevoli, come la canadese Caroline Cakebread, hanno evidenziato sia l’estensione quantitativa dei titoli di credito in esame, pari a centinaia di miliardi di dollari, mentre fa capolino la necessità di un intervento statale degli USA per frenare le bancarotte legate ai commercial paper non finanziari. Ad esempio è stata sottolineata l’importanza – nascosta e sottaciuta dai mass media occidentali – della creazione di un organismo parastatale come il nuovo Resolution Trust Corp, una sorta di “aspirapolvere statale in grado di assorbire polvere e sporco finanziario, …accompagnate da un supporto per 230 miliardi” (di dollari) “alle asset backed commercial paper” degli USA già nel corso del 2008, in un processo d’aiuto pubblico al capitalismo/processo di accumulazione privata che si potrebbe e si dovrebbe ripetere anche nel corso del 2012/2014 (avendo a disposizione la “pecunia”, certo).[19]

Per quanto riguarda la disastrosa situazione socioproduttiva degli USA nel 2011, il sito Economic Collapse nel dicembre del 2011 ha rilevato, dati alla mano, che:

“1) Uno sconvolgente 48 per cento di tutti gli Americani è considerato a “basso reddito” o vive in povertà.

2) Circa il 57 per cento di tutti i bambini negli Stati Uniti vive in famiglie considerate a “basso reddito” o impoverite.

3) Se il numero degli americani che “cercano un lavoro” fosse lo stesso di quanto era nel 2007, il tasso “ufficiale” di disoccupazione rilasciato dal governo sarebbe superiore dell’11 per cento.

4) Il periodo medio di disoccupazione di un lavoratore negli Stati Uniti è ora superiore alle 40 settimane.

5) Un recente sondaggio ha rilevato che il 77 per cento delle piccole imprese statunitensi non ha in progetto l’assunzione di lavoratori.

6) Ci sono oggi meno lavori retribuiti negli Stati Uniti di quanti ce ne fossero nel 2000 anche se si sono aggiunte 30 milioni di persone alla popolazione da allora.

7) Dal dicembre del 2007, il reddito medio delle famiglie negli Stati Uniti è calato del 6,8% se viene calcolata l’inflazione.

8) Secondo il Bureau of Labor Statistics, 16,6 milioni di Americani erano lavoratori autonomi nel dicembre del 2006. Oggi questo numero si è ridotto a 14,5 milioni.

9) Un sondaggio di Gallup dell’inizio di quest’anno ha scoperto che circa un americano su cinque che ha un lavoro si vede già come un disoccupato.

10) Secondo l’autore Paul Osterman, circa il 20 per cento di tutti gli adulti negli USA stanno svolgendo lavori pagati con stipendi a livello di povertà.

11) Nel 1980 meno del 30% di tutti i lavori negli Stati Uniti erano a basso reddito. Oggi più del 40% di tutti gli impieghi negli Stati Uniti è a basso reddito.

12) Nel 1969 il 95 per cento di tutti gli uomini tra i 25 e i 54 anni aveva un lavoro. A luglio solo l’81,2 per cento degli uomini di questa fascia di età aveva un lavoro.

13) Un recente sondaggio ha rilevato che un americano su tre non sarà in grado di pagare il mutuo o l’affitto il mese successivo se dovesse perdere improvvisamente il lavoro.

14) La Federal Reserve ha recentemente annunciato che la ricchezza totale netta delle famiglie statunitensi è calata del 4,1 per cento solo nel terzo quarto del 2011.

15) In base a un recente studio condotto dal BlackRock Investment Institute, il rapporto tra debito delle famiglie e reddito negli Stati Uniti è ora del 154 per cento.

16) Se l’economia ha rallentato, lo stesso hanno fatto i matrimoni. Secondo un’analisi del Pew Research Center, solo il 51 per cento di tutti gli americani che hanno almeno 18 anni sono al momento sposati. Nel 1960 il 72 per cento di tutti gli adulti negli USA erano coniugati.

17) L’U.S. Postal Service ha perso più di 5 miliardi di dollari nello scorso anno.

18) A Stockton in California i prezzi delle case sono diminuiti del 64 per cento dal valore di picco del mercato immobiliare.

19) Il Nevada ha il più alto tasso di sgomberi per mutui non pagati della nazione da 59 mesi consecutivi.

20) Da non credere, ma il prezzo medio di una casa a Detroit è di circa 6.000 dollari.

21) Secondo l’U.S. Census Bureau, il 18 per cento di tutte le abitazioni nello stato della Florida è vuoto. Questo dato è del 63 per cento più alto di quanto fosse dieci anni fa.

22) Nel 2011 la costruzione di nuove case negli Stati Uniti è sul punto di stabilire il nuovo minimo di tutti i tempi.

23) Come ho già scritto in precedenza, il 19 per cento di tutti gli uomini americani tra i 25 e i 34 anni ora vive con i genitori.

24) Le bollette dell’elettricità negli Stati Uniti sono cresciute più del tasso di inflazione da cinque anni consecutivi.”

Valutazione approssimativa del capitale fittizio USA fuori confine

 

Tipologia di uso internazionale Miliardi $
  1. Il Dollaro come cash (circolante) internazionale
668
  1. Il Dollaro come strumento di intervento negli accordi di cambio
100
  1. Il Dollaro  nelle riserve estere
3.506
  1. Il Dollaro nei mercati internazionali/moneta di fatturazione
35.457
  1. Il Dollaro nelle transazioni  finanziarie internazionali
0
a)      International debt Securities (outstanding) 11.199
b)      Cross-Border Foreign Currency Liabilities of Non-U.S. Banks 12.048
Totale 62.978

 

Conclusione

 

Adesso abbiamo una quantificazione, certamente discutibile e puramente indicativa di una parte del Capitale fittizio prodotto dagli USA. Questa parte, esterna, deve essere sommata alla parte interna, fatta dai titoli del tesoro americano detenuti dalla Fed e dai privati, dalla massa monetaria creata negli ultimi anni, dalle riserve bancarie non obbligatorie e così via. Mancano, attenzione, tutti i prodotti derivati, che fanno storia a parte per la loro instabilità e pericolosità. In vero problema è che probabilmente l’insieme dei capitali fittizi prodotti supera le quattro volte il valore, pur discutibilissimo, del prodotto nazionale degli stessi Stati uniti. Un debito non ripagabile: È chiaro che non ci si può attendere da nessuno, come ha dimostrato la Grecia, di produrre senza consumare per periodi prolungati. E per pagare gli USA dovrebbero lavorare, esportare senza spendere nulla e senza importare per alcuni anni. Fantascienza, soprattutto se questo nessuno dispone di uno degli arsenali più distruttivi e costosi del pianeta e lo ha dislocato in ogni dove” ( G.Bellini, “I venti giorni che sconvolgeranno il mondo” p.75-76”).

Ma non sono ancora finite le cattive notizie, per il capitalismo statunitense (e, a catena, mondiale)?

No, perché bisogna anche rifocalizzare l’attenzione sull’elemento negativo principale della “terza sfera” di tendenze autodistruttive in via d’esame, che riguarda appunto la specificità del capitalismo statunitense: e cioè il “no tengo dinero”, la fine quasi totale dell’efficacia dei tradizionali, normali e non-bellici strumenti di salvezza economici dell’“azienda-USA”, utilizzati (senza catastrofi) su vasta (e costante) scala dal 1929 fino al 2007/2011.

Il principale strumento di salvezza, la più potente “rete di protezione” consisteva ovviamente nell’uso del deficit statale per stimolare l’economia, attraverso la combinazione dialettica e mutevole tra welfare state (partendo dal New Deal del 1933/45 di Roosevelt) e warfare state, con le enormi risorse destinate all’attività (ed ai lucrosi profitti) del complesso militar-produttivo degli USA, fin dal 1939/41.

Ora, questo strumento di salvezza si è convertito dopo il 2007, se non prima, in uno strumento di rovina e di autodistruzione del capitalismo statunitense e il “più” algebrico si è trasformato in un “meno”. Non solo nessun governo statunitense può ormai utilizzare il processo di allargamento del deficit statale per contrastare la crisi, stagnazione/recessione del sistema produttivo e finanziario interno, ma viceversa si deve invece ridurre rapidamente il ritmo di crescita del debito pubblico, a Washington come nei singoli stati americani (California, ecc.).

La “medicina” si è trasformata in un “veleno”: un fenomeno epocale per il capitalismo di stato americano (e mondiale), un incubo che continuerà a tagliar a zero i margini di manovra per la sfera politica statunitense, in assenza di “scossoni tellurici” quali il default, la guerra o … l’“ipotesi Hong Kong”.

Il secondo strumento (tradizionale e normale, non catastrofico) di salvezza per il capitalismo statunitense era costituito dalla riduzione dei tassi d’interesse, al fine di stimolare l’economia, in fasi recessive o di difficoltà crescenti. Un mezzo anticiclico sicuramente utile, ma il “piccolo” problema è che fin dal 2009 la Federal Reserve li ha portati quasi a zero (0,25%), ed il massimo che essa può (e deve…) fare in questo scenario disastroso al massimo risulta … tenerli a zero, come del resto ha promesso Bernanke nell’agosto del 2011 per i prossimi due anni.[20]

Nessuno spazio di manovra, anche in questo campo, i margini d’azione sono già stati “bruciati” in precedenza …

Un nuovo piano di stimolo/salvezza dell’economia statunitense, come nel 2008 e 2009, alias una nuova ondata di acquisti di assetti finanziari bancari e/o titoli di stato americani da parte della FED, la tanto annunciata terza fase del  Q. E.  (quantitative easing)? Potrà al massimo ammortizzare gli effetti dell’“ingorgo” finanziario (e di riemissione di titoli di stato USA) previsto per il 2012, ma già il 4 ottobre del 2010, Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, avvertiva il Congresso americano dei limiti oggettivi per i futuri interventi della banca centrale a sostegno dell’economia,  invitando anzi i legislatori a non tagliare la spesa pubblica troppo velocemente per non deprimere ulteriormente la già declinante azienda-USA.

Una nuova e più pesante riduzione del potere d’acquisto dei salariati statunitensi?  Ma essi sono anche consumatori, ed il consumo pesa per circa il 70% del PIL statunitense: ridurre i loro salari determinerebbe quindi il calo dei consumi dei generi non di lusso, diminuendo il PIL ed aggravando le tendenze recessive, per non parlare poi delle conseguenze politiche di tale “mossa”.

Un aiuto dall’esterno, un nuovo “Piano Marshall” questa volta a favore del capitalismo americano e del “Titanic-USA”?

Il Giappone è escluso: ha un debito statale enorme, una recessione in corso e soprattutto … “ha già dato”: infatti nell’estate del 2011 la potenza nipponica aveva già nelle sue mani 912 miliardi di dollari di crediti verso gli USA.[21]

Anche Taiwan ed Hong Kong hanno già dato una mano allo “zio Sam”: rispettivamente 153 e 122 miliardi di dollari di titoli di stato e valuta USA già nelle loro mani, risultando al sesto e ottavo posto in questa particolare classifica …

La Gran Bretagna, nell’estate del 2011 aveva già accumulato 347 miliardi di dollari di crediti verso Washington, oltre ad esprimere a sua volta uno stato di salute economico appena meno disastrato del suo “cugino” anglosassone, con un rapporto deficit statale/PIL vicino al 9% nel 2011; “no tiengo dinero”, ancora una volta.

L’Europa di Maastricht? Con i “piccoli” problemi che ha già al suo interno, rispetto al debito sovrano di Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia (i cosiddetti “PIIGS”), ha a sua volta un urgente bisogno di un nuovo piano Marshall e di aiuti esterni …

I petrostati del Golfo?  Già possiedono circa duecento miliardi di dollari di crediti rispetto agli USA e con il prezzo del petrolio attuale, anche i margini di intervento a loro disposizione sono limitati, senza tener conto di “piccoli” problemi quali la Libia e l’incerta, fragilissima stabilità dell’intera area mediorientale.

Certo, rimane la Cina popolare con la sua enorme e crescente massa di riserve in titoli di stato e valuta straniera, ma qui entriamo in un discorso particolare che rimanda, in ultima analisi, all’“ipotesi Hong Kong”: nel resto del mondo, regna il deserto per l’assetata superpotenza (militare) statunitense.

Avviare un’iperinflazione, per abbattere il valore reale dell’enorme massa del debito pubblico USA? Anche tralasciando altri fattori negativi (crollo del potere d’acquisto dei consumatori americani, ecc.), in questa ipotesi – già sperimentato nella Germania di Weimar del 1923 – aumenterebbero a dismisura parallelamente anche i rendimenti che dovrebbero offrire agli investitori i titoli di stato degli USA. Certo, a meno di effettuare anche un default, ma qui entriamo in un altro scenario ed opzione, non tradizionale e assai … catastrofico.

Terz’ultima arma (della disperazione): l’intervento della Federal Reserve nell’acquisto dei titoli di stato americani, alias l’intervento di un ente parastatale (la FED) che compri debiti pubblici emessi dal suo paese di appartenenza.

Il problema è che anche questo strumento “da desperados” è già stato ampiamente e lungamente utilizzato dopo il 2009, dal capitalismo statunitense e dai suoi mandatari politici (e politico-economici): tanto intensamente che, verso la metà del 2011, proprio la banca centrale statunitense era diventata il primo possessore al mondo (superando di gran lunga la stessa Cina) del debito pubblico degli USA, avendo ormai acquistato ben 1.600 miliardi di t-bond americani.

Spazi di manovra assai ristretti, anche in questo campo…

Penultimo strumento (ma già quasi “straordinario”, ed al limite della rottura): far saltare pacificamente e senza guerre almeno uno dei concorrenti internazionali, e cioè…l’Europa di Maastricht.

Come ha notato A. Giannuli il 3 febbraio del 2012, senza notare l’intervento statunitense e britannico (con Goldman Sachs e le agenzie di rating Usa) “in qualche modo dovremmo pur spiegare come mai, all’improvviso i mercati hanno scoperto la fragilità di Italia, Francia ecc. (Grecia,   Spagna e Portogallo non c’entrano perché già in forte crisi sui mercati internazionali), lo hanno fatto in modo sistematico mentre non si accorgono della fragilità inglese. Che tutto questo è accaduto in sintonia con le agenzie di rating che “per errore” hanno fatto uscire comunicazioni riservate sui giornali eccetera eccetera.

Ma perché gli Usa farebbero tutto questo? Mi si chiede ripetutamente. Credevo di averlo detto, ma vedo che devo aggiungere qualche particolare. In primo luogo distinguiamo Walll Street dalla Casa Bianca, penso che le due entità, probabilmente, stiamo agendo in tacita intesa, ma per motivi diversi da analizzare distintamente. E allora:

1-      Wall Street ha disperato bisogno di denaro in questo anno in cui scadono titoli ad alto rischio per una quantità superiore otto volte alla media annua. Le banche sono molto esposte su questo versante. E questo non sarà un anno facile, perché in tutto il mondo occorrerà rifinanziare i titoli per la cifra record di 11.500 miliardi di dollari ed è opinione comune e fondata che una fetta di questi non lo sarà, perché una parte degli investitori preferisce l’oro o altre commodity, perché c’è il problema della ricostruzione di Fukushima, perché comunque occorre pagare gli interessi ecc.

Obiezioni su questo punto?

2-      Non direi che gli americani (per essi intendono Fed e Amministrazione) possono rifinanziarsi “con una pipata di tabacco”: il giochino del quantitative easing non può andare avanti all’infinito ed è già al limite di rottura, proprio per le ragioni che dice Lamberto  (vedi commenti al precedente articolo), a cominciare dalle reazioni negative di quanti (come Cina o Brasile) detengono grossi stock di debito americano. E peggio ancora se la mettiamo sul versante del debito, dove un nuovo innalzamento del tetto, con quel che ne consegue, andrebbe incontro alla più furibonda opposizione dei repubblicani (che sono maggioranza al Congresso) e siamo a dieci dalle elezioni. D’altra parte, se i titoli americani (che oggi hanno un rendimento netto nullo o negativo) non fossero percepiti più come relativamente più sicuri di altri (rating o non rating) occorrerebbe stimolare la loro domanda offrendo interessi più alti: proprio quello che Obama non può permettersi.

Obiezioni su questo punto?

3-      Che vantaggi verrebbero agli USA da un crollo dell’euro? In primo luogo questo avrebbe il contraccolpo di una moneta tedesca molto più forte, quel che ostacolerebbe le esportazioni tedesche verso gli USA e il resto d’Europa (e, se non sbaglio, la Germania è il paese europeo che esporta di più verso gli USA). In secondo luogo, il dollaro si toglierebbe dai piedi un concorrente sgraditissimo dal suo sorgere.

Obiezioni su questo punto?

4-      Per altro, al di là dei calcoli economici ci sono anche quelli politici di cui non si parla mai. Gli USA devono rivedere la loro strategia mondiale: costretti al taglio delle spese militari mentre quelle di indiani, cinesi, russi ecc. crescono, sanno di non farcela più da soli a garantire l’egemonia dell’Occidente e chiamano i vecchi alleati europei a darsi da fare. Non basta più la “benevola neutralità” della UE, e neppure l’ausilio dei fidi alleati inglesi e quello intermittente di francesi ed italiani. I paesi europei devono assumersi in prima persona compiti di controllo dell’area afro-mediterranea e cooperare attivamente sugli altri scenari,   a cominciare da quello mediorientale. Questo è scritto a lettere cubitali nel documento finale della conferenza NATO del settembre 2010 a Lisbona (e, infatti,  subito dopo sono venute la guerra di Libia e l’intervento francese in Costa d’Avorio). Dato che a questo orecchio la Germania non sente e che l’esistenza stessa della UE alimenta sgradevoli tentazioni terzaforziste, una disgregazione dell’Unione Europea avrebbe come conseguenza quella di “mollare” la Germania (data comunque per persa) ma di ancorare stabilmente il resto dell’Europa occidentale agli USA  nel consueto confortante triangolo Washington-Londra-Parigi. Non ci sono solo i calcoli economici, ci sono anche quelli politici: ricordiamocelo sempre.

Obiezioni su questo punto?” (in www.megachip.info)

Il primo problema di tale strategia “pacifica” è se riuscirà a far crollare l’euro; il secondo è che, anche in caso di successo, provocherebbe delle ricadute pesanti e negative sulla stabilità della stessa economia americana; il terzo è che anche un eventuale crollo dell’euro non farebbe scomparire certo i problemi del “Titanic-USA”.

Rimane ancora all’imperialismo statunitense una potente controtendenza rispetto ai virus autodistruttivi (e combinati) delle “tre sfere” sopra esaminate, e cioè il cosiddetto diritto di signoraggio monetario.

Come ha notato Gianfranco Bellini, nelle sue “Note sulla situazione attuale” del settembre 2011, la possibilità e la concreta realtà dell’emissione sul mercato del dollaro, moneta di riferimento da sempre per gli Stati Uniti, dopo il 1941/45 si è trasformato nella realtà di un diritto di signoraggio (= i vantaggi derivanti dall’emissione di moneta allo stato-banca centrale che stampa moneta), esteso su scala internazionale e su tutto il pianeta, con enormi benefici per il capitalismo statunitense dal 1944 fino all’inizio del 2012.

“La possibilità di emettere la moneta di riferimento dà moltissimi vantaggi: il più conosciuto di tutti, ma poco importante, è il signoraggio (la parte di valore della moneta che la banca emittente si tiene) che viene privatizzato, visto che le banche di emissione sono quasi tutte private, mentre il più importante è la possibilità di fare i falsari su scala planetaria: cioè stampare moneta ben oltre la riserva fatta dall’unità di misura della stessa (ad esempio l’oro). Se poi l’unità di misura sei tu stesso, tipo di dollaro, allora limiti non ce ne sono.

Quanto “vale” in soldoni il potere d’emissione?

Ovviamente non è mai stato calcolato. E’ il segreto dei segreti: potremmo dire che il vantaggio del potere di emissione vale tra il 20%  e il 30 % dell’economia della metropoli di un impero.

Questo dato è da prendere con le pinze. I vantaggi sono tanti e difficilmente valutabili, secondo Rueff il principale è quello di disporre di capitali infiniti per gli investimenti all’estero.”[22]

In pratica il capitale fittizio di tipo monetario, creato dalla FED stampando senza sosta dollari, viene trasformato “subito in capitale reale ed utilizzabile all’estero senza passare neanche attraverso la transizione con una merce. Questo gioco lo puoi fare solo se distruggi” (o sostituisci in parte, mettendo un tot di dollari al posto di un tot di euro, di yen, ecc) “la moneta di un paese e le relative riserve, e lo invadi con la tua moneta di riferimento”.

Come è accaduto nella Germania del 1923, in tutta Europa occidentale nel 1945, in URSS e nell’Europa orientale nel 1921, e poi in Argentina, Brasile, Cile, ecc. non è andata così in Cina e nella Russia post Eltsin.

L’altro valore enorme risiede nelle anticipazioni bancarie internazionali, delle cambiali chiamate in vari modi, sterling Bills, dollar Bills, commercial paper: queste cambiali sono emesse per coprire gli scambi internazionali che di solito si svolgono con una loro unità di misura, la moneta di riferimento attuale o, per tradizione, quella precedente. Le banche del circuito emettono crediti a breve, che vendono a chi deve comprare il bene: poiché i crediti continuano a girare nascono e muoiono (resolving) in continuità e di fatto le banche creano un enorme quantità di moneta addizionale. In pratica emetti cambiali, che difficilmente saranno portate all’incasso.

Quanto costa il potere d’emissione?

Il potere di emissione ha un costo, legato alle caratteristiche dell’impero. Normalmente è il costo della forza militare (marittima o meno) e della gestione civile (nel caso dell’Inghilterra  e degli imperi coloniali), il costo diminuisce con la riduzione della presa territoriale e sulle vie di comunicazione, come accadde a Venezia e come è accaduto alla sterlina post decolonizzazione. Ma questa ultima opzione richiede particolarissime situazioni storiche, così riassumibili: il vecchio impero non ce la fa più, il nuovo (o i nuovi) non sono ancora in grado di sostituirlo pienamente, c’è lo spazio per l’infiltrarsi con la sola forza finanziaria-culturale d’influenza. Finché dura. Quello che gli inglesi chiamavano la bilancia del potere d’Europa.”[23]

Il vero problema consiste nel fatto che il signoraggio degli Stati Uniti dura solo finché la sua moneta di riferimento viene accettata da tutti i paesi, rimanendo valida come punto di riferimento mondiale: solo se, come precondizione indispensabile non sorgono seri dubbi sullo stato delle finanze statali di Washington e sulla loro concreta dinamica a breve termine.

In estrema sintesi il diritto di signoraggio internazionale di cui, dall’agosto del 1971, è stato investito il pezzo di carta denominato dollaro (senza alcun riferimento anche formale dell’oro) garantisce sicuramente anche oggi degli enormi vantaggi economici e politici all’imperialismo statunitense, ma è un diritto che l’azienda-USA rischia di perdere in tempi assai rapidi, se essa entra (o rischia di entrare) a breve in stato di default e di fallimento.

Ma visto lo stato disastroso e conosciuto ormai da tutti dalle finanze pubbliche americane, se la Cina Popolare (per fare solo un ipotesi astratta) decidesse di vendere anche solo un quarto dell’enorme massa di dollari in suo possesso cambiandoli con euro, yen, oro, ecc), la fine del diritto di signoraggio monetari dalla Federal Reserve su scala mondiale vedrebbe la sua fine, per il prevedibile effetto a catena, nel giro di pochi giorni: siamo in presenza di un diritto di peso ancora enorme, ma appesa ormai ad un filo assai sottile e che può essere tagliato in ogni momento dalle potenze straniere che non risultano aggiogate, in vario modo, al “carro imperiale” della superpotenza americana, come avviene invece nel caso di Giappone, Gran Bretagna e petrostati arabi…

Proprio tale situazione potenziale spiega la sopracitata “guerra economica” contro l’euro e la ricerca affannosa di indebolire al massimo grado possibile l’Europa di Maastricht, cercando con tale strategia innanzitutto di “esportare” buona parte delle sue contraddizioni interne in tale area geopolitica e, proprio dal luglio del 2011, si è messa in azione tale opzione.

“L’attacco speculativo di Wall Street e delle banche hedge fund della City di Londra contro i paesi europei, le banche europee, e l’euro, sta gradualmente crescendo. L’attuale crisi europea non deriva principalmente dai fondamentali economici, ma rappresenta piuttosto un assalto cinicamente programmato condotto dai finanzieri anglo-americani, la cui filosofia è il tradizionale Beggar My Neighbor. L’obiettivo è quello di spostare l’epicentro della depressione economica e finanziaria mondiale da Londra a New York sul continente europeo, e questa operazione è già in parte riuscita. Londra e New York stanno esportando la loro depressione da derivati verso l’UE, con i credit default swaps, il corrotto rating delle agenzie, e la loro panoplia di sporchi trucchi finanziari. Non si tratta qui del normale funzionamento dei mercati; abbiamo a che fare con tutti i mezzi di guerra economica.

I banchieri zombie di Wall Street mirano ad una rottura caotica dell’euro con l’intenzione di acquistare il vecchio continente a prezzi stracciati. Gli sciacalli della città di Londra stanno cercando di distruggere l’euro come mezzo per soffiare nuova vita nella sterlina moribonda, in modo da mascherare il fatto che la Gran Bretagna è più in bancarotta della stragrande maggioranza degli Stati Membri dell’UE.

Gli angloamericani operano anche per distruggere l’euro come  possibile concorrente per il dollaro nel ruolo di valuta di riserva mondiale per il prezzo del petrolio. Le attività degli istituti di credito internazionali, e altre funzioni. Il dollaro è oggi così debole e instabile, che può sopravvivere solo attraverso la caduta di tutte le valute alternative.”[24]

Come secondo sottoprodotto positivo, della strategia di “attacco all’euro” l’asse anglo-statunitense spera di ricavare la messa fuori gioco di un potente concorrente nell’acquisizione di capitali per il pauroso rifinanziamento del debito sovrano, dei titoli di stato e delle obbligazioni private che il capitalismo delle due nazioni anglosassoni dovrà compiere nel pauroso triennio 2012-2014.

A questo punto tentiamo una breve sintesi.

Nel 2012 la sfera I, delle crisi/tendenze autodistruttive generali del capitalismo, si somma alla sfera II (le due tendenze autodistruttive sorte dopo il 1970, ed aggravatesi nell’ultimo decennio) che, a loro volta, si uniscono alla sfera III, agli specifici “virus maligni” espressi ed insiti nel capitalismo statunitense, il “grande malato” (nascosto, ben nascosto) del sistema.

Ma non solo: gli (tradizionali e non catastrofici) “strumenti di salvezza” del capitalismo si sono ormai trasformati in strumenti di rovina potenziale (vedi deficit pubblico), o in arnesi ormai non utilizzabili, se non con conseguenze negative assai superiori ai vantaggi che possono procurare.

Non solo: sicuramente basterebbe nel 2012/2014 l’unione dialettica tra sfera I e sfera II per mettere in gravi crisi il capitalismo statunitense, come nel 2007/2009, ma dal 2009 si è ormai aggiunto completamente l’impatto sia della piena emersione alla luce della sfera III che del venir meno, quasi totale, dell’efficacia degli “strumenti di salvezza” tradizionali (dopo il 1929) e non catastrofici dell’imperialismo statunitense.

Arriviamo pertanto all’inevitabile conclusione. Con un livello estremamente alto di probabilità, il capitalismo statunitense (e, a catena, quello planetario) va verso la catastrofe economico-finanziaria, da cui può uscire solo con tre possibili alternative, già esposti nella prefazione:

–          il default-guerra interna (più o meno strisciante) negli USA,

–          un default legato invece alla guerra  mondiale;

–          l’opzione Hong Kong.

In altri termini, le previsioni sulla dinamica a breve termine del “Titanic-USA sono più che disastrose, per il triennio 2012-2014.

In altri termini, il “normale” processo di riproduzione del capitalismo statunitense, segnato da assenza di guerre mondiali e di guerre civili intere, è venuto al termine del suo percorso.

In altri termini, nel 2012-2014 il capitalismo statunitense (e, a catena, mondiale) dovrà affrontare la “Tempesta Perfetta”, l’unione disastrosa dell’azione di molteplici sfere e tendenze di crisi, senza quasi strumenti (tradizionali e non catastrofici) di difesa e salvezza di una certa efficacia.

Moltissimi segnali, ben avvertiti da alcuni studiosi (anticomunisti) occidentali, vanno in tale disastrosa direzione di marcia.

Fin dal 2011 A. Giannuli si chiedeva, e a ragione: “ma allora, stiamo andando verso una deflazione, con conseguente recessione e magari depressione, o verso una iperinflazione ugualmente pericolosa? Oggi camminiamo su una striscia di terra fra la Scilla dell’inflazione e la Cariddi della deflazione, rischiando di subire anche gli effetti perversi di dinamiche incrociate. Non sapremmo dirlo meglio di Riccardo Sorrentino.

E’ il paradosso del 2010. Le misure monetarie e fiscali – necessarie, chieste da tutti a gran voce – hanno risolto le emergenze, ma ora presentano il conto; mentre le grandi linee di faglia dell’economia del pianeta – quelle sotterranee che hanno alimentato la crisi – sono minacciose quanto prima.

Gli interventi di emergenza della crisi hanno toccato solo la superficie dei problemi e ora creano nuovi rischi. Le banche centrali hanno fornito alle economie un diluvio di denaro, oggi a livello record, rispetto all’attività reale; ma, ha spiegato David C. Wheelock, economista alla Fed di St. Louis, “potrei portare un cavallo all’acqua quanto volete […]” se non vuol bere non beve. E’ quello che sta accadendo. Soprattutto negli USA, ma non solo lì. Con il rischio che la liquidità, abbondante e generosa, si incanali su questo o quel mercato – anche estero: le banche centrali sono nazionali, l’economia no – travolgendolo […].

“Non chiedetevi se gli stati andranno in default, ma come,” è il titolo di una ricerca di Arnaud Marès di Morgan Stanley che – partendo dall’idea che i rapporti debito/Pil non dicano tutto – prospetta un’età di “oppressione finanziaria”: inflazione, tasse più alte, quotazioni distorte dei titoli di stato […]

I nodi strutturali, quelli che hanno alimentato la crisi, non sono stati toccati”.[25]

“Non chiedetevi se gli stati” (ed innanzitutto gli …Stati Uniti d’America…) “andranno in default, ma come, …”

In parte sulla stessa lunghezza d’onda, anche Attali nel 2011 prese in esame (anche se solo come possibilità, seppur assai concreta) l’opzione più disastrosa per il capitalismo statunitense, facendola tuttavia erroneamente derivare solo da una precedente crisi disastrosa della zona dell’euro.

“Obbligati anche loro a emettere sempre più carta per finanziare il proprio debito sovrano, gli Stati Uniti saranno felici di vedere così indebolirsi quindi scomparire, un concorrente del dollaro” (l’euro) “di cui avranno fatto il possibile per minare metodicamente la credibilità. Poi si renderanno conto che loro stessi potrebbero essere la prossima vittima della crisi di fiducia negli Stati debitori. Tuttavia, gli Stati Uniti sembrano poter restare, per molto tempo ancora, dei debitori incuranti del pericolo. Dopotutto sono la prima economia del mondo, dispongono dell’esercito più forte, del maggior numero di ricercatori, e la loro valuta è tuttora utilizzata in più di tre quarti degli scambi planetari e delle riserve mondiali. Inoltre sono capaci, se lo vogliono, di risparmiare quello che serve loro per finanziarsi.

Ma la recessione, quindi la crisi che imperversa in Europa, rallenterà la crescita americana, e ciò comporterà un crollo delle entrate fiscali e un aumento delle spese. Il debito pubblico americano (che supera già ufficialmente gli 11.000 miliardi di dollari) aumenterà allora in modo vertiginoso. Il finanziamento del mercato immobiliare poggerà completamente sul governo, con una proroga della garanzia data dallo Stato federale a Fannie Mae e Freddie Mac, cioè con la nazionalizzazione di tutto il credito immobiliare negli Stati Uniti. Il dollaro allora si svaluterà nei confronti di valute considerate oggi esotiche (cinese, russa, indiana e brasiliana). Si scoprirà il quantitativo immenso di attivi dubbi riacquistati dalla Banca Centrale per finanziare il sistema bancario in crisi. In questo panorama, i buoni del Tesoro americani perderanno la notazione AAA.

Durante un certo lasso di tempo, le banche centrali dei paesi asiatici e i fondi sovrani, che detengono dei buoni del Tesoro americani, avranno ancora interesse a non lasciar crollare il corso del dollaro e compreranno i buoni a tassi un po’ più elevati. Quindi i creditori saranno sempre più rari; la FED dovrà aumentare ancora i tassi d’interesse dei buoni del Tesoro per ottenere capitali. Quest’aumento finirà per pesare molto sulle finanze pubbliche americane.  Un aumento di due punti dei tassi d’interesse farà passare l’onere del debito al di là del 40% delle entrate fiscali. E questo è l’unico indicatore serio che annuncia ai creditori l’imminenza di una grave crisi del debito pubblico.

Per ridurlo, gli Stati Uniti dovranno allora, in questo scenario così negativo, decidersi infine ad aumentare le imposte e a ridurre la spesa pubblica, facendo affondare le ultime illusioni di un ritorno alla crescita, come accadde già nel 1936 quando Morgenthau impose a Roosevelt di rinunciare al lassismo di bilancio dei primi anni del suo mandato. Il presidente americano, qualunque esso sia, sceglierà allora certamente la via dell’inflazione per evitare la depressione – un ricorso ricorrente nella storia americana: un’inflazione del 6% su cinque anni può ridurre il rapporto debito/Pil di venti punti. Accetterà anche, come extrema ratio, l’emissione e la distribuzione di somme in valuta dell’FMI, i Diritti Speciali di Prelievo (DSP). Di conseguenza verrà fabbricata nuova cartamoneta, emettendo un’altra valuta, che completerà la panoplia dei finanziamenti immaginari dei deficit pubblici, questi sì, reali.

Se non si rimette in sesto, come ha fatto così spesso nella sua storia, lo Stato americano sarà rovinato dall’inflazione. Il dollaro terrà soltanto con il beneplacito di Pechino. La crisi finanziaria apparirà allora come una tappa importante nell’accelerazione della perdita di fiducia del mondo nei confronti dell’Occidente e nello spostamento “del centro” del mondo verso l’Asia”.[26]

Si potrebbe facilmente obiettare su molti punti dell’analisi di Attali (superinflazione, senza tenere conto dell’aumento vertiginoso dei tassi di rendimento dei titoli di stato USA? Ridurre la spesa pubblica, senza tener conto dell’ulteriore effetto recessivo di tale manovra? Ecc.): ma il punto essenziale che anch’essa descrive una linea di tendenza ormai nell’aria da tempo, anche se in gran parte ancora sottovalutata nel suo peso ed effetto ravvicinato nel tempo.

In tempi ravvicinati il “Titanic-USA” sta ormai andando a sbattere contro l’iceberg. Tutto sta a vedere cosa emergerà “dall’urto”, ma per effettuare una previsione ragionevole su questo (decisivo) punto bisogna passare all’analisi/previsione della soggettività umana, in particolar luogo politico-sociale, nel presente e nel prossimo triennio, esaminando quattro sfere distinte seppur interconnesse tra loro:

–          progettualità-praxis prevedibile del nucleo dirigente comunista della Cina Popolare;

–          progettualità-praxis prevedibile delle diverse componenti/frazioni borghesia statunitense, oltre che dei loro mandatari politici;

–          progettualità-praxis prevedibile della classe operaia occidentale e dei lavoratori del “Terzo Mondo”;

–          progettualità-praxis prevedibile dei comunisti e delle forze antagoniste, nel mondo occidentale e su scala mondiale.

Partiamo dal partito comunista e dal governo cinese, in prima battuta, dal protagonista principale del triennio 2012-2014.

 

 

 

 

 


[1] Margiocco, op. cit., p. 17

[2] J. Attali, op. cit., p. 122

[3] A. Giannuli, op. cit., pp. 100-102

[4] Op. cit., pp. 103-104

[5] Op. cit., pp. 106-107

[6] “Default Stati Uniti: Pimco scommette sulla perdita di valore dei titoli di Stato USA” in http://www.ticinolive.ch

[7] Giannuli, op. cit., p. 203

[8] “Default Stati Uniti vicino. 75 trilioni di dollari di debiti”, in http://www.parrocchie.it

[9] Giannuli, op. cit., p. 203-206

[10] Op. cit., p. 202

[11] Gallino, op. cit., pp. 49-50

[12] “Double-dip servito per il settore immobiliare USA”, 30 novembre 2010, in internationalmarketandmore.finanza.com

[13] “Come ti stabilizzo l’esplosione di una bolla”, 31 marzo 2010, in http://www.ilgrandebluff.info

[14] “USA: mutui casa e crisi del mercato immobiliare”, marzo 2011, in http://www.mutuiperlacasa.com

[15] Giannuli, op. cit., pp. 49-50

[16] “Centinaia di  trilioni di dollari in derivati”, 1/10/2011, in http://www.comedonchisciotte.org

[17] Giannuli, op. cit., p. 202

[18] “USA, cresce richiesta sussidi e sale incubo double-dip”, 19 agosto 2011 in economia.bloglive.it

[19] “La caduta degli Dei! La verità è figlia del tempo”, 21/9/2008, in iceberg.finanze.splinder.com

[20] “Fed, economia peggio del previsto, tassi USA a zero per altri due anni”, il Sole 24 Ore, 10 agosto 2011

[21] “Scheda: i signori del debito americano”, 6 agosto 2011, in partecinesepartenopeo.worldpress.com

[22] G. Bellini, “Note sulla situazione attuale”, settembre 2011

[23] Op. cit.

[24] W. G. Tarpley, “L’Euro deve combattere gli attacchi speculativi anglo-americani”, 18/10/2011, in Global Research

[25] A. Giannuli, op. cit., pp. 99-100

[26] J. Attali, op. cit., pp. 121-123

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