La teoria dell’effetto di sdoppiamento costituisce un insieme coordinato di tesi
sulla storia universale degli ultimi undicimila anni, che si scontra frontalmente
con le concezioni ancora dominanti nel campo anticapitalista rispetto alla dinamica
generale del processo di sviluppo del genere umano, per tre ragioni e cause
fondamentali:
– si tratta di una concezione multilineare ed antideterministica della dinamica
storica, alternativa a quella deterministica ed unilineare del materialismo
storico “ortodosso”;
– essa introduce la categoria storico-concreta di campo di potenzialità nel
processo di sviluppo storico post-paleolitico, mai applicata a livello generale
dal marxismo ortodosso;
– rileva e consente il primato della sfera politica (politico-economica, politicosociale,
ecc.) su quella economica, dopo il 9000 a.C. e la produzione costante
di surplus accumulabile per la prima volta nella storia del genere umano,
invertendo il primato invece attribuito dal materialismo storico “ortodosso”
alla seconda ed alla riproduzione dei processi di produzione sociali.
In estrema sintesi, la teoria dell’effetto di sdoppiamento rappresenta un primo
momento di sviluppo di un nuovo paradigma di interpretazione della dinamica
storica complessiva del genere umano dopo il 9000 a.C., fino ai nostri giorni ed almeno
per i prossimi due secoli, anche nel caso ottimale (probabile, ma non scontato)
di un successo globale nella costruzione di un modo di produzione comunistasviluppato,
basato sul principio del “a ciascuno secondo i suoi bisogni” applicato
su scala mondiale: un nuovo paradigma che, se deve essere valutato e giudicato
attraverso la pratica storica per la sua conferma/falsificazione, risulta in ogni caso
sicuramente alternativo sia rispetto alle moderne concezioni filocapitalistiche della
storia, che al modello generale di sviluppo storico proposto comunemente dal tradizionale
materialismo storico, nelle sue articolate “scuole” e tendenze.
Conservando ovviamente tutti i lati positivi di una corrente generale di pensiero,
quella marxista-tradizionale, che sotto tutti gli aspetti ha “fatto scuola”: prospettiva
comunista e scelta di campo a favore dei produttori diretti, importanza
dello sviluppo delle forze produttive sociali e delle condizioni di vita materiali dei
diversi gruppi sociali umani, categoria storico-teorica dei modi di produzione e
del loro sviluppo dinamico, contraddizioni tra forze produttive e rapporti sociali
di produzione/distribuzione, rilevanza della lotta tra classi/frazioni di classi (ivi
compreso il suo livello superiore, quello rivoluzionario).
IDENTIKIT DI UNA TEORIA
La teoria in oggetto ha alla sua base un presupposto materiale fondamentale,
prima e senza del quale l’effetto di sdoppiamento non poteva assolutamente manifestarsi
nella dinamica universale di sviluppo del genere umano: l’emersione del
fenomeno della produzione di un surplus costante (effetti geoclimatici permettendo)
ed accumulabile con relativa facilità, attorno al 9000 a.C. e nell’area mediorientale,
grazie ed attraverso le scoperte sociali dell’agricoltura e dell’addomesticamento
degli animali, processo poi replicatosi con modalità autonome nell’area
geopolitica cinese (8500 a.C.), mediterranea (6500 a.C.) e dell’America Latina (3500
a.C.) e capace di originare le prime strutture protourbane (Gerico, ecc.).
Se per assurdo, se per un’arcana “magia nera” la pratica produttiva umana
avente per oggetto (tra l’altro) l’agricoltura e l’allevamento perdesse la sua “magica”
capacità di produrre un’eccedenza stabile, costante e conservabile rispetto ai
bisogni basilari di autoriproduzione del genere umano, l’effetto di sdoppiamento
sparirebbe simultaneamente ed immediatamente, sia in campo teorico che in
quello materiale, venendo meno il suo presupposto essenziale (allo stesso tempo
teorico e materiale) e la sua condizione-base di esistenza.
Il contenuto fondamentale della teoria in via di esposizione consiste nel fatto
che dopo il 9000 a.C., con l’avvio della prima gigantesca rivoluzione produttiva
del neolitico e fino ad arrivare ai nostri giorni, senza soluzione di continuità, si è
sviluppato e continua da undici millenni un processo generale di natura economica
che permette costantemente ed allo stesso tempo la riproduzione, a livello
potenziale oltre che reale, sia di relazioni sociali di produzione collettivistiche che
di quelle classiste, nelle quali invece le condizioni/mezzi della produzione ed il
surplus/plusprodotto vengano posseduti e controllati da parte di una minoranza
della popolazione a proprio vantaggio; dal 9000 a.C. fino all’inizio del terzo millennio
in cui viviamo, due tendenze alternative di natura socioproduttiva si sono
confrontate reciprocamente a livello virtuale, e spesso hanno coesistito realmente
nello stesso periodo e nella medesima area geopolitica, anche in presenza di una
parità approssimativa nel livello di sviluppo qualitativo delle forze produttive.
La storia umana si divide principalmente in storia umana pre-surplus (costante
ed accumulabile) e storia umana del surplus: in questa seconda fase, che dura da
circa undici millenni fino ai nostri giorni, poterono ininterrottamente e possono
tuttora riprodursi, a livello potenziale oltre che reale, sia delle società egualitarie
e collettivistiche che strutture socioproduttive classiste, nelle loro diverse varianti
storiche (asiatiche o schiavistiche, feudali o capitalistiche).
Nel 8999 a.C., come nel 2010 dopo Cristo;
Nel 8998 a.C., come nel 2011 dopo Cristo, e così via.
Detto in altri termini, secondo la teoria dell’effetto di sdoppiamento le civiltà
collettivistiche dell’era del surplus rappresentarono nel passato, e costituiscono
ancora ai nostri giorni un’alternativa concreta e continua, sia a livello potenziale
che reale, alle variegate e multiformi formazioni economico-sociali classiste. E non
come residui in via di sparizione di una lontana ed ormai superata era del passato, come invece è accaduto per le (sotto certi aspetti splendide) tribù paleolitiche,
di matrice chiaramente collettivistica, di raccoglitori-cacciatori a volte riprodottesi
fino ai nostri giorni, quali ad esempio gli aborigeni australiani ed i San del Kalahari
(Africa occidentale), ma viceversa in qualità di nuclei di rapporti di produzione/
distribuzione di tipo cooperativo, in grado e capaci di raggiungere approssimativamente
lo stesso livello di sviluppo qualitativo delle forze produttive ottenuto
via via nei loro cugini-rivali classisti, quando non anche di surclassare nettamente
le performance produttive di questi ultimi, come si verificò per tutto il periodo
neolitico e calcolitico.1
Proprio in questa lunga fase storica, che nell’area eurasiatica parte dal 9000
a.C. ed arriva al 3900 a.C., due opposte tendenze socioproduttive, la “linea rossa”
collettivistica e la “linea nera” protoclassista, sono convissute negli stessi archi
temporali e nelle medesime zone geopolitiche per circa cinque millenni all’interno
dell’area eurasiatica, ma anche in Africa, America, Corea, Giappone, ecc. Ne deriva
che lo sviluppo dell’agricoltura, allevamento ed artigianato, tipici del periodo
neolitico, e la conseguente produzione di un surplus costante ed accumulabile
non hanno portato inevitabilmente al sorgere di società con al loro interno delle
classi sfruttatrici e degli apparati statali, come pensava Engels nel 1878-1884 (in
modo corretto, visto l’insieme di dati empirici allora a sua disposizione), mentre
hanno invece determinato l’emergere sia di un campo di potenzialità alternative,
a disposizione della pratica complessiva del genere umano, che di una sorta di
“effetto di sdoppiamento” nei rapporti sociali di produzione e di distribuzione via
via riprodottisi in quel lungo e plurimillenario periodo, per cui poterono esistere
e coesistere fianco a fianco sia rapporti di produzione collettivistici che classisti
durante il periodo in esame.
Ma anche nel periodo post-calcolitico e pre-rivoluzione industriale, come si vedrà
meglio in seguito, la coesistenza conflittuale tra tendenze socioproduttive collettivistiche
e classiste è continuato ininterrottamente, spesso nei medesimi stati e
nelle stesse aree geopolitiche, seppur quasi sempre con l’egemonia e la prevalenza
della “linea nera” su quella “rossa” (le comuni rurali): sia il modo di produzione
asiatico che quello feudale erano infatti contraddistinti anche dalla presenza significativa,
seppur subordinata, di rapporti di produzione collettivistici-deformati al
loro interno, in esperienze socioproduttive che coinvolsero buona parte del genere
umano tra il 3700 a.C. ed il 1790 d.C.
Dopo il 1917 e il grande, liberatorio Ottobre Rosso (liberatorio anche rispetto al
criminale primo macello imperialistico del 1914-18, come ha ricordato più volte e
giustamente Costanzo Preve in molti dei suoi lavori storico-teorici), infine, è stato
il nostro mondo contemporaneo che si è sdoppiato e diviso in due, con un’evidenza
plateale e forse troppo accecante.
Dopo il 1770-1810, infatti, si è affermato progressivamente il capitalismo (prima
industriale, poi monopolistico-finanziario) su scala mondiale e fino ai nostri giorni:
ma allo stesso tempo, oltre ai fenomeni della cooperazione produttiva e del capitaismo di stato, dopo il 1917 e l’Ottobre Rosso il mondo inaspettatamente si “sdoppiò”
e si divise essenzialmente tra due sistemi socioproduttivi e politici alternativi,
capitalismo (monopolistico di Stato) e socialismo (più o meno deformato).
Addirittura si possono trovare alcune nazioni che si sono “sdoppiate” concretamente
in campo politico e socioproduttivo, nelle relazioni sociali di produzione
e distribuzione: Germania, dal 1945 al 1989, Corea dal 1945 fino ai nostri giorni,
Vietnam dal 1954 al 1975, Cina dal 1949 fino ai nostri giorni (si pensi alla dinamica
socioproduttiva assunta dalle aree cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan, dal 1949
fino ad oggi).
Più avanti cercherò di dimostrare nei particolari e con “fatti testardi” (Lenin) la
riproduzione plurimillenaria del contenuto fondamentale dell’effetto di sdoppiamento,
la coesistenza sincronica e reale (oltre che a livello potenziale) di rapporti di
produzione collettivistici e classisti, a parità approssimativo di sviluppo qualitativo
delle forze produttive: a questo punto, però, bisogna illustrare le ricadute teoriche
e pratiche dell’effetto di sdoppiamento, se (grosso se ipotetico) esso risultasse
una tesi valida perché corrispondente, con un certo grado di approssimazione, alla
dinamica di sviluppo del genere umano dal 9000 a.C. fino ad oggi.
Prima ricaduta: l’assenza di determinismo storico nei processi di sviluppo del
genere umano, durante tutta la fase post-surplus e dopo il 9000 a.C, fino ad arrivare
ai nostri giorni.
Per tutto il lunghissimo periodo paleolitico, dall’apparizione dell’Homo habilis
all’incirca due milioni e mezzo di anni fa (con la produzione originale e creativa
dei primitivi strumenti di produzione e di caccia) e fino al 9000 a.C., la storia umana
venne caratterizzata dall’inevitabile, obbligata e deterministica riproduzione di
rapporti di produzione collettivistici-primitivi, di regola denominati fase del “comunismo
primitivo”: in assenza di produzione costante di surplus accumulabile,
infatti, il processo di formazione di società classiste e basate sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo rimaneva un’utopia/disutopia irrealizzabile, impossibile da
concretizzarsi. In estrema sintesi, l’assenza di surplus significò anche assenza inevitabile
di società protoclassiste e classiste.
La situazione generale cambiò radicalmente proprio con il processo di produzione
del surplus costante/accumulabile, che aprì inevitabilmente degli spazi
enormi, prima sconosciuti, di azione e giganteschi margini di manovra alla pratica
produttiva e sociopolitica del genere umano: una libertà spesso di segno negativo,
intesa come libertà di sfruttare ed opprimere donne, bambini e maschi meno
aggressivi attraverso l’affermazione di nuovi ed originali rapporti sociali di produzione/
distribuzione, protoclassisti e classisti, ma per sempre una… libertà (licenza/
arbitrio, se si vuole).
Non solo dopo il 9000 a.C. il genere umano poté scegliere, certo non senza condizionamenti
e pressioni socioambientali, tra due diverse linee e tendenze socioproduttive,
ma simultaneamente scomparve il carattere inevitabile ed ineliminabile
delle precedenti relazioni sociali di produzione collettivistiche; ormai due lottatorie contendenti principali erano entrati in campo e avrebbero continuato, almeno a
livello virtuale, fino ai nostri giorni a scontrarsi per l’egemonia socioproduttiva e
sociopolitica, nel corso di undici millenni e fino ai nostri giorni.
Nessun determinismo storico? Cosa dura ad accettarsi nel campo comunista ed
anticapitalistico, almeno fino al 1989-91.
Il marxismo “ortodosso” in tutte le sue varianti, con solo rare eccezioni, non
comprese né volle comprendere il carattere unilaterale ed “aperto” assunto dalla
dinamica di sviluppo del genere umano dopo il 9000 a.C., anche quando si arrivò
alla seconda metà del Novecento ed al lavoro teorico dei suoi esponenti più colti
e raffinati.
Il sovietico V. Afanasjev pubblicò ad esempio nel 1981 i Fondamenti di filosofia
marxista-leninista, un’interessante opera di quasi quattrocento pagine che trattò più
o meno direttamente di tutto lo scibile umano: dai fenomeni «termici, elettrici,
magnetici, endoatomici ed endonucleari» fino ad arrivare alla teologia della liberazione,
ed ai positivi interventi «di sacerdoti e di vaste masse di credenti contro la
reazione e per il progresso sociale».2
Riproducendo e ricalcando, in modo relativamente sofisticato, la rispettabile
concezione deterministica tipica e propria del marxismo tradizionale almeno a
partire dal 1883, l’intelligente e colto V. Afanasjev rilevò – proprio parlando dell’interessante
tematica delle possibilità, su cui ritornerò in seguito – che «come tutto
nel mondo, le possibilità si sviluppano, si muovono, alcune di esse crescono, si ampliano,
altre si riducono, si annientano. L’Unione Sovietica fu la prima a spezzare
le catene dell’imperialismo e per lungo tempo si trovò completamente accerchiata
dai paesi imperialisti. Per questo nel periodo immediatamente seguente alla vittoria
della Rivoluzione socialista d’Ottobre accanto alla possibilità dell’affermazione
del socialismo vi fu anche quella di una restaurazione del capitalismo. Crescendo
la potenza dell’Unione Sovietica la possibilità di una completa vittoria del socialismo
crebbe incessantemente e si trasformò in realtà. Il socialismo, la cui necessità
era stata scientificamente affermata da Marx ed Engels, ed il cui piano di costruzione
era stato steso da Lenin, divenne nell’Unione Sovietica una realtà effettiva.
La possibilità di una restaurazione del capitalismo, con i successi della costruzione
del socialismo andò sempre più restringendosi e attualmente non esiste praticamente
più, in quanto al mondo non vi sono forze che siano in grado di restaurare
il capitalismo nel paese dei Soviet e di distruggere il potente campo del socialismo.
La vittoria del socialismo nell’URSS si è rivelata completa e definitiva».3
In migliaia di libri ed opuscoli, diffusi in tutto il mondo, questa concezione deterministica
dell’inevitabile “trionfo del socialismo” era stata espressa in termini
analoghi, più o meno raffinati ed elaborati, rispondendo tra l’altro ai bisogni eticopolitici
di vere e reali moltitudini di lavoratori.
Decine di milioni di donne e uomini “in carne ed ossa” (Gramsci), onesti sostenitori
del movimento comunista, avevano via via accettato dopo il 1917 posizioni
spesso molto simili a quelle espresse, con un notevole grado di erudizione e competenza, da V. Afanasjev nel 1981: purtroppo la concezione deterministica della
storia si dimostrò intrinsecamente scorretta ed errata, come si incaricò di dimostrare
proprio la concreta e spietata pratica storica.
Nel 1991, e solo dieci anni dopo la stampa del libro di Afanasjev, l’Unione
Sovietica purtroppo non esisteva più, se non nella memoria storica collettiva. Nel
1991 non “la vittoria”, ma purtroppo la sconfitta “del socialismo nell’URSS” si era
“rivelata completa”, anche se fortunatamente non “definitiva” né irreversibile: si
erano mosse purtroppo «forze in grado di restaurare il capitalismo nel paese dei
Soviet e di distruggere il potente campo de socialismo», al contrario di quello che
pensava il troppo ottimista V. Afanasjev.
Sul fronte di classe opposto, nel febbraio del 2009 lo stesso Alan Greenspan si
pronunciò – preso da panico alto-borghese – per la nazionalizzazione delle banche
statunitensi in grave crisi, al solo scopo di evitare “l’Armageddon” evocata da G.
Tremonti ed un possibile, disastroso crollo del processo di riproduzione capitalistico:
proprio Alan Greenspan, in precedenza sostenitore fanatico dell’efficacia
automatica del “libero mercato”, si era ridotto ad una sorta di “mendicante ideologico”,
capace solo di sperare nell’intervento provvidenziale dello stato e della
“mano pubblica”.
«In America accadono cose che Raffaele Mattioli avrebbe definito “stupende”: il
grande sacerdote del libero mercato, Alan Greenspan, ora consulente di un fondo di
investimento non alieno da comprare titoli spazzatura, ha dichiarato apertamente
di essere a favore della nazionalizzazione di banche in particolare difficoltà». Non
si trattò di un articolo della vecchia Pravda, ma dell’ipercapitalistica Repubblica
agli inizi di marzo del 2009.4
Proprio prendendo spunto dai due (moltiplicabili) esempi sopracitati, risulta
evidente come quasi nulla sia scontato ed inevitabile nel processo storico sviluppatosi
dopo il 9000 a.C., in un senso o nell’altro: non è inevitabile né la vittoria
della tendenza socioproduttiva collettivistica né il successo dell’alternativa controtendenza
classista ,almeno fino al consolidarsi del modo di produzione comunista-
sviluppato o all’emersione dalle tenebre dell’altro polo estremo (e negativo)
dello spettro delle opzioni storiche potenzialmente disponibili, l’autodistruzione
del genere umano attraverso una guerra nucleare su ampia scala.
Seguendo le orme di F. Engels, Rosa Luxemburg colse parzialmente nel segno
quando già nel 1916 rilevò che esisteva ormai un’alternativa storica e che “il crollo
di tutta la civiltà come nell’antica Roma” costituiva purtroppo un esito possibile,
a determinate condizioni, nella lotta di classe tra borghesia e classe operaia: ma
la grande rivoluzionaria ebrea – grande purtroppo anche nei suoi errori teorici e
pratici – non poté andare più a fondo, constatando che da ben undicimila anni si
era già manifestata sul profilo della storia universale anche un altro e più generale
“dilemma della storia mondiale” (Luxemburg), quello tra “linea rossa” e “linea
nera” sul piano socio produttivo (e politico-sociale).5
Da un lato la Storia (con la esse maiuscola) non offre purtroppo alcuna garanzia
preventiva di successo ai diversi movimenti politico-sociali anticlassisti ed egualitari,
ma per fortuna sempre la Storia non fornisce alcun sigillo preventivo di vittoria
al fronte di classe opposto, alle classi privilegiate: notizia agrodolce, ma non
catastrofica né deprimente a priori.
Secondo sottoprodotto teorico-pratico della teoria dell’effetto di sdoppiamento:
il primato della sfera politica su quella economica, dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri
giorni.
Se realmente esistono e si riproducono due “linee” e tendenze socioproduttive
in conflitto costante, anche solo a livello potenziale; se entrambe queste due tendenze
risultano compatibili, seppur attraverso contraddizioni più o meno gravi,
con il grado di sviluppo qualitativo raggiunto dalle forze produttive sociali nell’era
del surplus, l’egemonia esercitata via vai dall’una o dall’altra sulle diverse
formazioni economico-sociali (o stati, dopo il 3700 a.C.) non può essere derivata e
determinata dalle stesse ragioni economiche e cause socioproduttive.
Sicuramente proprio precise ragioni economiche e cause socioproduttive (alias
sviluppo qualitativo delle forze produttive nel neolitico + genesi/riproduzione del
surplus costante ed accumulabile) spiegano e legittimano la riproduzione costante
dell’effetto di sdoppiamento, ma esse non possono certo spiegare e legittimare allo
stesso tempo il successo della tendenza collettivistica in una certa area geopolitica
X, la vittoria della tendenza protoclassista/classista nella zona geopolitica Y, e così
via.
Se entrambe le tendenze socioproduttive possono esistere ed affermarsi proprio
per identiche cause, materiali ed economiche, queste ultime non potranno anche
determinare il loro successo/insuccesso storico, volta per volta ed area per area.
Ma allora, qual è il fattore determinante della vittoria/sconfitta della “linea rossa”
o, alternativamente, della “linea nera”, della loro riproduzione come rapporti
sociali di produzione centrali e decisivi in determinate aree del nostro pianeta?
L’enigma viene facilmente risolto dalla pratica storica (Marx, Tesi su Feuerbach),
la cui analisi generale mostra come la presenza/assenza di settori ristretti di popolazione
dotati del monopolio delle armi e della gestione degli affari comuni della
società, e (dopo il 3700 a.C.) del controllo di classe sugli apparati statali, costituiscono
le chiavi per comprendere la trasformazione più o meno rapida delle società
classiste in quelle protoclassiste/classiste, e viceversa.
Solo per fare due esempi ancora vicini al nostro Ventunesimo secolo, il capitalismo
di stato egemone nella Russia zarista del gennaio 1917 si trasformò nella Russia
prevalentemente collettivistica (in campo extra-agricolo) del novembre 1917-luglio
1918, per effetto e conseguenza di una particolare e ben conosciuta “critica delle
armi” e di particolari processi politico-sociali gestiti dal partito bolscevico, con la
costruzione del potere sovietico nella gigantesca area eurasiatica; nel 1989-91, invece,
una dinamica politico-sociale di segno opposto consentì al nucleo dirigente
diretto da Eltsin di scardinare i rapporti sociali di produzione collettivistici-de66
ROBERTO SIDOLI
formati egemoni in Unione Sovietica, fino a quel tragico triennio, permettendo di
avviare a partire dal 1992 uno dei più giganteschi processi di privatizzazione dei
mezzi di produzione e delle risorse naturali conosciuti nella storia.
Sul nodo del primato della sfera politica rispetto a quella economica rimando
in ogni caso al secondo capitolo di questo lavoro, oltre che ai capitoli 9/10/11 del
mio libro sui rapporti di forza dedicati al “paradosso di Lenin”.6
Terza ricaduta della teoria in esame: l’introduzione della categoria teorica di
campo di potenzialità socioproduttive alternative all’interno del continente-storia.
Alcuni filosofi di primo piano hanno via via analizzato in profondità ed acutamente
il rapporto tra realtà e possibilità/potenzialità, fino ad arrivare al geniale W.
F. Hegel.
Una delle conclusioni principali di quest’ultimo, su questo punto nevralgico di
discussione filosofica, è stata che il possibile costituisce sempre una parte importante
e a volte decisiva della realtà, visto che «i fatti reali devono innanzitutto essere
possibili». Da questa affermazione, solo apparentemente banale, Hegel ricavò
tre conseguenze molto meno banali:
– il possibile è un fatto che può accadere, ma può anche non accadere;
– il possibile è allo stesso tempo distinto dall’impossibile in modo radicale,
“per necessità assoluta”;
– i fatti possibili, proprio perché possibili e proprio perché possono accadere
o non accadere, possono essere soppiantati e/o esclusi da altri fatti, ugualmente
possibili.
Il filosofo e scienziato comunista Robert Havemann (militante antifascista, comunista
eretico almeno agli occhi delle autorità della Germania orientale, durante
gli anni 1956-64) ha sintetizzato in modo intelligente questo snodo filosofico solo
apparentemente astratto, che a suo avviso aveva invece una connessione immediata
e diretta con la meccanica quantistica e le implicazioni pratiche/filosofiche
derivanti da tale teoria, asse fondamentale per la comprensione del mondo subatomico
a partire dagli anni Venti del secolo passato.
«Hegel muove dalla considerazione che i fatti reali devono innanzitutto essere
possibili. Ciò che è reale deve essere possibile. La cosa sembra ovvia. Ma Hegel
continua: se un fatto è possibile possiamo definirlo possibile solo se può accadere
o può anche non accadere. La parola “possibile” ha in sé un singolare grado di
incertezza, dovendo significare che questa cosa può bene accadere, ma non deve
accadere. Hegel conclude: i fatti reali sono caratterizzati dal fatto che, in quanto
possibili, sono distinti da quelli impossibili. Ma in quanto tali, in gruppi possibili,
essi sono solamente fatti che possono accadere o anche non accadere e al loro
posto possono subentrare altri fatti, ugualmente possibili. Hegel dice poi: le possibilità
realmente esistenti nella natura non sono casuali. Ciò che è possibile, è
67
Identikit di una teoria
determinato per necessità. Le leggi del mondo e dei fenomeni stanno nel possibile.
L’impossibile è distinto dal possibile per necessità assoluta, senza alcuna casualità.
Tutte le leggi della natura, tutte le leggi della realtà che noi scopriamo, ci dicono
soltanto ciò che di volta in volta è possibile in date circostanze, e ciò che nelle stesse
circostanze è impossibile. Le leggi dunque non ci dicono che cosa realmente accade
o accadrà, ma indicano soltanto ciò che può accadere.»7
Come conseguenza e sottoprodotto, inoltre, il concetto di possibile richiama
anche quello (affine) di probabilità, del grado di probabilità degli eventi.
Torniamo a questo punto allo schema generale dell’effetto di sdoppiamento in
campo storico, “continente” in cui agisce a differenza che nel mondo naturale (è
bene ribadirlo, per evitare lo scoglio fondamentale che mise sempre in crisi il materialismo
dialettico) la pratica sociale umana e l’autotrasformazione progressiva
del genere umano: per quanto riguarda l’ambito della praxis umana, la possibilità/
potenzialità non è altro che una realtà “che viene da lontano”, una tendenza
(politica, socioproduttiva, ecc.) latente ma pronta e capace di trasformarsi in realtà,
a determinate condizioni ed in presenza di una situazione concreta relativamente
favorevole.
Ora, il campo di potenzialità e di tendenze socioproduttive alternative in via
di esame si è formato sicuramente in modo inevitabile, raggiunto un certo livello
di sviluppo qualitativo delle forze produttive (surplus costante ed accumulabile,
agricoltura/allevamento, ecc.), ed esso è “stato determinato per necessità”: non
potevano che “essere disponibili” e sul campo due diverse tendenze socioproduttive,
nell’era del surplus e a partire dall’inizio dell’era neolitica.
Ma una volta formatosi e riprodottosi questo campo di potenzialità alternativo,
l’affermazione concreta ed i successi ottenuti volta per volta dalla tendenza collettivistica,
o dalla matrice classista, rappresentano “solo” delle possibilità e delle
potenzialità che, pur appartenendo a pieno titolo al “reale” (inteso in senso ampio,
come dialettica di realtà e potenzialità), possono verificarsi e non verificarsi, “possono
accadere o anche non accadere”, come notava Havemann sulla scia di Hegel:
non c’è (più) un’unica forma obbligata di appropriazione dei mezzi di produzione,
come avvenne invece nel comunismo primitivo.
Non solo. La vittoria e l’egemonia spesso raggiunta dalla “linea rossa” nel neolitico-
calcolitico non costituivano dei “fenomeni impossibili”, come era invece previsto
dal materialismo storico “ortodosso”: costituivano in passato (e costituiscono
tuttora) delle possibilità reali, ben distinte “dall’impossibile” (Havemann) e dalla
categoria generale dei fenomeni impossibili, quale ad esempio sarebbe stato un ritorno
generalizzato ed irreversibile delle civiltà del surplus al modo di produzione
basato sulla raccolta/caccia che contraddistinse il paleolitico, come vagheggiato ai
giorni nostri e per la nostra civiltà postindustriale da pensatori “primitivisti” come
John Zerzan.8
Si è già notato, infine, come la categoria teorica di possibilità rimandi a quella,
complementare, di probabilità e gradi diversi di probabilità di avveramento delle
tendenze/potenzialità.
In riferimento alla materia in esame “i diversi possibili”, e cioè le due potenzialità
e tendenze socioproduttive alternative formatesi nell’era del surplus, diventano
volta per volta diversamente probabili e diversamente capaci di trasformarsi
in realtà egemonica rispetto ai rapporti sociali di produzione/distribuzione soprattutto
per effetto di un fattore extraeconomico, l’azione costante esercitata dalla
sfera politica e dai multiformi rapporti di forza politici che si sono sviluppati via
via nelle diverse situazioni concrete, civiltà o stati, a partire dal 9000 a.C. fino ai
nostri giorni.
Si è sempre in presenza di una prospettiva generale molto lontana da qualunque
tipologia di determinismo scientifico/parascientifico ma, almeno secondo alcuni
scienziati e filosofi, proprio «la probabilità, intesa come misurazione e gradazione
del possibile rappresenta, come affermò il matematico e filosofo H. Ermann Weyl,
la “nuova modalità della scienza”; o, come minimo, una delle principali forme di
espressione della scienza contemporanea, visto che almeno dopo H. Heisenberg,
Monod e S. Gould scienza e determinismo non marciano più a braccetto come un
tempo.9
Il campo di potenzialità socioproduttive alternative, formatosi dopo il 9000 a.C.
e riprodottosi fino al nostro Ventunesimo secolo, comporta e determina certo un
notevole “grado d’incertezza” (Havemann) su ciò che può o non può accadere
nella dinamica storica generale, ma essa allo stesso tempo determina ed indica che
sia l’affermazione della “linea rossa” che di quella classista diventano entrambi
fenomeni e processi possibili, che possono accadere… o anche non accadere. La
realtà storica seguente al 9000 a.C., in estrema sintesi, è una realtà costituita da potenzialità/
possibilità reali alternative, che a volte si trasformano in realtà e a volte
rimangono in uno stato latente (o subordinato).
Prendiamo ad esempio la terra (suolo, acqua, risorse naturali) e la tematica del
controllo/possesso di quest’ultima. Dopo il 9000 a.C., era sicuramente possibile
una forma generale di appropriazione privata della terra, sotto il controllo ed a
vantaggio esclusivo di una minoranza della popolazione, ma era altrettanto possibile
e praticabile avviare un processo di socializzazione dei beni della natura e di
appropriazione collettiva del suolo, delle acque e delle risorse naturali, non a caso
denominati “commons” (beni comuni) da molti ricercatori e studiosi contemporanei.
Dopo il 9000 a.C. la terra non diventò certo proprietà collettiva sempre, per
decreto divino o per un’inesistente “legge naturale”, ma allo stesso tempo non
rientrò di certo nella rete storica della proprietà privata per necessità storica o determinismo
economico: prova ne è che anche all’interno di modi di produzione
classisti assai importanti, come quelli asiatici e feudali, sussistette e si riprodussero
concretamente e per millenni le “comuni rurali”, fianco a fianco ai rapporti sociali
di sfruttamento dei contadini. Collettività che si fondavano sulla proprietà collettiva
di larga parte del suolo, sul lavoro cooperativo effettuato al loro interno in
occasione del raccolto o della creazione/manutenzione delle opere di irrigazione
e delle strade, oltre che sulla coltivazione comune di una porzione più o meno
estesa della terra della comunità, e che persino in Europa, come notò K. Marx nel
primo e nel terzo libro del Capitale, riuscirono a riprodursi parzialmente (Polonia,
Romania, Europa sud-orientale) fino alla prima metà dell’Ottocento.10
Non a caso sempre Marx indicò, con estremo vigore, il carattere non-inevitabile
e non-naturale della proprietà privata del suolo nel terzo libro del Capitale, rilevando
che «dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società,
la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così
assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo.
Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca
prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi
possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come
boni patres familias, alle generazioni successive».11
La proprietà privata del suolo/acqua/risorse naturali, dopo il 9000 a.C. e fino ai
nostri giorni, rappresentava nel passato e costituisce tuttora una possibilità/potenzialità
reale ed in grado di affermarsi concretamente nel campo dei rapporti sociali
di produzione e distribuzione, ma allo stesso era/è un processo di appropriazione
che “poteva/può accadere, o anche non accadere” (Havemann).
Constatazioni analoghe possono essere ovviamente effettuate anche per l’insieme
della dinamica generale nell’era del surplus, la quale si scontra frontalmente
con le vecchie concezioni materialistiche secondo cui la storia è un “tempo lineare
omogeneo” (W. Benjamin) al cui interno «non può capitare niente di nuovo, non
solo in quanto tutto è già stato previsto o è in linea di principio prevedibile, ma
anche perché la novità è derubricata ad accidentalità, e l’imprevedibilità a carenza
nel padroneggiamento nel calcolo delle probabilità».12
Quasi nessun esito era invece previsto o prevedibile a priori, nel 9000 a.C. ed in
seguito, proprio per forza immanente del campo di potenzialità sorto (paradossalmente)
per necessità storica.
Quarto sottoprodotto della teoria in discussione: la potenziale reversibilità dell’egemonia
della “linea rossa” a vantaggio della “linea nera” nelle diverse formazioni
economico-sociali, e viceversa.
Già quando si è presa in esame l’esperienza sovietica del 1917-91, combinata
alla controrivoluzione capitalistica (di stato) del 1991-97, proprio il fenomeno della
reversibilità potenziale-ininterrotta (sviluppatasi dopo il 9000 a.C., e fino ai nostri
giorni) tra la tendenza collettivistica e la controtendenza classista ha trovato una
sua particolare forma di concretizzazione storica, di “esperimento” in carne ed
ossa umane, secondo una variante della concezione galileiana del processo di analisi
scientifico tramite ipotesi/verifica.13
70
ROBERTO SIDOLI
Ma, almeno a mia conoscenza, il record assoluto nella velocità di trasformazioni/
controtrasformazioni socioproduttive all’interno di una determinata formazione
economico-sociale è detenuta dall’importante zona geopolitica di Baku (prima
appartenente all’impero zarista, poi all’URSS fino al 1991, azera fino ai nostri giorni),
nei quattro “formidabili” anni che vanno dal gennaio del 1917 fino alla primavera
inoltrata del 1920.
Dalla fine dell’Ottocento ed arrivando agli inizi del 1917, Baku era diventata il
principale centro mondiale nell’estrazione del petrolio: come ha notato il dirigente
comunista A. I. Mikojan, «il petrolio di Baku aveva attirato l’attenzione del capitale
mondiale molto prima di quello persiano: prima della rivoluzione quasi il 15% del
petrolio mondiale proveniva da Baku. Nel 1917 le società anonime straniere più
importanti (Nobel, Rothschild, ecc.) e i petrolieri russi, azerbaigiani ed armeni se
lo erano largamente accaparrato.
Di fronte alla resistenza sempre più vivace della classe operaia, i gruppi capitalistici,
per tutelare i loro interessi, si erano associati in una Unione dei petrolieri
(puramente formale, dal momento che tale unione era in realtà divisa da feroci
rivalità). La guerra mondiale, esasperando al massimo le contraddizioni tra le due
coalizioni belligeranti – la Germania, l’Austria-Ungheria e la Turchia da una parte
e l’Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) dall’altra – aveva esacerbato ancor più tale
concorrenza».14
Solo dopo pochi giorni dall’inizio dell’Ottobre Rosso in Russia, il soviet di Baku
ottenne in forma pacifica il controllo sugli apparati statali della città. Dopo aver
domato con la “critica delle armi” un’insurrezione controrivoluzionaria, promossa
dalla borghesia della città e dai grandi magnati dei trust petroliferi nel marzo del
1918, la Comune di Baku decise l’arresto “degli esponenti più in vista del mondo
del petrolio” della città: nell’aprile del 1918 vennero nazionalizzate tutte le banche
ed istituti finanziari della città e, nel maggio dello stesso anno, la conferenza
del partito bolscevico di Baku decise «di nazionalizzare senza indugio l’industria
petrolifera, anche se non era ancora pervenuto il decreto di nazionalizzazione da
Mosca».15
Nel periodo compreso tra il febbraio del 1917 ed il maggio del 1918, l’egemonia
all’interno dei rapporti sociali di produzione/distribuzione nell’area di Baku passò
pertanto dalla “linea nera” alla tendenza collettivistica, ma tra la fine di luglio e
l’inizio di agosto del 1918 l’offensiva delle truppe turche e il seguente contro-arrivo
di truppe britanniche nella città portò alla caduta della Comune di Baku, alla sua
sostituzione con un nuovo governo controrivoluzionario.
In questa nuova fase politico-sociale, la centralità all’interno delle relazioni sociali
di produzione/distribuzione nell’area di Baku ritornò sotto l’ala della tendenza
classista, visto che il nuovo governo anticomunista, diretto dai partiti “socialisti”
menscevico e socialista-rivoluzionario sotto il controllo dell’imperialismo
britannico, aveva subito reintrodotto la proprietà privata nelle banche e nel settore
petrolifero, restituendo ai vari Nobel e Rotschild le loro vecchie proprietà.16
Dopo 21 mesi, nuovo colpo di scena nei rapporti di produzione della città azera.
Nell’aprile-maggio del 1920, infatti, la combinazione tra l’insurrezione degli operai
di Baku e l’entrata nel paese dell’Armata Rossa permisero la re-instaurazione del
potere sovietico a Baku e la ri-formazione dell’egemonia della “linea rossa” in tutto
l’Azerbaigian, con la nuova nazionalizzazione del settore bancario e petrolifero
nella regione. Sempre Mikojan ricorda che «negli ultimi giorni di maggio del 1920
l’industria petrolifera (più di 250 aziende private), fu nazionalizzata per la seconda
volta (la prima volta era stato nel 1918, prima della sconfitta del potere sovietico
a Baku). Fu creata la società statale Azneft. Bisognava organizzare urgentemente
l’esportazione per mare, verso la Russia, degli immensi stocks di petrolio che si
erano accumulati. La strada di Astrachan era aperta, la navigazione era già cominciata.
Contemporaneamente, bisognava intensificare la produzione di petrolio».17
In soli quattro anni troviamo quattro cicli di egemonia socioproduttiva:
1) Gennaio 1917-Settembre1917: prevalenza della “linea nera” a Baku;
2) Ottobre 1917-Luglio 1918: prevalenza della “linea rossa” a Baku;
3) Agosto 1918-Aprile 1920: ri-prevalenza della “linea nera” a Baku;
4) Maggio 1920: ri-presa dell’egemonia della “linea rossa” a Baku.
Chi vuole mettere in discussione il fenomeno della potenziale reversibilità dell’egemonia
tra le due “matrici” socioproduttive, creatasi dopo il 9000 a.C., deve
cercare preventivamente di spiegare i bruschi saliscendi dell’esperienza di Baku,
negli anni tumultuosi compresi tra il 1917 ed il 1920; oppure fornire risposte convincenti
alla dinamica socioproduttiva assunta dall’Italia agli albori del medioevo
e nel VI secolo d.C., con l’espropriazione dell’aristocrazia feudale autoctona promossa
dal re ostrogota Totila tra il 540 ed il 550, e la successiva re-introduzione dei
rapporti di produzione semischiavistici (colonato) in Italia ad opera dell’impero
bizantino, una volta schiacciati i goti, anche con quel documento estremamente
istruttivo che è la Pragmatica Sanctio del 554.18
La particolare caratteristica della reversibilità, derivato inevitabile della teoria
dell’effetto di sdoppiamento, provoca inevitabilmente delle immediate conseguenze
teoriche (bidirezionali), anche rispetto al processo di analisi della dinamica
politica e socioproduttiva del Ventunesimo secolo.
Sempre presupponendo validità/veridicità della tesi in oggetto, il mondo capitalistico
può sicuramente trasformarsi, a determinate e particolari condizioni, in
una nuova società socialista estesa su scala mondiale (lato positivo della reversibilità),
ma purtroppo anche formazioni economico-sociali ancora prevalentemente
collettivistiche, quali Cuba, Corea del Nord, Cina, Vietnam e Laos, possono a loro
volta mutare e trasformarsi in nazioni egemonizzati dal capitalismo (monopolistico
di stato), sempre a determinate e particolari condizioni (politico-sociali, soprattutto).
Si tratta di un lato potenziale-negativo della reversibilità purtroppo non eliminabile
a priori, come dimostra il collasso del socialismo deformato di matrice
sovietica nel 1989-91: “che l’angoscia sia con voi”, sembrò affermare la Storia nel
9000 a.C., fino ai nostri giorni e per un prevedibilmente lungo periodo nel futuro
sviluppo del genere umano.
Quinto sottoprodotto dell’effetto di sdoppiamento: la fragilità intrinseca sia
dei rapporti di produzione/distribuzione collettivistici che di quelli classisti, se e
quando essi non vengano sostenuti e protetti dall’azione di apparati statali (e parastatali)
e di nuclei dirigenti al potere e siano collocati invece all’interno di rapporti
di forza politici (politico-militari, politico-sociali, ecc.) ad essi molto sfavorevoli: in
presenza cioè di élite politiche egemoni e di loro mandanti sociali decisi a distruggerli,
oltre che dotati di mezzi politico-repressivi adeguati a tale scopo.
Per quanto riguarda le relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche,
gli esempi di Baku 1918-20 e della Russia post-sovietica, con i giganteschi
processi di privatizzazione dei mezzi di produzione e delle risorse naturali russe
attuati dal nucleo dirigente guidato da Eltsin tra il 1992 ed il 1998, costituiscono
dei fatti testardi da cui non si può prescindere, molto simili ai processi verificatisi
in Ungheria dopo l’agosto del 1919 e la caduta del potere sovietico, nell’Europa
orientale dopo il 1989, ecc.
Nel campo opposto, segnato dall’egemonia della “linea nera”, la fragilità intrinseca
dei rapporti di produzione classisti, una volta privati del supporto essenziale
costituito dall’azione degli apparati statali (classisti), appare subito plateale
ed evidente con un rapido processo di analisi dell’esperienza cinese del 1925-49:
essa portò alla rapida liquidazione di un sistema di sfruttamento semifeudale che
si riproduceva da più di due millenni, quasi senza soluzione di continuità, grazie
ed in seguito al successo della lotta armata dei contadini cinesi (guidati dal partito
comunista cinese) ed al parallelo collasso del potere di repressione, esercitato tradizionalmente
dai proprietari fondiari all’interno del gigantesco paese asiatico.
E. Collotti Pischel ha notato giustamente, esaminando l’elemento fondamentale
nel successo delle forze maoiste tra il 1945 ed il 1949, che era allora in corso in Cina
una vera e propria “rivoluzione agraria”, nella quale «i contadini potevano prendersi
la terra soltanto nella misura in cui il successo della lotta armata, che aveva
nel loro appoggio la condizione insostituibile, eliminasse la capacità del vecchio
ordine sociale di resistere e di effettuare la repressione».19
Una volta distrutto il “cemento” ed il “muro” rappresentato dagli apparati statali
e parastatali di repressione, l’impalcatura dei rapporti di produzione semifeudali
(nelle campagne) e capitalistici di stato (nelle zone urbane della Cina) crollò in
breve tempo, in un processo rivoluzionario le cui linee-guida fondamentali (demolizione
del vecchio apparato statale – nuovo potere rivoluzionario – demolizione
dei vecchi rapporti di produzione/distribuzione) vennero anticipate tre decenni
prima, e riprodotte in seguito (Vietnam 1975, ecc.) da molte altre dinamiche rivoluzionarie.
Non solo il potere, ma in ultima analisi anche la riproduzione dei rapporti di
produzione classisti e collettivistici (una volta che questi ultimi siano dominanti)
si regge “sulla canna di un fucile”, venendo direttamente condizionata da chi controlla
gli apparati statali e per quali interessi concreti: senza o contro la “canna del
fucile”, l’egemonia socioproduttiva sia della “linea nera” che della tendenza collettivistica
diventano entrambe estremamente fragili, precarie ed instabili.
Sesta ricaduta della teoria in analisi: l’elevato grado di elasticità e plasmabilità
della natura umana che emerge dall’analisi dell’epoca del surplus, dall’era neolitica
fino ai nostri giorni.
Proprio le possibilità alternative offerte dal campo generale di potenzialità socioproduttive,
creatosi dopo il 9000 a.C. e riprodottosi fino ai nostri giorni, hanno
infatti formato (tra le altre cose) una sorta di gigantesco “laboratorio vivente” plurimillenario,
attraverso il quale poter valutare da osservatori interessati/partecipanti
interessati se la natura umana, “l’essenza profonda” del genere umano sia:
– buona o cattiva;
– pacifica o aggressiva;
– cooperativa o predatoria;
– collettivistica o classista.
Proprio perché dopo il 9000 a.C. si era aperto un campo permanente, potenzialmente
sconfinato, di potenzialità e sbocchi socioproduttivi alternativi tra loro;
proprio perché era finito per sempre il lunghissimo arco storico del comunismo
primitivo “obbligato” – obbligato perché l’assenza di surplus provocava inevitabilmente
l’assenza/impossibilità dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo -, finalmente
(un tragico finalmente, visto Hiroshima, Auschwitz, ecc.), il genere umano
poteva diventare libero di mostrare collettivamente di quale “pasta” fosse esso
fatto. Libero di scegliere tra “linea rossa” e “linea nera” (in precedenza impossibile
da attuarsi, nella fase pre-surplus), libero di scegliere se cogliere la “mela avvelenata”
dell’approvazione minoritaria e privilegiata del surplus e dei mezzi di produzione,
o rimanere invece nel “giardino dell’Eden” del collettivismo neolitico/
post neolitico, con un rinnovato utilizzo egualitario e gilanico delle nuove fonti di
ricchezze create dal suo lavoro collettivo, ivi compreso l’importantissimo “lavoro
universale” (per “lavoro universale” Marx intende «qualunque lavoro scientifico,
qualunque scoperta o invenzione. Esso dipende in parte dalla cooperazione tra i
vivi e in parte dall’impiego del lavoro tra i morti»).20
Fuor di metafora, se all’interno della struttura mentale del genere umano fosse
attivo e impiantato in modo costante, irreversibile ed irresistibile una sorta di invincibile
dna dell’altruismo, anche dopo il 9000 a.C. non ci sarebbe stata partita tra
le due tendenze socioproduttive alternative, potenzialmente disponibili su scala
planetaria.
Se, come le formiche o le api, il nostro genere umano avesse al suo interno un
iperpotente “imperativo categorico” di kantiana memoria, che gli imponesse senza possibili vie di fuga di non sfruttare mai ed in ogni caso gli altri esseri umani,
anche dopo il 9000 a.C. la “linea nera” classista sarebbe rimasta solo una potenzialità
materiale concreta, ma assolutamente non in grado di trasformarsi in realtà
concreta a causa dell’ipotetica “sentinella” morale e sociopolitica presente in ogni
nostro cervello, in grado di inibirci a priori ed inevitabilmente qualunque comportamento
predatorio contro gli altri esseri umani.
E viceversa, come il lettore ha già intuito, se all’interno della struttura mentale
di ogni essere umano fosse attivo ed impiantato in modo costante, irreversibile ed
irresistibile una sorta di invincibile dna… dell’egoismo predatorio e rapace, dopo
il 9000 a.C. non ci sarebbe stata partita tra la “linea rossa” e la “linea nera”: non si
sarebbe più (a differenza che nel comunismo primitivo “obbligato”) potuto formare
alcuna società collettivistica durante tutto il periodo del surplus, in “virtù” (si fa
per dire…) ed inevitabile conseguenza dell’ipotetico imperativo categorico capace
di indurci a sfruttare, sempre ed in ogni caso, gli altri esseri umani.
Ha notato correttamente C. Preve che «l’ape produce spontaneamente per informazione
genetica ereditaria alveari di un certo tipo, mentre l’architetto produce
consapevolmente e con intenzione edifici romanici, gotici, barocchi. E così come
produce edifici di stili diversi, allo stesso modo l’uomo produce società di tipo
diverso (schiavistiche, feudali, capitalistiche, comunistiche). Chi pensa che per
sua natura l’uomo non potrebbe e dovrebbe produrre modelli sociali se non capitalistici
e per di più capitalistici di tipo liberistico, è un idiota filosofico, perché
assimila l’uomo a una formica che non può che produrre un unico modello di
formicaio».21
Si sta certo trattando di casi-limite, opposti e solo ipotetici, ma che possono servire
ad illuminare la reale portata della “partita” sulla natura umana che si è aperta
dopo il 9000 a.C., e fino ai nostri giorni.
La risposta a questo enigma fornito finora dalla pratica sociale umana risulta
allo stesso tempo affascinante (perché bivalente e “sdoppiato”) e deludente, perché
non conclusiva e capace di saziare il nostro desiderio di verità consolidate ed
indiscutibili: il genere umano sicuramente non ha incorporato al suo interno né un
“dna” onnipotente dell’altruismo comunista, né un irresistibile imperativo categorico
“iperegoista”, razziatore e predatorio. Prova ne è il fatto che, a corrente alternata
e con periodi alternati, sia la tendenza collettivistica che quella protoclassista/
classista siano riuscite entrambe ad affermarsi in determinati contesti storici.
Cosa di non poco conto, anche per la materia in esame.
Qualunque negazione è anche un’affermazione, notò il grande filosofo ebreo
(“scomunicato” dalla comunità ebraica di Amsterdam) Baruch Spinoza. Ora, affermare
in base a 11000 anni di esperienza che il genere umano non sia intrinsecamente
ed inevitabilmente e altruista/collettivista, o egoista/classista, significa
anche sostenere che la nostra iperpotente (nel bene come nel male) specie esprima,
come sua caratteristica fondamentale, un’innata… elasticità, plasmabilità e capacità
di autotrasformazione interna in senso multi-direzionale: in altri termini, non
75
Identikit di una teoria
siamo predisposti in modo inevitabile e preventivo a favore dei rapporti sociali di
produzione collettivistici né dei loro “cugini-avversari”, le relazioni sociali protoclassiste/
classiste.
Forse e con modalità iperprudenti (non è assolutamente un’ipotesi che derivi
dallo schema generale dell’effetto di sdoppiamento), siamo allo stesso tempo e
contemporaneamente dei bonobo e degli scimpanzé ed abbiamo una “natura duplice”,
come ha suggerito il grande etologo ed umanista Frans De Waal, nel suo
splendido lavoro Naturalmente buoni.
Scimpanzé = forti tendenze negative. Capaci di atti di cannibalismo, oltre che
di aggressioni sfrenate e para-naziste contro le comunità vicine, tendenzialmente
aggressivi e maschilisti nelle loro relazioni interne: le “belve bionde” sognate dal
peggiore Nietsche.
I bonobo = tendenzialmente buoni, anche se non completamente. Dediti in
modo multilaterale e creativo al piacere sessuale e ad orgasmi ripetuti, capaci di
appianare le inevitabili tensioni e “contraddizioni” interne attraverso il contatto
fisico e le coccole, collocati all’interno di società egemonizzate dal sesso femminile
(su questo punto si può discutere, certo…), a mio parere essi fanno parte a pieno
titolo della “linea rossa” nei primati superiori.
Sintetizzando le conclusioni delle sue ricerche e del suo libro, F. De Waal ha
rilevato che in base a ripetute osservazioni scientifiche compiute in modo multilaterale
dagli scienziati negli ultimi due secoli, «in biologia, lo stesso principio
della selezione naturale che impietosamente oppone forme di vita l’una contro
l’altra e individui gli uni contro gli altri ha condotto alla simbiosi e al mutualismo
fra organismi differenti, alla sensibilità di un individuo per le necessità altrui, alla
cooperazione per il raggiungimento di un obiettivo comune. Ci troviamo dinanzi
al grave paradosso per cui il progresso genetico conseguito a spese di altri – che è
il motore dell’evoluzione – ha dato vita a sorprendenti capacità di prendersi cura
del prossimo e di provare simpatia.
In questo libro cerco di tenere ugualmente distanti questi concetti conflittuali.
L’uno non è facilmente riducibile all’altro, anche se alcuni tentativi sono stati
compiuti. Il più rilevante è stato l’asserzione che nel profondo del nostro animo
la preoccupazione per gli altri rimane sempre egoistica. Negando l’esistenza della
genuina generosità, tuttavia, queste teorie finiscono per non cogliere l’ancor più
grande verità emergente dalla contrapposizione dell’interesse per se stessi, che ha
un fondamento genetico, con l’intensa socialità e la giovialità di molti animali, noi
compresi.
Al posto di una natura umana fondamentalmente brutale, o fondamentalmente
nobile, emerge una natura duplice, un quadro forse più complesso ma infinitamente
più illuminante».22
Probabilmente sull’elasticità/plasmabilità umana va ripresa ed attualizzata la
grande lezione fornitaci dagli umanisti del Quattrocento.
76
ROBERTO SIDOLI
In ogni caso, anche se sulla base di dati di fatto molto diversi (ed in una sfera diversa)
da quelli forniti da De Waal, propendo per la tesi per cui siamo… “naturalmente
elastici e plasmabili”, molto probabilmente anche per la presenza ed il gioco
dialettico della coesistenza conflittuale tra tendenze e controtendenze opposte al
nostro interno, sia come genere che in qualità di singoli individui.
Esseri pensanti e naturalmente plasmabili, contraddittori e trasformabili.
“Naturalmente” idioti e suicidi, ovviamente, se sapremo autodistruggerci a causa
di una guerra atomica (e chimico-batteriologica), lasciando ad un (improbabile)
processo futuro di evoluzione degli scarafaggi il compito disperato di ri-costruire
la nostra (possibile) dinamica di autodistruzione, in mezzo a rovine post-nucleari
da noi stessi create.
Questioni troppo astratte ? No, almeno a mio avviso.
La discussione filosofica e storica sulla “natura umana”, ed in primo luogo se
essa esista o meno, “non può essere evitata, neppure a livello scolastico”, come ha
affermato correttamente C. Preve in un suo libro del 1999: forse lo schema dell’effetto
di sdoppiamento può aiutare a far luce su questa materia, solo apparentemente
astratta e che invece ha una ricaduta immediatamente politico-sociale, vista
la nota tesi borghese per cui il comunismo si scontra inevitabilmente con la stessa
natura umana, considerata intrinsecamente competitiva ed egoista.
Infine emerge, come ulteriore sottoprodotto dell’effetto di sdoppiamento, una
concezione della libertà, presa sotto il profilo della storia universale, molto diversa
da quella immaginata da Engels nell’AntiDühring.
La libertà, come affermò giustamente L. Geymonat, non è coscienza della necessità
ma “innanzitutto libertà di cambiare”: cambiare progetto/pratica di realizzazione
del progetto (Marx, l’ape e l’architetto) e, dopo il 9000 a.C., scegliere
più o meno consapevolmente tra le due tendenze socio produttive alternative e
plurimillenarie, poste a nostra disposizione (in modo “necessario”) dal campo di
potenzialità creato dall’effetto di sdoppiamento, dopo il 9000 a.C. e fino ai nostri
giorni.
Premessa, contenuto, ricadute: ma vanno brevemente esposti anche i precursori
della teoria dell’effetto di sdoppiamento.
Karl Marx, in primo luogo. In una lettera del 1881 indirizzata a Vera Zasulich,
su cui si ritornerà nel prossimo capitolo, il geniale rivoluzionario tedesco analizzò
anche la dinamica generale di sviluppo delle già citate comuni rurali (la “comune
agricola”, nella terminologia usata da Marx), notando tra le altre cose che «come…
fase ultima della formazione primitiva della società, la comune agricola… è nello
stesso tempo fase di trapasso alla formazione secondaria e, quindi, di trapasso dalla
società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà privata.
La formazione secondaria, si intende, abbraccia tutta la serie delle società poggianti
sulla schiavitù e sul servaggio.
Ma significa ciò che la parabola storica della comune agricola debba fatalmente
giungere a questo sbocco? Nient’affatto. Il dualismo ad essa intrinseco ammette
77
Identikit di una teoria
un’alternativa: o il suo elemento di proprietà privata prevale sul suo elemento collettivo,
o questo s’impone a quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale
essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili».23
Si tratta della prima ed embrionale formulazione della teoria dell’effetto di
sdoppiamento, contenuta in un testo geniale anche sotto molti altri aspetti e che
costituisce tra l’altro il principale “giallo” all’interno della storia, ormai bisecolare,
del marxismo: un caso da “lettera rubata” (in tutti i sensi…), ed allo stesso tempo
il vero testamento teorico di Marx, lasciato quasi completamente marcire dai suoi
eredi.
Secondo anticipatore dello schema generale sotto analisi: V. I. Lenin.
Nel febbraio/aprile del 1922, infatti, il titanico rivoluzionario russo contribuì attivamente
al processo di elaborazione collettiva delle posizioni e direttive generali
che la delegazione sovietica avrebbe poi portato alla conferenza internazionale di
Genova, convocata dalle principali potenze capitalistiche di quel periodo al fine di
cercare di creare un “nuovo ordine mondiale”, che superasse le rovine create dal
primo grande macello imperialistico.24
Ne derivò la dichiarazione che venne letta da G. V. Cicerin, in qualità di
Commissario del popolo agli Esteri, nell’aprile del 1922 a Genova, nella quale la
Russia sovietica ammetteva apertamente la possibilità concreta di una coesistenza
conflittuale, ma di lungo periodo tra il mondo capitalistico e quello socialista, al
tempo ancora rappresentato dalla sola Russia Sovietica/Unione Sovietica: addirittura
accettando già nel 1922 la possibile partecipazione – a determinate condizioni
e con “alcune modifiche necessarie” – del nuovo stato sovietico all’ONU di quella
fase storica, la Società delle Nazioni.25
Il 10 aprile del 1922 Cicerin proclamò infatti apertamente, seguendo fedelmente
le istruzioni fornitegli da Lenin e dal nucleo dirigente del partito bolscevico, la necessità
di una “collaborazione economica tra Stati… rappresentanti i due sistemi
di proprietà in campo internazionale”: a livello pratico e senza un preventivo processo
di elaborazione teorica della “novità” in via di esposizione, con fatti concreti
veniva ammesso dai dirigenti sovietici il gigantesco e prolungato effetto di sdoppiamento
su scala planetaria, provocato ed indotto da un lato dall’Ottobre Rosso,
e dall’altro dalla vittoriosa resistenza opposta dal campo imperialistico al processo
rivoluzionario mondiale sviluppatosi nel 1918-20.26
L’effetto di sdoppiamento venne riconosciuto implicitamente da Lenin anche
con l’introduzione della NEP (Nuova Politica Economica) nel 1921, argomento che
verrà trattato a lungo quando analizzerò la dinamica socioproduttiva della Cina
contemporanea.
Ma Lenin aveva già approfondito in precedenza la tematica dell’effetto di sdoppiamento
anche a livello teorico, nei suoi Quaderni filosofici (1915-16, pubblicati
postumi sotto Stalin).
78
ROBERTO SIDOLI
In poche splendide pagine, intitolate A proposito della dialettica, egli notò che «lo
sdoppiamento dell’uno» (di un singolo processo e cosa) «e la conoscenza delle sue
parti contraddittorie… rappresenta l’essenza (uno degli essenziali, una delle particolarità
o caratteristiche fondamentali, se non la fondamentale) della dialettica».27
Sempre nel brano in esame, Lenin rilevò che erano esistite due alternative concezioni
delle leggi di sviluppo del mondo, quella metafisica e quella dialettica,
affermando che «le due concezioni fondamentali (o le due possibili? o le due osservate
nella storia?) dello sviluppo (evoluzione) sono: lo sviluppo come diminuzione
e aumento, come ripetizione, e lo sviluppo come unità degli opposti (sdoppiamento
dell’uno in opposti che si escludono reciprocamente, e loro rapporto reciproco)
».28
Anche se in un contesto filosofico molto diverso dall’habitat storico sopra esaminato
a partire dal 9000 a.C., non si può certo dire che per Lenin l’effetto di sdoppiamento,
lo “sdoppiamento dell’uno in opposti” (elementi e tendenze), fosse un
processo sconosciuto o impensabile, venendo altresì indicato come “l’essenza della
dialettica” (Lenin) e dello “studio delle contraddizioni nell’essenza stessa degli
oggetti”. Dopo Lenin, tra l’altro, anche Mao Tse Tung evidenziò (Sulla contraddizione,
agosto 1937) il fenomeno dello “sdoppiamento dell’uno in opposti che si
escludono reciprocamente”: ed entrambi, con l’azione di forze sociali di cui erano
mandatari politici, aiutarono il mondo a “sdoppiarsi” nella realtà, e non solo negli
(utilissimi) testi filosofici.29
A mio avviso, infine, alcuni spunti interessanti per il processo di elaborazione
dell’effetto di sdoppiamento, enucleati in modo assolutamente indipendente rispetto
alla pratica teoria del sottoscritto, si ritrovano anche all’interno di una delle
numerose opere prodotte da C. Preve, la Storia dell’etica, quando si fa riferimento
alle concezioni etiche antagoniste rispetto al dominio dei rapporti di produzione
classiste, via via espresse dall’ateniese Solone, dal rivoluzionario ebreo Gesù, e
così via.30
Nuova questione: a cosa può servire la tesi dell’effetto di sdoppiamento? Può
essa svolgere una funzione utile, sia in campo storico che per la dinamica di sviluppo
del movimento anticapitalistico nel Ventunesimo secolo?
Se tale schema generale corrispondesse approssimativamente alla verità, e cioè
al processo dinamico e contraddittorio di sviluppo del genere umano dopo il 9000
a.C. e fino ai nostri giorni, esso svolgerebbe una funzione positiva intrinseca perché,
come aveva rilevato Lenin, “la verità è sempre rivoluzionaria”.
Per trasformare la realtà, infatti, bisogna in via preventiva ben comprenderla
ed interpretarla: innanzitutto e soprattutto con una diretta pratica, individuale e
collettiva, ma anche attraverso un processo creativo di analisi della pratica presente
e passata, delle esperienze via via vissute/subite dal genere umano: con un
ininterrotto esame critico del passato recente e meno recente, delle sue diverse
tendenze e controtendenze, della dialettica creatasi all’interno delle multiformi
formazioni economico-sociali sviluppatesi negli ultimi millenni. L’undicesima tesi
79
Identikit di una teoria
su Feuerbach elaborata da Marx afferma correttamente che «i filosofi hanno solo
interpretato il mondo in modi diversi: si tratta però di trasformarlo», ma essa non
implica in alcun caso che bisogna smettere di interpretare il mondo e che tale forma
di pratica umana sia inutile, se non addirittura dannosa.31
Altrimenti non si riesce assolutamente a capire, se non chiamando in causa la
categoria del masochismo, per quale ragione Marx avesse passato più di vent’anni
al British Museum di Londra, al solo scopo di elaborare la critica dell’economia
politica borghese, perché egli avesse scritto nel 1875 la splendida Critica al programma
di Gotha o si fosse affannato a scrivere e riscrivere più volte la famosa lettera a
Vera Zasulich nell’inverno del 1881, sempre al fine di “interpretare il mondo”. A
mio avviso ben interpretare il mondo significa anche iniziare a trasformarlo, alias
creare le premesse, le coordinate ed il “filo di Arianna” indispensabile per portare
a buone fine tale compito, di enorme portata storica.
In seconda battuta, la teoria dell’effetto di sdoppiamento può svolgere una duplice
funzione di legittimazione di alcune pratiche positive dei militanti anticapitalistici,
e di delegittimazione invece di altre pratiche (e atteggiamenti mentali)
negative da essi sviluppate nel corso degli ultimi due secoli.
Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento aiuta a legittimare:
– le pratiche politiche (politico-sociali, politico-sindacali, ecc.) degli attivisti
anticapitalisti: far politica serve, perché la sfera politica è diventata l’anello centrale
dell’attività umana dopo il 9000 a.C.
– l’assunzione di responsabilità diretta delle forze anticapitalistiche per il
futuro del genere umano, visto che la storia siamo noi (F. De Gregori) e la nostra
pratica contribuisce direttamente ad indirizzarla in un senso o nell’altro, a sfruttare/
non sfruttare le potenzialità socioproduttive offerte dall’effetto di sdoppiamento,
a spostare “l’ago della bilancia storica” in un senso o nell’altro.
Con un linguaggio involontariamente “maschilista”, Rosa Luxemburg ha evidenziato
il ruolo decisivo svolto dalla pratica politico-sociale per il destino del
genere umano notando, durante il primo macello interimperialistico, che «noi»
(esseri umani e movimento anticapitalistico del tempo) «ci troviamo oggi, proprio
come F. Engels aveva presagito una generazione addietro, quarant’anni fa, davanti
alla scelta: o trionfo dell’imperialismo e crollo di tutta la civiltà come nell’antica
Roma, spopolamento, distruzione, degenerazione, un grande cimitero, oppure vittoria
del socialismo, cioè dell’azione cosciente di lotta del proletariato internazionale
contro l’imperialismo ed il suo metodo: la guerra. Questo è un dilemma della
storia mondiale, un’alternativa, in cui i piatti della bilancia oscillano tremando davanti
alla decisione del proletariato cosciente.
Il futuro della civiltà e dell’umanità dipende dal fatto che il proletariato sappia,
con decisione virile, gettare la sua spada rivoluzionaria sulla bilancia… Tutta la
desolazione e la vergogna» (in cui era caduta la socialdemocrazia tedesca, dopo il
4 agosto 1914 e l’approvazione della guerra imperialistica) «possono essere controbilanciati
soltanto se noi dalla guerra e nella guerra impariamo come il proletariato
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ROBERTO SIDOLI
può redimersi dal ruolo di un servo nelle mani delle classi dominanti a quello di
padrone del suo destino».32 Parole valide non solo per il 1916-17, a mio avviso…
– la resistenza offerta costantemente, seppur con alterno successo, dal movimento
anticapitalistico contro l’avversario di classe, a dispetto della sua
apparente strapotenza ed invincibilità: secondo la teoria in esame, niente
è conquistato per sempre ma allo stesso tempo niente è perso per sempre,
guerra atomica di sterminio permettendo.
Colossali sconfitte storiche subite dal movimento operaio rivoluzionario, come
quella subita nel 1914-16, a determinate condizioni possono lasciare il campo a colossali
vittorie di quest’ultimo (1917-20, Russia); già B. Brecht, nella sua splendida
poesia Lode della dialettica, notò che i “vinti di oggi sono i vincitori del domani e il
mai diventa: oggi!”
Lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento serve invece a delegittimare:
– l’economicismo, inteso come culto del livello di maturità delle forze produttive.
Le condizioni oggettive per l’affermazione della “linea rossa”, per
un processo di sviluppo collettivistico del genere umano esistevano già nel
9000 a.C., anche se allora solo in alcune aree geopolitiche: siamo in ritardo di
ben seimila anni, come movimento anticlassista, se si prende come punto di
riferimento temporale il 3700 a.C. e la prima affermazione dello stato classista
sumero.
– il disinteresse per la lotta politica e per l’acquisizione del controllo degli
apparati statali, con forme pacifiche/violente a seconda delle condizioni storiche
concrete.
– la fiducia cieca nel determinismo storico, inteso soprattutto come “inevitabile
vittoria delle forze del progresso”. Una volta smentita e falsificata da
dure sconfitte (1989-91), essa si trasforma inevitabilmente nella cieca acquiescenza
di massa alla “fine nella storia” (Fukuyama) ed all’inevitabile trionfo
dei soliti “ricchi e potenti”, facendo sì che “tra gli oppressi molti dicano ora:
quel che vogliamo, non verrà mai” (B. Brecht, ancora Lode alla dialettica).
Detto in altri termini, l’effetto di sdoppiamento prevede per i nostri tempi che
una radicale trasformazione dei centrali e decisivi rapporti di forza politici (politico-
militari, relativi al consenso di massa rispetto alle strutture socioproduttive dominanti,
ecc.) comporti e determini simultaneamente un radicale mutamento dei
vecchi rapporti sociali di produzione e distribuzione, sia nelle società capitalistiche
che in quelle (almeno in parte) ancora collettivistiche: un’anticipazione che proprio
la dinamica futura su scala planetaria potrà confermare o smentire, verificare o
falsificare.
Infine la teoria dell’effetto di sdoppiamento permette di risolvere alcuni “enigmi”,
una serie di problemi importanti ed ancora attuali, sia sul piano storico che in
campo politico.
81
Identikit di una teoria
Essa serve innanzitutto a spiegare per quale ragione fondamentale si sia riprodotto
ininterrottamente nelle principali nazioni borghesi, a partire dal 1765-80 fino
al 2010, il modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo rappresenta infatti uno
dei due sbocchi ed esiti possibili all’interno del mondo contemporaneo e si colloca
“nell’ordine delle cose”, alias delle possibilità socioproduttive che si trasformano
in realtà a determinate condizioni politico-sociali; esso si può conservare (e sviluppare
nel futuro) se la borghesia continua a detenere (continuerà anche in futuro a
detenere…) il potere politico, controllando più o meno direttamente gli apparati
statali e riuscendo in tal modo a superare crisi produttive più o meno gravi e prolungate
(previsioni anch’esse verificabili/falsificabili).
Lo schema in analisi può essere ovviamente utilizzato anche per risolvere il
problema correlato del “ritardo della rivoluzione”: quest’ultima non si è verificata
nelle metropoli capitalistiche, o è stata sconfitta duramente come a Parigi nel 1871,
in Germania nel 1918-23 o in Spagna nel 1936-39, principalmente a causa della
costante presenza di un rapporto di forza politico (che comprenda al suo interno
anche le capacità direzionali, strategiche e tattiche) sfavorevole alle masse popolari,
e non certo per effetto di un’inesistente immaturità nel livello di sviluppo delle
forze produttive all’interno del mondo occidentale.
La teoria in analisi consente anche di comprendere la ragione principale del
successo della più grande “rivoluzione contro il Capitale” (contro il Capitale di
Marx, per il giovane Gramsci del 1917), e cioè della vittoria del processo anticapitalistico
in Russia ed in quasi tutto l’ex impero zarista: la vittoria storica ottenuta
da Lenin e dai bolscevichi non derivò sicuramente da un (inesistente) alto livello
di sviluppo delle forze produttive sociali nella Russia di quel periodo, ma da una
favorevole correlazione di potenza politica, che permise alle forze rivoluzionarie
di quell’area geopolitica di sfruttare tutte le potenzialità positive (possibilità di affermazione
della “linea rossa”) insite organicamente nell’effetto di sdoppiamento,
anche per quanto riguarda l’epoca contemporanea.
Per ragioni molto simili, l’effetto di sdoppiamento consente contemporaneamente
di comprendere la causa fondamentale delle vittorie ottenute nei processi
anticapitalistici in tutta una serie di “anelli deboli” della catena imperialistica quali
Cina (1929-49), Cuba (1959-61), Vietnam, Laos e Cambogia, Angola e Mozambico:
nazioni molto diverse tra loro, ma unificate sia dal basso livello di sviluppo raggiunto
dalle loro rispettive forze produttive che dall’alto grado di accumulazione
di potenza politica via via ottenuta dalle soggettività rivoluzionarie, al momento
della loro vittoria.
Per una trattazione esaustiva dei quattro “enigmi della Sfinge” sopra delineati,
che a mio avviso mettono in crisi irreversibile qualunque concezione economicista
del processo storico, rimando sempre al mio libro sui rapporti di forza.33
Sempre per l’identikit in corso, va notato come la teoria dell’effetto di sdoppiamento
non si applichi a tutto il processo di sviluppo del genere umano, ma solo ad
82
ROBERTO SIDOLI
una sua sezione temporalmente limitata, anche se assai interessante: in altri termini,
essa non rappresenta uno schema storico omnicomprensivo.
Non rientra infatti nel suo raggio d’azione la dinamica del (lentissimo) sviluppo
del periodo comunista-primitivo e della lunghissima fase storica pre-surplus, e
non rientrerà nel suo campo d’applicazione ovviamente anche la lunghissima storia
del futuro “regno della libertà” e del comunismo sviluppato, nel quale «con lo
sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte
le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza» ed in cui finalmente
«la società può scrivere sulle sue bandiere – ognuno secondo le sue capacità;
a ognuno secondo i suoi bisogni».34
In tale “regno della libertà”, dell’abbondanza e dell’ozio (P. Lafargue), che sarà
reso via via possibile dallo sviluppo controllato e regolato della scienza-tecnologia
(energia solare, sintesi termonucleare e fusione fredda; robotica; genetica; biotecnologie
e nanotecnologie; supercomputer, ecc.: tutti mezzi già in parte disponibili
ora e nel 2010, anche se con un livello di sviluppo ancora molto immaturo ed arretrato),
la forza attrattiva della tendenza classista e del “comunismo per soli privilegiati”
si ridurrà a zero, o quasi, almeno a livello di massa.
Infine, lo schema generale dell’effetto di sdoppiamento può essere falsificato/
confermato, come richiedono correttamente tutti i paradigmi di controllo sviluppati
dalla scienza contemporanea?
A mio avviso la risposta è positiva, visto che la teoria in esame può essere falsificata
dimostrando per la storia passata che:
– le culture e formazioni economico-sociali del neolitico-calcolitico comprese
nella “linea rossa”, come si vedrà nella seconda parte di questo lavoro, fossero
invece di matrice protoclassista;
– le formazioni economico-sociali del neolitico-calcolitico comprese nella “linea
nera” (Kurgan, Nevali Coeri, ecc.), fossero invece di matrice collettivistica;
– le “comuni agricole” (Marx), sviluppatesi nel periodo post-calcolitico, non
avessero espresso al loro interno una forte componente collettivistica;
– le cooperative formatesi nelle società industriali e fino al 1989 non siano
esistite in quanto tali, rappresentando dappertutto e sempre solo delle particolari
imprese capitalistiche, sotto una finta veste sociale;
– fino al 1989 non si sia carsicamente affermata una tendenza (contrastata,
limitata, reversibile) alla nazionalizzazione totale/parziale delle imprese e
banche in crisi da parte dello stesso stato capitalistico, “comitato” degli affari
comuni della borghesia;
– l’URSS non abbia mai avuto al suo interno almeno una forte componente
collettivistica nei rapporti sociali di produzione/distribuzione endogeni, dal
1917 fino al 1991.
83
Identikit di una teoria
Per quanto riguarda la storia contemporanea (novembre 1989/2010), il processo
di falsificazione può essere operato dimostrando che:
– le cooperative riprodottesi in questi ultimi due decenni non siano esistite
in quanto tali, rappresentando dappertutto e sempre solo delle particolari
imprese capitalistiche sotto una finta veste sociale;
– che all’interno delle composite formazioni economico-sociali cubana, nordcoreana,
vietnamita, laotiana e cinese non operi concretamente (o non abbia
mai operato…) una forte tendenza collettivistica all’interno dei loro rispettivi
rapporti sociali di produzione/distribuzione, con estensione/intensità
variabile a seconda delle concrete condizioni storiche esistenti nelle nazioni
in via di esame;
– che fenomeni “post-moderni”, come ad esempio Linux, non indichino la
resistenza/persistenza (subordinata, limitata, reversibile) della linea rossa
anche all’interno dei “post-moderni” capitalismi, monopolistici e di stato,
del mondo occidentale.
Per quanto riguarda invece il futuro (2010-?…), un’eventuale analisi tesa alla
falsificazione dell’effetto di sdoppiamento potrà avere successo se sarà in grado di
dimostrare che:
– il modo di produzione capitalistico riuscirà a spazzare via, completamente
e in modo costante, tutte le variegate “resistenze” e tutte le proteiformi controtendenze
che fino ad ora hanno messo parzialmente in crisi la sua egemonia
planetaria, assicurando pertanto il trionfo completo del tallone di ferro
della “linea nera”;
– un’eventuale successo nel processo di trasformazione mondiale in senso
collettivistico non lascerà a sua volta, come contrappasso storico, alcuno spazio
alla “linea nera” (fenomeni di appropriazione privata illegale da parte
di dirigenti-manager corrotti, ecc.), molto prima della costruzione di una
società comunista-sviluppata: processo non previsto dalla teoria in via di
esposizione.
Un quarto livello di verifica/falsificazione riguardo invece il mondo (parallelo)
delle possibilità/spazi di potenzialità, che rappresenta una parte importante del
reale. In tale sfera, il processo di falsificazione dell’effetto di sdoppiamento ottiene
la vittoria se riesce a dimostrare che:
– il suolo sia e compatibile solo con fenomeni di appropriazione privata, o
all’opposto solo con processi socioproduttivi di matrice collettivistica;
– le acque possano essere utilizzate dal genere umano solo attraverso fenomeni
di appropriazione privata, o all’opposto solo mediante processi socioproduttivi
di matrice collettivistica. A questo proposito va notato come siano
84
ROBERTO SIDOLI
numerose le lotte condotte per l’acqua: ad esempio Cochabamba in Bolivia,
contro la privatizzazione delle risorse idriche a favore della multinazionale
statunitense Bechtel, l’Italia dopo il settembre 2009 ed il decreto sulla privatizzazione
dell’acqua, ecc.;
– le manifatture/industrie possano essere utilizzate dal genere umano solo
attraverso fenomeni di appropriazione privata, o all’opposto solo mediante
processi socioproduttivi di matrice collettivistica;
– il “lavoro universale” possa essere utilizzato solo con fenomeni di appropriazione
privata, o all’opposto solo con processi sociali di matrice collettivistica.
L’elenco può essere notevolmente allungato, anche se in questa sede serve solo
a mostrare che se una particolare forma di utilizzo delle risorse economiche – intese
in senso lato – non si rivela l’unica a disposizione per il genere umano, essa rientra
a pieno titolo “solo” nel campo dei fenomeni possibili: dei “fatti che possono
accadere o anche non accadere, e al loro posto possono subentrare altri fatti”, come
avevano rilevato i sopracitati Hegel/Havemann e con le ricadute teorico-pratiche
sopra delineate.35
Quattro livelli nel “gioco della falsificazione”: si accetta la sfida?
Ma prima di entrare nel merito, bisogna produrre delle definizioni relativamente
precise, attraverso una sorta di “rettifica dei nomi” (di matrice cinese) rispetto
a decisivi fenomeni socioproduttivi quali modo di produzione capitalistico e formazione
economico-sociale capitalistica, capitalismo di stato, socialismo e comunismo,
al fine di evitare inutili confusioni: specialmente per il tema “caldo” avente
per oggetto la natura economica dell’Unione Sovietica, in un terreno di confronto
nel quale la definizione di “capitalismo di stato” è stata spesso usata a sproposito,
o con un significato così ampio da comprendere ogni forma possibile/immaginabile
di socialismo (ad esempio si pensi all’assurda equazione tra capitalismo di
stato, e qualunque forma di riproduzione allargata della produzione).
Per modo di produzione capitalistico si intende un modo di produzione, un
rapporto sociale di produzione e distribuzione fondato innanzitutto sulla proprietà,
possesso e controllo privato dei mezzi della produzione (e della condizione
della produzione, a partire dalla terra e dalle risorse naturali/energetiche) da parte
di una minoranza della popolazione, in grado di assumere libere ed autonome forze-
lavoro come salariati, utilizzando l’erogazione collettiva di energie psicofisiche
da parte loro per appropriarsi del pluslavoro creato da questi ultimi; la borghesia
ottiene in tal modo un surplus ed un “bottino” (gratuito) di lavoro non retribuito,
oltre alla massa di mezzi di sussistenza forniti ai produttori diretti, in cambio dell’utilizzo
della loro forza-lavoro.
Nel modo di produzione capitalistico il sottoprodotto finale del processo produttivo,
e soprattutto il pluslavoro erogato gratuitamente dai produttori diretti
alla classe dei capitalisti si suddivide in tre parti:
85
Identikit di una teoria
– fondo privato di accumulazione di questi ultimi, alias la proprietà/possesso
privato sul prodotto finale del processo produttivo (che “appartiene al
capitalista e non all’operaio, come spiega Marx nel XXI capitolo del Capitale),
sui “mezzi di sussistenza che comprano persone” (e l’utilizzo della loro forza-
lavoro) e sui “mezzi di produzione che fanno uso del produttore”.36
– fondo privato di consumo dei capitalisti, alias il “reddito” (Marx, Il Capitale)
ottenuto da questi ultimi e “la ricchezza che si trova nel fondo di consumo
dei capitalisti e che si può dissipare solo un po’ per volta” da parte del “proprietario
del plusvalore, il capitalista”.37
– fondo privato di tesaurizzazione, e cioè il denaro (oro, argento e metalli
preziosi) e la massa monetaria venuta in proprietà/possesso privato della
borghesia, ma non impegnata nel processo produttivo; ad esse si aggiungono
beni di consumo “estetici” (Marx, Il Capitale) quali opere d’arte e “oggetti
d’oro e d’argento” di particolare valore.38
Sul piano dinamico e del processo di sviluppo interno, il modo di produzione
capitalistico è contraddistinto principalmente dal processo di riproduzione allargato
del fondo di accumulazione, di consumo e di tesaurizzazione in mano ai
privati/borghesia: classe sociale composta sempre da donne e uomini in carne ed
ossa, che trasmettono di regola alla loro morte il possesso/controllo del “bottino”
produttivo accumulato in precedenza ai loro successori legali, attraverso il meccanismo
economico-giuridico dell’ereditarietà nella proprietà dei mezzi di produzione
sociali (ivi comprese azioni, partecipazione ai fondi di investimento, controllo
diretto delle fondazioni a scopo “benefico” e/o di “ricerca culturale”).
Da un lato il modo di produzione capitalistico tende a svilupparsi ininterrottamente,
dall’altro esso accresce contemporaneamente la massa globale di mezzi
di produzione/consumo in mano alla borghesia, assicurando strutturalmente la
necessaria continuità del possesso privato rispetto al fondo generale di accumulazione/
consumo agli eredi dei capitalisti/piccoli capitalisti via via deceduti.
Formazione economico-sociale capitalistica, come secondo momento della “rettifica
dei nomi”.
Finora, nelle singole nazioni-stati, il modo di produzione capitalistico non si
è mai sviluppato allo “stato puro”, ed esso è coesistito attraverso rapporti più o
meno conflittuali con altre forme di rapporti di produzione, quali ad esempio i
produttori autonomi venuti in possesso dei mezzi di produzione utilizzati nel processo
produttivo e che non impieghino forza-lavoro altrui, se non in modo saltuario.
La categoria di formazione economico-sociale capitalistica esprime proprio la
coesistenza/competizione, nella stessa area geografica/stato, di relazioni produttive
capitalistiche (egemoni) e di rapporti sociali di produzione di altra natura, in
posizione subordinata rispetto a quelli capitalistici, centrali e dominanti in proporzione
più o meno accentuata a seconda delle condizioni storiche concrete.
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ROBERTO SIDOLI
Capitalismo (monopolistico) di stato: capitalismo, ma con “un’aggiunta” importante
e con un notevole salto di qualità socioproduttivo, alias l’intervento costante
e rilevante degli apparati statali borghesi a favore del processo di accumulazione
privato, della borghesia e della classe privilegiata in possesso di (larga parte) del
surplus e di strumenti di produzione, delle banche e delle compagnie di assicurazioni,
ecc.
Per capitalismo monopolistico di stato si intende il processo continuo di appoggio
reciproco e di cooperazione /bidirezionale) politico-economico che si crea
costantemente dal 1870-1914 tra il settore statale e l’alta finanza privata, tra gli
apparati statali e le multinazionali private, tra i nuclei politici al potere e i grandi
monopoli privati: intercambio e cooperazione in formazioni economico-sociali nelle
quali il settore pubblico-statale non possieda e controlli nel medio periodo più
di un quarto del processo produttivo complessivo, comprendendo al suo interno
la sfera industriale e quella bancario-finanziaria, quella commerciale e di servizi,
l’attività agricola e quella estrattivo-mineraria.
Il processo di cooperazione politico-economica che si sviluppa costantemente
tra i due partner principali del capitalismo di stato non risulta di regola privo di
attriti e contraddizioni (più o meno) secondarie, ma si concretizza da un lato nell’aiuto
materiale e politico via via fornito dal settore pubblico a quello privato ed
al processo di accumulazione capitalistico attraverso finanziamenti diretti-indiretti
ed appalti statali, disposizioni legislative e fiscali favorevoli agli interessi generali
e particolari dei trust privati e una loro compartecipazione lucrosa nel settore degli
armamenti, sostegno diretto-indiretto all’azione delle proprie multinazionali
in campo interstatale e socializzazione delle perdite subite dal settore privato, una
posizione privilegiata attribuita ai grandi monopoli nei processi di privatizzazione
delle risorse collettive e di concentrazione dei capitali privati; dall’altro il settore
statale controlla parzialmente ed in modo indiretto il processo produttivo e di accumulazione
sia mediante “relazioni speciali” di collaborazione via via createsi
con il grande capitale finanziario e le multinazionali private che attraverso l’utilizzo
mutevole dello strumento fiscale, delle politiche monetarie e commerciali, ecc.
Spesso, ma non sempre (si pensi agli Stati Uniti nel periodo compreso tra il 1952
ed il 2008, con la quasi totale assenza di imprese economiche statali) all’interno del
capitalismo monopolistico di stato si riproduce un settore produttivo subordinato
di proprietà pubblica che interviene in campo industriale, bancario e commerciale,
mentre a volte (in periodi prebellici-bellici, o di grave crisi economica) si assiste anche
alla creazione dall’alto di “cartelli obbligati” tra le principali aziende private e
all’azione coattiva di meccanismi di pianificazione parziale degli investimenti, del
livello salariale e delle priorità socioeconomiche fondamentali, come avvenne nel
caso della Germania nazista tra il 1935 ed il 1945 e del Giappone, tra il 1937 e la fine
del secondo conflitto mondiale. L’elemento centrale ed essenziale del processo di
riproduzione del capitalismo monopolistico di stato rimane tuttavia la cooperazione
continua, anche se a volte non priva di tensioni conflittuali, tra stato e monopoli
87
Identikit di una teoria
privati, tra governi e multinazionali, tra alta burocrazia civile/militare e finanza,
al fine principale e costante di favorire al massimo grado possibile il processo di
accumulazione dei grandi monopoli privati, anche (ma non solo) per ottenere a cascata
e in via derivata un aumento della potenza economica degli stati interessati e
coinvolti dalle “relazioni speciali” (miuki ishiki, in giapponese) createsi tra la sfera
politico-statale e quella economico-privata.
Capitalismo di stato: processo di socializzazione delle perdite e di privatizzazione
dei profitti a favore della borghesia attraverso l’intervento statale, oltre che
azione pubblica di natura politico-economica al fine di indirizzare e controllare
parzialmente un processo produttivo in ogni caso egemonizzato dalle imprese private.
Socialismo, distinto dal comunismo sviluppato.
Il socialismo, prima ed inferiore fase di sviluppo della società comunista (Marx,
Critica al programma di Gotha” del 1875) viene contraddistinto innanzitutto dalla
proprietà/possesso collettivo almeno dalla maggioranza dei mezzi di produzione
e delle condizioni della produzione (terra, risorse naturali ed energetiche, ecc.):
attorno o più del 50% del processo produttivo globale, e specialmente i suoi gangli
fondamentali (industria, attività estrattiva e finanza), devono essere sottoposti al
processo e controllo diretto della collettività, sotto forme statali e/o cooperative.
Si tratta di una base socioproduttiva indispensabile, senza la quale non si può parlare
in alcun modo di socialismo ma (al massimo) di germi ed elementi secondari
di socialismo, sviluppatisi in una formazione economico-sociale prevalentemente
capitalistica.
Nella sua versione di matrice marxista, il socialismo prevede anche un processo
di distribuzione dei generi di consumo disponibili secondo il lavoro erogato concretamente
dai singoli produttori diretti, dopo avere effettuato tutta una serie di
“detrazioni” su cui si tornerà tra poco.
Nel socialismo marxiano vige in sostanza il principio “da ciascuno secondo le
sue possibilità, a ciascuno secondo il suo lavoro”, mentre sempre secondo Marx
solo in una seconda e più avanzata fase di sviluppo del m.p. comunista “la società
può scrivere sulle proprie bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ciascuno
secondo i suoi bisogni”.
Marx scrisse nel 1875 che nella prima fase della società comunista «all’interno
della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione,
i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti
appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da
essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali
non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso
un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “reddito del lavoro” che
anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso.
Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata
sulla propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalisti88
ROBERTO SIDOLI
ca; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale,
le “macchie” della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore
singolo riceve – dopo le detrazioni – esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato
alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio la giornata di lavoro
sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro
individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita
da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società
uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione
del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo
sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa
quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un’altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci
in quanto è scambio di cose, di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati,
perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro,
e perché d’altra parte niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei
mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi
ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti
di merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale
quantità in un’altra.
L’uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio il diritto borghese
benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio di equivalenti
nello scambio di merci, esiste solo nella media, per il caso singolo».39
Nel socialismo la legge al valore opera concretamente, innanzitutto rispetto al
processo di distribuzione sociale del fondo di consumo di produttori diretti.
Inoltre la concezione del socialismo di matrice marxiana (sono invece possibili
altre fornire di socialismo, che non prevedono la riproduzione allargata del processo
produttivo nella nuova società collettivistica), è quello di un socialismo dell’abbondanza,
e più precisamente di un socialismo dell’abbondanza crescente.
Infatti Marx nel 1875 specificò chiaramente che, nella prima ed immatura fase
del comunismo, i lavoratori non ottengono direttamente il prodotto integrale del
lavoro, dato che prima di distribuire il prodotto sociale complessivo e i fondi di
consumo tra i lavoratori, al fine di soddisfare le “necessità economiche” ed i bisogni
materiali nella società collettivistica/socialista, «si deve detrarre:
primo: la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati.
secondo: una parte supplementare per l’estensione della produzione.
terzo: un fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni,
danni causati da avvenimenti naturali, ecc.
Queste detrazioni dal “reddito integrale del lavoro” sono una necessità economica,
e la loro entità deve essere determinata in base ai mezzi e alle forze presenti,
in parte con un calcolo di probabilità, ma non si possono in alcun modo calcolare
in base alla giustizia.
89
Identikit di una teoria
Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo
di consumo.
Prima di arrivare alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:
Primo: le spese generali d’amministrazione che non sono pertinenti alla produzione.
Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più considerevole, in confronto
alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà
sviluppando.
Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva di bisogni, come scuole,
istituzioni sanitarie, ecc. Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto
alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà
sviluppando.
Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc. In breve ciò che oggi appartiene alla
cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri».40
In altri termini, secondo la previsione marxiana del 1875 la società e lo stato
socialismo avrebbero in ogni caso destinato una parte del prodotto sociale e del
surplus sociale per favorire “l’estensione della produzione” e per un processo di
accumulazione/riproduzione allargata di tipo socialista, indirizzato a vantaggio
di tutti i membri della collettività (ivi compresi “gli inabili al lavoro”): a giudizio
del rivoluzionario tedesco, l’immatura società socialista non era certo statica e conservatrice,
ma viceversa dinamica e tesa a raggiungere livelli sempre più elevati di
benessere materiale, di sviluppo culturale e di tempo libero disponibile per tutti i
“cooperatori colti” del futuro (Lenin, 1923).
Le caratteristiche fondamentali del comunismo sviluppato, della seconda e più
avanzata fase di sviluppo del modo di produzione comunista, derivano dalla differenza
con la fase socialista.
Sempre secondo la concezione marxiana, il socialismo si rivela segnato da una
centrale e dominante contraddizione interna, il contrasto continuo che si riproduce
tra il basso ed arretrato livello di sviluppo delle forze produttive sociali e l’elevato
grado di sviluppo dei bisogni materiali e culturali (ivi compreso quello del tempo
libero, il “diritto all’ozio” descritto Paul Lafargue): contraddizione principale della
società socialista che si traduce innanzitutto in una penuria relativa dei generi di
consumo, la quale verrà superata solo progressivamente attraverso un’indispensabile
“sviluppo multilaterale degli individui” ed un incremento continuo delle
“forze produttive” e di “tutte le sorgenti della ricchezza collettiva” (Marx, Critica
al programma di Gotha).
Inoltre nella società e fase di transizione socialista, a differenza che nel comunismo
sviluppato ed “in fase elevata della società comunista” (Marx, 1875), emergono
e si riproducono altre importanti contraddizioni “secondarie” di natura sia
economica che politica, anche nel caso più favorevole di una vittoria della rivoluzione
socialista mondiale:
– non è ancora scomparsa la divisione tra lavoro intellettuale e manuale,
come invece avverrà nel comunismo sviluppato;
90
ROBERTO SIDOLI
– il tempo libero a disposizione è molto meno ampio che nella fase comunista
successiva, vista l’immaturità relativa del processo di automatizzazione
della produzione di beni e servizi;
– esiste ancora lo stato con i suoi apparati necessari per gestire e controllare
la distribuzione dei mezzi di consumo in base al lavoro, oltre che il processo di
calcolo delle quantità/qualità di energie psicofisiche erogate via via dai singoli
produttori diretti;
– esistono differenze sociali nella retribuzione ottenuta da ciascun lavoratore,
nella “quantità di mezzi di consumo” ricevuta da essi per via della disuguaglianza
nel “rendimento” (Marx) e nella “durata e intensità” delle energie psicofisiche erogate
via via da ciascun produttore diretto;
– esistono delle serie differenze sociali tra la “quantità di mezzi di consumo”
ottenuto dai lavoratori delle diverse aree geopolitiche del globo, anche a parità di
durata ed intensità di lavoro, per effetto delle enormi differenze delle rispettive
basi produttive di partenza (si pensi alla situazione materiale di una Svezia collettivistica,
rispetto a quella vissuta inevitabilmente dai lavoratori del Bangladesh
anche dopo un’eventuale rivoluzione mondiale).
Secondo Marx, le inevitabili contraddizioni del socialismo verranno risolte solo
progressivamente e principalmente attraverso un continuo processo di crescita
delle “forze produttive” e di “tutte le sorgenti della ricchezza collettiva”.
«In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione
asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il
contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto
mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale
degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti
della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’augusto
orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue
bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni».41
Utilizzando per comodità espositiva delle definizioni e categorie di matrice cristiana/
dantesca, se l’inferno viene rappresentato dal capitalismo/capitalismo di
stato ed il paradiso invece dal comunismo sviluppato, da “una fase più elevata
della società comunista”, il socialismo costituisce un particolare purgatorio con
alcuni lati inevitabilmente sgradevoli e “immaturi”: un purgatorio tra l’altro bidirezionale,
da cui si può avanzare verso l’Eden comunista o ricadere invece nell’inferno
del capitalismo di stato, come dimostra l’esperienza concreta dell’Europa
orientale e delle ex repubbliche sovietiche tra il 1989 ed il primo decennio del terzo
millennio.
91
LE ORME LASCIATE DALL’EFFETTO DI SDOPPIAMENTO
A questo punto risulta ormai indispensabile passare al processo di analisi della
globalità di prove, concrete e combinate tra loro, che sorregge l’impianto complessivo
dell’effetto di sdoppiamento.
Per comprendere l’essenza e la portata storica reale dell’effetto di sdoppiamento
(biforcazione), bisogna analizzare rapidamente il processo complessivo di sviluppo
del genere umano partendo da circa due milioni e mezzo di anni fa quando
era apparso il primo esemplare umano, l’Homo habilis, dotato di una statura eretta
collegata organicamente alla presenza di un pollice opponibile è già in grado di
esprimere un discreto sviluppo della massa cerebrale.
Il periodo storico che iniziò con l’Homo habilis ed arrivò fino all’11000 a.C. è
stato caratterizzato soprattutto dal basso livello di sviluppo delle forze produttive
sociali: a dispetto del progressivo miglioramento ed affinamento degli strumenti
di produzione e distruzione, passati via via dalle rozze schegge di selce lavorate
fino all’arco del tardo Paleolitico, il genere umano per più di due milioni d’anni si
era dedicato esclusivamente alla raccolta di cibo, alla caccia e alla pesca, avvalendosi
di rudimentali strumenti in pietra, in osso e in legno.
Le diverse tribù di esseri umani raccoglievano collettivamente con dei bastoni i
tuberi e sceglievano vegetali e bacche commestibili, mentre quattrocentomila anni
fa esse utilizzavano il fuoco e si servivano di asce e lance per la caccia di gruppo
e di ami per la pesca (25000 a.C.): ma la loro attività produttiva non era quasi mai
in grado di produrre un surplus produttivo costante, rispetto ai bisogni fisiologici
minimali, e garantiva pertanto solo una riproduzione stentata del genere umano,
sempre potenzialmente sottoposto ai colpi delle calamità naturali e al rischio di
morte per fame/freddo, in una condizione generale spesso contraddistinta da una
penuria assoluta di generi alimentari, che faceva sì che nel Paleolitico sussistessero
sia fenomeni carsici di cannibalismo che tutta una serie di sporadici scontri armati
tra i diversi clan preistorici per il controllo del territorio, come quelli accertati presso
le tribù di cacciatori/ raccoglitori dell’America del Sud durante il XVI secolo
a.C.42
Fino all’11000/9000 a.C., un livello molto basso di sviluppo delle forze produttive
e della divisione sociale del lavoro non consentiva (se non in via eccezionale
ed in aree geoproduttive iperfavorite) la riproduzione costante di un’eccedenza
produttiva e la sua accumulazione su larga scala e nel lungo periodo, non permettendo
pertanto alcuna forma di sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo.
Inoltre la raccolta dei tuberi, dei vegetali e della frutta, la caccia e la pesca erano
svolte in modo cooperativo tra i pochi membri dei vari clan, determinando in tal
modo inevitabilmente una distribuzione sostanzialmente egualitaria del prodotto
92
ROBERTO SIDOLI
dell’attività produttiva tra i piccoli gruppi umani preistorici: tali gruppi formavano
le cosiddette bande, che «sono i gruppi umani più piccoli, e sono formate in
genere da 5 a 80 individui, tutti più o meno affini e/o parenti», e a volte collettività
ancora più estese (le tribù).43
I rapporti sociali di produzione, che corrispondevano a questo grado molto
arretrato di sviluppo delle forze produttive, erano pertanto inevitabilmente di
tipo collettivistico e contraddistinti dalla proprietà comunitaria della terra e dello
spazio geografico utilizzato dai vari clan per la raccolta-caccia, oltre che dalla ripartizione
sostanzialmente egualitaria del cibo e del risultato finale del processo
produttivo.44
Per due milioni e mezzo di anni il genere umano si riprodusse materialmente
attraverso l’egemonia, quasi incontrastata, delle strutture socioeconomiche del
comunismo primitivo e nell’assoluta impossibilità di esistenza dello sfruttamento
del lavoro altrui, visto che l’assenza di un surplus permanente ed accumulabile nel
tempo precludeva a priori un’eventuale appropriazione privata dei risultati del lavoro
altrui, assolutamente “improduttivo” per eventuali ed ipotetici “sfruttatori”.
Nessuna eccedenza = nessuna forma possibile di appropriazione privata di surplus
da parte di una minoranza dei membri dei clan neolitici: solo la presenza di
condizioni geonaturali estremamente favorevoli per la caccia e/o la pesca, come
nella California settentrionale del periodo tardo-paleolitico, permisero alle élite
di alcune tribù cacciatori/pescatori di appropriarsi del surplus generato costantemente
dal lavoro altrui, in modo tale che il possesso privato e la “linea nera”,
che si sviluppò enormemente in seguito, si limitò di regola a pochi oggetti di uso
corrente e alle armi, mentre guerre e razzie fra clan esistevano giocavano un ruolo
limitato nell’insieme della riproduzione materiale delle “bande” paleolitiche.
Per più di due milioni di anni, pertanto, la pratica complessiva del genere umano
ha confermato sul campo la validità della tradizionale tesi marxiana sulla corrispondenza
dialettica esistente tra il livello di sviluppo delle forze produttive ed
i rapporti sociali di produzione e di distribuzione, mentre anche la gestione degli
affari comuni dei clan primitivi e le relazioni “politiche” del Paleolitico erano parallelamente
caratterizzate dall’assoluta impossibilità materiale della riproduzione
di “distaccamenti speciali” di uomini armati, di apparati statali.
In modo corretto Engels indicò come uno dei “segni distintivi” dello stato l’istituzione
di una «forza pubblica che non coincide più direttamente con la popolazione
che organizza se stessa come potere armato […]. Questa forza pubblica esiste
in ogni stato e non consta semplicemente di uomini armati, ma anche di appendici
reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere, di cui nulla sapeva la società gentilizia
».45
I clan paleolitici indubbiamente conobbero conflitti sporadici con le altre tribù
e (a volte) anche l’uso del cannibalismo nei confronti dei nemici sconfitti, ma la
preistoria “nulla sapeva” di eserciti e polizia, di prigioni ed imposte, di strutture
politico-materiali inutili sul piano sociale ed il cui costo economico sarebbe stato in
93
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
ogni caso insostenibile per le società primitive, nel caso di un’ipotetica “fioritura”
statalista: «nelle tribù, come nelle bande, mancano burocrazia, polizia e tasse» (J.
Diamond). La gestione degli affari comuni delle strutture primitive era affidata
alla discussione-decisione collettiva e spesso al parere autorevole degli anziani,
depositari dell’esperienza del clan: come ha notato anche lo storico statunitense J.
Diamond, «le tribù nomadi di cacciatori-raccoglitori sono in gran parte società di
eguali, la cui azione politica si limita al controllo del proprio territorio e a mutevoli
alleanze con le tribù circostanti».46
Dal canto suo il ruolo sociale assunto dalle donne nel Paleolitico risultava notevole,
in virtù sia della loro importante partecipazione al processo produttivo, mediante
la caccia di piccoli animali e la raccolta di cibo, che della “magica” procreazione
di figli, visto che il contributo maschile alla riproduzione del genere umano
rimase sconosciuto per più di due milioni di anni: l’arte del tardo Paleolitico dell’Homo
Sapiens Sapiens espresse tale influenza reale con il culto della Dea Madre,
generatrice di vita e dispensatrice di fertilità, «che influenza la crescita e la moltiplicazione,
rappresentata incinta o nuda» (Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea).
In estrema sintesi, rapporti politici largamente egualitari e assolutamente a-statali
corrisposero felicemente a rapporti di produzione collettivistici per una lunghissima
fase di sviluppo del genere umano, caratterizzata da lenti miglioramenti
degli strumenti di produzione (fuoco e arco, in primo luogo).
Ma la sostanziale continuità storica fu spezzata dal “Grande Evento”, alias dalla
rivoluzione tecnico-produttiva del neolitico, iniziata in forma embrionale dalle
donne dell’Anatolia e dell’area siropalestinese tra l’11000 e il 9000 a.C., con un lento
processo che venne replicato in seguito con modalità assolutamente autonome
in Cina (prima dell’8800 a.C.) ed in America Centrale durante un’epoca anteriore
al 3500 a.C.47
La gigantesca rivoluzione neolitica fu caratterizzata dalla nascita dell’agricoltura
e dell’allevamento: tale genesi venne preparata alla fine dell’era glaciale da
una fase intermedia di raccolta sistematica di cereali selvatici, iniziata da alcune
tribù del Paleolitico (Ohalo, Israele, 21000 a.C.) e del Mesolitico nella zona turcopalestinese
(11000-9000 a.C.), e resa possibile dalla produzione in questo lungo
arco temporale di «falci dalla lama di selce e dal manico di legno o d’osso: pestelli,
mole e mortai per liberare i grani dalla pula; metodi d’essiccazione per evitare che
i semi germogliassero dopo la raccolta; e grandi silos sotterranei, alcuni dei quali
intonacati per renderli impermeabili» (J. Diamond). Illustrando con fatti concreti
l’importanza di questa lunga fase prerivoluzionaria, l’archeologo J. R. Harlan ha
dimostrato negli anni Settanta che, usando un falcetto dalla lama di selce, in un
periodo di mietitura di tre settimane una famiglia di sei persone nel Mesolitico
avrebbe potuto accumulare frumento selvatico in quantità tale da permettere un
consumo procapite giornaliero di quattro ettogrammi di cereali: i “motori” delle
forze produttive si stavano ormai scaldando, preparando le condizioni per l’entrata
nell’era del surplus.48
94
ROBERTO SIDOLI
Dopo questo lungo periodo preparatorio, i clan della zona siropalestinese ed
anatolica iniziarono a seminare con cura ed arte le prime piante di cereali, cominciando
a curarne la crescita e selezionando per caso e/o tentativi le sementi più
produttive, mentre parallelamente allo sviluppo dell’agricoltura le tribù dell’area
in esame presero ad allevare i primi animali “commestibili” (seguendo l’esperienza
della domesticazione del lupo-cane), attirati e allo stesso tempo nutriti dalle
colture di cereali neolitiche.
In tal modo nel Vicino Oriente il genere umano coltivò le piante del grano, dell’orzo
e dei piselli, addomesticando la pecora e la capra attorno all’8500 a.C.; in
Cina processi analoghi avvennero per miglio e riso, con i primi allevamenti di
maiali (8000 a.C.), mentre in America Centrale la coltivazione di mais, fagioli e
zucca si accompagnò all’allevamento del tacchino (3000 a.C.).
I risultati concreti della rivoluzione tecnico-produttiva del neolitico furono eccezionali
e di un peso storico straordinario, visto che innanzi tutto si produsse un
enorme aumento della produttività media del lavoro sociale rispetto alla precedente
caccia-raccolta (o pesca) del Paleolitico: J. Diamond notò sinteticamente che
«alla fine, un ettaro di terra coltivata riesce a dar sostentamento a molti più contadini
(dalle 10 alle 100 volte) di quanto non riesca a fare un ettaro di terra vergine
per i cacciatori-raccoglitori».49
Dalle dieci alle cento volte: un salto qualitativo gigantesco, anche se accompagnato
dal lato negativo della progressiva riduzione del tempo libero disponibile rispetto
alle precedenti società di raccoglitori-cacciatori, come evidenziato in modo
provocatorio dal teorico statunitense John Zerzan.
L’umanità era ormai entrata nell’era del surplus.
Di conseguenza alcune frazioni consistenti del genere umano, dopo il 9000 a.C.,
iniziarono a riprodurre sistematicamente, pur tenendo conto dei fattori atmosferici
e climatici avversi, un surplus e un plusprodotto in eccedenza rispetto ai bisogni
minimali di sopravvivenza biologica, in modo tale che l’aumento della produttività
diede alla forza-lavoro umana, per usare una nota definizione di Engels del
1884, la capacità di creare un prodotto maggiore di quanto fosse necessario al suo
mantenimento: anche se ovviamente nel corso del IX millennio a.C. la produttività
media, e la massa complessiva della forza lavoro impiegata rimasero bloccate
ancora ad un livello relativamente basso, esse nondimeno consentirono all’oasi di
Gerico di utilizzare il surplus e il pluslavoro disponibile per commerciare con altre
zone (ossidiana), e per erigere mura e torri attorno alla città già a partire dal 8300-
7500 a.C.50
Il gioco era riuscito e la “magia” si era realizzata con successo, visto che attorno
al 9000-7500 a.C. alcune importanti zone geoeconomiche del globo crearono e
riprodussero quel fondamentale salto di qualità produttivo che taglia seccamente
in due la storia dell’Homo Sapiens, dividendola nell’era pre e post surplus permanente,
mentre come ulteriore sottoprodotto positivo l’aumento formidabile della
produttività del lavoro sociale e la formazione parallela del plusprodotto agricolo
95
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
innescarono un circolo economico “virtuoso”, che si autoalimentò e si riprodusse
su scala allargata: infatti l’agricoltura creò, come si è già rilevato, le condizioni materiali
necessarie per innescare l’utilizzo dell’allevamento di animali domestici su
larga scala e dopo il lupo, che si trasformò in cane a partire dal 12000 a.C. in Cina e
Iran, venne il turno della domesticazione di altri preziosi animali.
«Gli animali domestici hanno aiutato l’uomo a produrre più cibo in quattro
modi diversi: fornendo latte, carne, concime e forza motrice per gli aratri. Come è
ovvio, il bestiame sostituì direttamente la selvaggina come fonte primaria di proteine;
al giorno d’oggi, ad esempio, la stragrande maggioranza delle proteine animali
assunte dagli americani proviene da buoi, maiali, galline e pecore, e non certo
dalla carne di cervo – considerata una prelibatezza non da tutti i giorni. Gli animali
domestici servono anche a migliorare la produzione agricola. Prima di tutto,
come ogni giardiniere o contadino sa bene, non c’è niente di meglio del letame per
fertilizzare la terra da coltivare. Anche se oggi abbiamo a disposizione i concimi
sintetici prodotti dalle industrie chimiche, in gran parte del mondo le deiezioni
animali (soprattutto di bovini, ovini e yak) continuano ad essere la principale fonte
di fertilizzante. Lo sterco, inoltre, è stato ed è un apprezzato combustibile in molte
società tradizionali.
Inoltre, i grandi animali domestici possono servire anche a tirare gli aratri, il
che rende possibile dissodare terreni che sarebbero altrimenti lasciati incolti. Tra
gli animali da lavoro ricordiamo i bovini, i cavalli, il bufalo asiatico e il banteng
di Bali, e gli incroci tra buoi e yak. Ecco un esempio della loro importanza. I primi
agricoltori apparsi in Europa centrale circa 7000 anni fa – i popoli della cosiddetta
“cultura della Ceramica lineare”, o Linearbandkeramik – furono per un certo tempo
confinati in terre dai suoli morbidi, che potevano essere dissodati a mano con
appositi bastoni. Solo mille anni dopo questi agricoltori primitivi furono in grado
di coltivare una maggiore varietà di terre. Lo stesso accade in America: gli indiani
delle grandi pianure nordamericane erano confinati nei terreni alluvionali; lo
sfruttamento degli altopiani, il cui suolo era molto più duro, fu possibile solo nel
XIX secolo grazie agli europei e ai loro aratri tirati da animali».51
Va sottolineato come il surplus alimentare fosse diventato facilmente accumulabile
e trasportabile, sia sotto forma vegetale che animale, da parte dei clan
degli agricoltori sedentari e dalle tribù pastorizie. Un cacciatore-raccoglitore del
Paleolitico poteva di tanto in tanto portare con sé più cibo di quanto non riuscisse
a consumare in pochi giorni, ma alla lunga, notò correttamente Diamond, questa
abbondanza non gli era utile perché egli era privo degli strumenti per conservarla
e custodirla: nel Neolitico le tribù agricole erano invece in grado di immagazzinare
molto cibo e conservarlo con una certa efficacia mentre i clan di nomadi-pastori
disponevano a loro volta di una “riserva di cibo mobile” su larga scala, addomesticata
e controllabile con relativa facilità dalla combinazione uomo-cane.
Inoltre le colture agricole non costituivano solo fonti di cibo. «Ad esempio, piante
e animali domestici ci forniscono fibre naturali che, opportunamente intessute,
96
ROBERTO SIDOLI
diventano vestiti, coperte, reti o corde. In tutte o quasi le società che “scoprirono”
l’agricoltura, i cereali erano affiancati da colture come il cotone, la canapa e il lino;
molti animali erano allevati per lo stesso motivo: pecore, capre, lama e alpaca per
la lana, e i bachi per la seta. Inoltre, gli uomini del Neolitico ricavavano attrezzi e
altri manufatti dalle ossa degli animali domestici, e cuoio dalla pelle conciata dei
bovini. Una delle prime piante domestiche in America, infine, fu coltivata per usi
non alimentari: era un tipo di zucca utilizzata come recipiente.
Gli animali domestici di grossa taglia rivoluzionarono la storia dell’umanità anche
perché furono gli unici mezzi di trasporto terrestre fino al XIX secolo e all’avvento
delle ferrovie. Agli albori dell’umanità, l’unico modo per trasportare cose e
persone era portarseli a spalle; grazie agli animali, l’uomo fu in grado di spostarsi
con facilità e di portare con sé grandi quantità di merci. Si montarono cavalli, asini,
yak, renne e cammelli, e si utilizzarono (insieme al lama) come animali da soma.
Buoi e cavalli furono attaccati ai carri, renne e cani alle slitte. Il cavallo divenne il
principale mezzo di trasporto in quasi tutta l’Eurasia, ruolo che fu assunto dalle
tre specie di camelidi domestici (dromedario, cammello e lama) rispettivamente in
Nordafrica e Arabia, Asia centrale e America andina.» Ma non solo. «Il contributo
più diretto di un animale domestico alle guerre di conquista eurasiatiche venne
dal cavallo. I cavalli erano le jeep e i carri armati del passato. Come abbiamo visto
nel capitolo precedente, grazie ai cavalli due avventurieri come Cortés e Pizarro,
a capo di piccole bande, conquistarono gli imperi degli aztechi e degli inca. Molto
tempo prima, attorno al 4000 a.C., i cavalli montati a pelo furono probabilmente
un fattore fondamentale per l’espansione verso occidente dei popoli indoeuropei
stanziati nell’odierna Ucraina, un’espansione così inarrestabile da spazzare via
tutte le lingue non indoeuropee (tranne pochissime). Quando più tardi i cavalli
vennero usati anche come animali da tiro, il carro da guerra (inventato attorno
al 1800 a.C.) fu una vera rivoluzione nell’arte militare che si diffuse nel Vicino
Oriente, nel bacino del Mediterraneo e in Cina».52
Infine, con il passare del tempo, il surplus disponibile permise la creazione di
società contraddistinte da una crescente diversificazione delle attività produttive,
e dalla specializzazione di una parte degli uomini neolitici in alcune forme relativamente
sofisticate di artigianato.53
Le conseguenze sociopolitiche della rivoluzione neolitica e dello sviluppo
gigantesco delle forze produttive e della divisione del lavoro furono realmente
enormi, confermando la tesi marxiana sulla centralità per la dinamica storica dello
sviluppo degli strumenti di produzione (ivi compreso l’uomo, principale forza
produttiva), ma gli effetti concreti del salto di qualità tecnologico-produttivo si
manifestarono attraverso modalità concrete molto diverse da quelle indicate da
Marx ed Engels.
In base alla narrazione “marxista-ortodossa”, lo sviluppo accelerato delle forze
produttive sociali provocato dalla rivoluzione neolitica ha inevitabilmente generato
una contraddizione antagonista ed irrisolvibile tra i nuovi strumenti di pro97
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
duzione ed i “vecchi” rapporti di produzione collettivistici del Paleolitico, diventati
rapidamente un ostacolo reazionario alla dinamica progressista dei mezzi di
lavoro del genere umano: secondo il giudizio di Marx ed Engels, la rivoluzione
tecnologica indusse ed innescò necessariamente una sorta di inevitabile “controrivoluzione”
nelle relazioni di proprietà e nel processo di distribuzione del prodotto
sociale, all’interno delle strutture affermatesi nella fase “post-surplus”, provocando
direttamente nel medio periodo l’affermazione di rapporti di produzione classisti,
fondati sull’appropriazione dei mezzi di produzione e del plusprodotto da
parte di una minoranza della popolazione.
In ultima analisi la dinamica delle forze produttive e la riproduzione costante
di un plusprodotto, mediante la coppia formata da agricoltura e allevamento, determinarono
sul piano storico per Marx ed Engels l’inevitabile successo nel lungo
periodo di nuovi ed originali modi di produzione, quali quello asiatico e schiavistico;
nel primo caso il surplus prodotto dalle comunità di villaggio veniva estorto
da un apparato statale centralizzato, che poteva assumere forme religiose o laiche
e che spesso curava la manutenzione delle grandi opere idrauliche indispensabili
all’agricoltura, mentre nel secondo la forza-lavoro era ridotta a mero strumento
parlante dei proprietari di schiavi, della terra e dei mezzi di produzione.
Nel 1884 Engels sintetizzò i risultati della pluridecennale elaborazione storicoteorica
dei due rivoluzionari riaffermando, nell’Origine della proprietà, della famiglia
e dello Stato, il carattere necessario e “progressista” della rivoluzione-controrivoluzione
affermatasi nei rapporti di produzione durante la fase post-paleolitica.
«L’aumento della produzione in tutti i rami – allevamento del bestiame, agricoltura,
artigianato domestico – diede alla forza-lavoro umana la capacità di creare
un prodotto maggiore di quanto fosse necessario al suo mantenimento. L’aumento
della produzione fece aumentare contemporaneamente la quantità di lavoro quotidiano
che toccava ad ogni membro della gens, della comunità domestica e della
famiglia singola. Si sentiva ora il bisogno di introdurre nuove forze-lavoro. La
guerra le fornì; i prigionieri di guerra furono mutati in schiavi. La prima grande
divisione sociale del lavoro, con l’aumento della produttività del lavoro e quindi
della ricchezza e con l’ampliamento del campo di produzione che aveva determinato,
dato l’insieme delle condizioni storiche esistenti, portò necessariamente
dietro di sé la schiavitù. Dalla prima grande divisione sociale del lavoro, nacque
la prima grande scissione della società in due classi: padroni e schiavi, sfruttatori
e sfruttati.»54
Scissione moralmente discutibile, ma che per Marx ed Engels indubbiamente
rappresentò la forza motrice essenziale del progresso storico. È stato stimato che
ancora nel III millennio a.C. il contadino egiziano era già capace di produrre il
triplo del cibo occorrente per sostenere se stesso e la sua famiglia, facendo sì che
il surplus prodotto dalla forza-lavoro consentisse la costruzione di grandi edifici
pubblici e delle enormi tombe per l’aristocrazia egizia, oltre a permettere la riproduzione
della burocrazia civile e del clero: sulla base di analoghe masse di plusla98
ROBERTO SIDOLI
voro/surplus si crearono e riprodussero tutte le multiformi classi egemoni sul piano
socioproduttivo, la cui funzione storica rimase secondo Marx sostanzialmente
positiva e progressista per alcuni millenni, almeno fino al 1824/1830 d.C.55
Sempre secondo lo schema marxista-ortodosso, anche il settore della politica e
della “gestione degli affari comuni” fu rivoluzionato inevitabilmente e la comunità
solidaristica del precedente periodo paleolitico, basata su decisioni prese collettivamente
e sul potere limitato degli anziani, venne sostituita inevitabilmente da
una direzione elitaria e dalla costruzione-riproduzione di apparati repressivi e di
controllo sociale, rivolti contro la maggioranza oppressa e sfruttata della popolazione.
Per Engels la “costituzione gentilizia”, formata dall’unione di diverse classi e
tribù, aveva rappresentato la prima e contraddittoria fase di superamento dell’antica
organizzazione comunitaria, cui era seguito in un secondo momento il processo
di costruzione dell’organizzazione statale con i connessi apparati repressivi,
strumenti fiscali e dirigenti/funzionari politici staccati dal resto della società.
«Ma ora era sorta una società che, in forza di tutte le sue condizioni economiche
di vita, aveva dovuto dividersi in liberi e schiavi, in ricchi sfruttatori e poveri
sfruttati, una società che non solo non poteva riconciliare questi antagonismi, ma
doveva sempre più spingerli al loro culmine. Una tale società poteva sussistere
solo o nella lotta aperta continua di queste classi tra loro, oppure sotto il dominio
di una terza potenza, che, stando apparentemente al di sopra delle classi in conflitto,
ne comprimesse il conflitto aperto e permettesse che la lotta delle classi si
combattesse, tutt’al più, nel campo economico, in forma cosiddetta legale. La costituzione
gentilizia aveva fatto il suo tempo. Essa era stata distrutta dalla divisione
del lavoro e dal suo risultato: la divisione della società in classi. Essa fu sostituita
dallo Stato. […] Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi
di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi,
è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che,
per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo
strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato
antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantener sottomessi
gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi
i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per
lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale.
Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze
pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore,
momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe. Così la
monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che mantenne l’equilibrio tra nobiltà
e borghesia, così il bonapartismo del primo e specialmente del secondo impero
francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro
il proletariato. L’ultimo prodotto del genere, in cui dominatori e dominati appaiono
egualmente comici, è il nuovo impero tedesco di nazione bismarckiana: qui si
99
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
mantiene l’equilibrio tra capitalisti e operai truffandoli entrambi a tutto vantaggio
dei signorotti terrieri della Prussia.»56
Si tratta di uno schema interpretativo molto chiaro e pienamente legittimato dai
dati empirici concretamente a disposizione di Marx ed Engels, nella seconda metà
dell’Ottocento, ma questo paradigma storico non risulta più corretto, corrispondendo
solo in parte allo sviluppo storico del genere umano in Eurasia verificatosi
tra il 9000 ed il 3900 a.C., nel Neolitico e nel Calcolitico (età del rame), come emerge
dai nuovi risultati ottenuti dai ricercatori storici nel corso del Ventesimo secolo.
Un’impressionante sequenza di “fatti testardi” (Lenin), che non potevano assolutamente
essere conosciuti da Marx ed Engels nel XIX secolo, suggerisce con forza
l’idea della costruzione di un inquadramento teorico alternativo e notevolmente
difforme da quello “ortodosso”, fondato su delle diverse coordinate teorico-generali
di riferimento.
In primo luogo l’irruzione nella storia del genere umano di un surplus costante
ed accumulabile, del pluslavoro e del plusprodotto costituì realmente un evento
decisivo ed uno spartiacque epocale poiché dal 9000 a.C. nel Vicino Oriente (e poi
in Cina, Asia Minore, Egitto, Mesopotamia, Europa, ecc.) gli uomini del Neolitico
ebbero a loro disposizione un “bottino” ed un’eccedenza permanente, conservabile
e riproducibile anno per anno, fatta astrazione dei fattori atmosferici e climatici,
ottenuta in larga parte attraverso processi produttivi collettivi e con la cooperazione
durante l’attività agricola: tuttavia la ricaduta politico-sociale del “Grande
Evento” neolitico non consistette nella produzione inevitabile di rapporti di produzione
classisti, in sostituzione delle antiquate e reazionarie relazioni produttive
collettivistiche, ma nella creazione di un costante campo di potenzialità alternative
per i rapporti di produzione e di potere all’interno delle strutture neolitiche e calcolitiche.
Il livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive sociali e dalla divisione
del lavoro, a partire dal 9000 a.C., produsse inevitabilmente e necessariamente
una specie di biforcazione storica in cui erano possibili nello stesso periodo e nelle
stesse aree geopolitiche l’esistenza e la riproduzione parallela sia dei rapporti
di produzione collettivistici che di quelli invece di matrice classista, fondati sullo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo: prova ne è il fatto che per cinquemila anni concretamente
si sono materializzate due forme generali di rapporti di produzione,
in un lungo periodo in cui è esistita una reale duplicità di modi di produzione su
scala planetaria (9000-3900 a.C. in Eurasia, 500 a.C.-1900 d.C. in America ed Africa)
sulla base di un livello relativamente omogeneo nella produzione di surplus e nello
sviluppo della produttività del lavoro.
Se nel Paleolitico lo sviluppo delle forze produttive consentiva e permetteva
esclusivamente la sussistenza dei rapporti di produzione comunisti-primitivi, il
boom produttivo-tecnologico del Neolitico produsse la possibilità di esistenza e
di sviluppo per due forme alternative di rapporti di produzione, collettivistici e
classisti: potenzialità generale trasformatasi in dinamiche storiche concrete ed al100
ROBERTO SIDOLI
ternative già durante il processo di sviluppo compreso tra il 9000 ed il 3900 a.C.,
almeno nella sfera geopolitica eurasiatica.
In altri termini la progressiva esplosione tecnologico-produttiva e demografica
del Neolitico, a partire dal 9000 a.C., consentì e permise sia a livello potenziale
che reale la presenza/riproduzione del comunismo neolitico da un lato, e la presenza/
riproduzione di relazioni socio-produttive di tipo “asiatico” o schiavistico
dall’altro; consentì e permise ininterrottamente l’azione potenziale dell’effetto di
sdoppiamento (biforcazione), in base al quale il surplus-plusprodotto e i mezzi di
produzione potevano (e possono) essere prodotti ed appropriati sia in presenza di
rapporti di produzione collettivistici che di quelli classisti, fondati sullo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo e sul possesso da parte di una minoranza delle forze
produttive sociali e delle condizioni della produzione.
Lo schema classico marxista sul legame dinamico esistente tra processi produttivi,
sociali e politici, è stato sintetizzato con notevole successo da G. Plechanov
alla fine del XIX secolo assumendo la seguente forma:
– Livello delle forze produttive
⇓ ⇓
– Divisione sociale del lavoro
⇓ ⇓
– Rapporti di produzione e distribuzione (classisti)
⇓ ⇓
– Relazioni sovrastrutturali di natura politico-statale
⇓ ⇓
– Altre forme di sovrastrutture ideologiche
(religiose, artistiche, morali, ecc.)
Il processo di azione-reazione reale sussistente tra i diversi “livelli” è sempre
stato collegato nel marxismo ortodosso al carattere determinante assunto dal livello
di sviluppo delle forze produttive e dalla loro dinamica. Ma a questo punto si
può proporre uno schema alternativo di interpretazione per il periodo neoliticocalcolitico
(e non solo), in cui si ritrova un:
– Livello delle forze produttive
⇓ ⇓
– Divisione sociale del lavoro
⇓ ⇓
Surplus costante
Primo sbocco potenziale: Secondo sbocco potenziale:
Rapporti di produzione Rapporti di produzione
e distribuzione collettivistici e distribuzione classisti
= Effetto di sdoppiamento (biforcazione),
presenza di due modelli alternativi di produzione
in campo economico-sociale.
⇓
⇓
101
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
Le potenzialità molto spesso si trasformarono in realtà concreta: proprio la
pratica socioproduttiva del periodo neolitico-calcolitico dimostra che, in molte e
decisive aree geopolitiche del mondo, si assistette concretamente alla coesistenza/
lotta, a volte nella stessa area geografica e nello stesso periodo storico, di rapporti
sociali di produzione/distribuzione e di gestione del potere alternativi tra loro
e che per cinque millenni, in molte zone del nostro pianeta, si confrontarono ed
a volte interagirono tra loro una “linea rossa” collettivistica ed una “linea nera”
classista (anche se nell’America settentrionale-meridionale ed in India i tempi storici
furono sfasati rispetto all’area mediorientale, europea e cinese), sempre in presenza
di livelli di sviluppo relativamente omogenei delle forze produttive e della
produzione di surplus.
Inoltre l’esperienza storica del 9000/3900 a.C. ci fornisce un secondo e sorprendente
elemento storico di riferimento, sintetizzabile nella superiorità e maggiore
dinamicità produttiva di regola raggiunta dai rapporti di produzione collettivistici
rispetto a quelli classisti, fondati sull’appropriazione del surplus e dei mezzi di
produzione da parte di una minoranza della collettività. Infatti i maggiori risultati
tecnologici, produttivi e sociali, le migliori performance del periodo neolitico-calcolitico
furono raggiunte e conseguite proprio dalle formazioni economico-sociali
comuniste, con una sola importante eccezione, l’addomesticamento del cavallo e
delle «jeep e carri armati del passato» (J. Diamond) da parte dei predoni Kurgan:
proprio dei centri d’irradiazione collettivistici quali Gerico, Catal Hüjuk, la cultura
Ubaid e di Vinca (Europa) costituirono i punti più avanzati nello sviluppo storico
reale e nel progresso produttivo del genere umano durante i cinque millenni presi
in esame.
Infine emerge dalla pratica millenaria neolitica/calcolitica, come conseguenza
della combinazione dialettica tra l’effetto di sdoppiamento ed il maggiore dinamismo
storico dei rapporti di produzione collettivistici, il primato dei rapporti di
forza politico-militari durante il Neolitico-Calcolitico (e non solo…): paradossalmente,
proprio per cause e ragioni squisitamente economiche e socioproduttive.
Se infatti entrambi i rapporti di produzione, collettivistici e classisti, potevano
riprodursi sul piano potenziale e si sono manifestati concretamente nell’arena internazionale
per cinquemila anni, le vittorie riportate volta per volta e nei diversi
scenari storici da un modo di produzione e di relazioni sociali sull’altro sono state
determinate per cinque millenni da un “terzo incomodo” e da una terza forza storica.
L’esperienza indica che questo “arbitro” tra i due litiganti non è stato altro che
il rapporto di forza politico (e politico-militare), via via sviluppatosi tra le diverse
componenti umane del genere umano durante il Neolitico-Calcolitico, tra i diversi
gruppi sociali che si sono riprodotti in quei cinquemila anni: il successo storico di
uno dei due modi di produzione sul campo è stato determinato volta per volta dal
mutevole controllo e direzione degli apparati di potere politici e militari, poiché,
parafrasando Marx, “tra modi di produzione diversi ha deciso la forza”, e più precisamente
i rapporti di forza politici e politico-militari.
102
ROBERTO SIDOLI
⇓
⇓
Detto in altri termini, l’effetto di sdoppiamento generato da un particolare livello
di sviluppo delle forze produttive sociali, con il derivato surplus costante e
la coppia agricoltura/allevamento, e determinato da cause squisitamente economiche,
ha creato a sua volta come suo sottoprodotto un primato plurimillenario
dei rapporti di forza politici e politico-militari, centralità del resto riconfermata
proprio dall’affermazione su scala planetaria dei rapporti sociali di produzione
meno efficienti sul piano produttivo, meno dinamici e progressivi nel campo della
produttività complessiva del lavoro sociale: la comparsa di correlazioni di potenza
politiche e militari sfavorevoli alle progredite società collettivistiche del periodo
neolitico e calcolitico ha purtroppo causato progressivamente, il successo quasi generalizzato
del meno avanzato modo di produzione classista, nella forma asiatica
o schiavistica a seconda dei casi concreti.
Riprendendo lo schema storico-generale alternativo sovraesposto, si otterrà
pertanto una nuova serie di “anelli” e livelli interconnessi, tra cui emergono il:
– Livello delle forze produttive
⇓ ⇓
– Divisione sociale del lavoro
⇓ ⇓
Surplus costante
Possibili rapporti di produzione Possibili rapporti di produzione
collettivistici classisti
Rapporti di forza politico-militari dominanti, volta per volta
Rapporti di produzione dominanti (collettivistici o classisti)
Le concrete relazioni di potere e di forza militare hanno determinato volta per
volta quale modo di produzione e rapporto di produzione fosse, volta per volta,
centrale e decisivo nella vita concreta delle diverse strutture tribù e gruppi organizzati
durante il Neolitico-Calcolitico; in ultima analisi, l’effetto di sdoppiamento
ha trovato il suo “riduttore” storico ed il suo fattore di condensazione nei rapporti
di potenza politici e politico-militari creatisi volta per volta nelle diverse collettività
umane.
Le tesi in oggetto trovano una loro prima conferma nel fatto che la più recente
ricerca storiografica a volte ha constatato, di sfuggita e quasi per caso, che nella gestione
degli affari comuni delle società neolitiche-calcolitiche si affermarono real-
⇓
⇓
103
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
mente due diversi involucri socioproduttivi e sociopolitici, la chefferie (chiefdom)
collettivistica e la chefferie protoclassista, che si inseriscono in larga parte in quello
“stadio medio della barbarie” descritto da Engels nel 1884 e già caratterizzato dalla
presenza dell’agricoltura e allevamento, produzione di ceramiche e lavorazione
dei metalli (oro, rame, ecc.).
La chefferie costituisce una categoria storico-teorica elaborata nel XX secolo dalla
scuola statunitense neo-evoluzionista di E. Service e M. Fried, al fine di definire le
forme concrete di organizzazione delle strutture politico-sociali neolitiche-calcolitiche,
composte da centinaia o migliaia d’individui ed in cui un capo deteneva
una posizione di comando ufficialmente riconosciuta, occupata di solito per diritto
ereditario: si trattava di un’autorità centrale permanente che prendeva le decisioni
politico-economiche più importanti, curava sia la redistribuzione del surplus e
delle prestazioni fornite dagli artigiani specializzati che le relazioni internazionali
con le tribù vicine, più o meno conflittuali a seconda dei casi.
Nelle chefferies la novità economico-politica principale, rispetto alle tribù paleolitiche,
consistette soprattutto nello sviluppo di un sistema di economia redistributiva,
ed in ogni caso alternativa al baratto, visto che il capo della comunità
ed i suoi assistenti amministravano, centralizzavano e ridistribuivano via via il
surplus collettivo indirizzandolo concretamente verso gli scopi ritenuti prioritari
dalla struttura politico-sociale in cui erano inseriti.
Un lungo processo di accumulazione di dati empirici sulle società del passato
ha ormai evidenziato come il potere politico-economico di redistribuzione del
surplus poté essere utilizzato attraverso due modi alternativi, per fini collettivi o
al servizio di una minoranza della popolazione della chefferie, che ne avrebbe pertanto
tratto tutta una serie di vantaggi in termini di tempo libero e di livelli di consumo,
determinando in tal modo la possibilità e la riproduzione concreta durante
il Neolitico-Calcolitico di due diverse forme di organizzazione politico-sociale e
socioproduttiva.
Nella chefferie collettivistica dell’8500-3900 a.C. il surplus era impiegato quasi
esclusivamente per i bisogni collettivi ed individuali della popolazione, riservando
al nucleo dirigente politico al massimo solo dei “privilegi” materiali estremamente
modesti, limitati solo (e non sempre) ad alcuni prodotti artigianali e ad oggetti
rari che venivano importati da lontano: esso formava il cosiddetto “clan conico”,
un’élite sociopolitica che non trasformava la sua posizione di comando-gestione
degli affari comuni “in reali vantaggi economici”, secondo la valutazione di M.
Frangipane. 57
La chefferie protoclassista ha rappresentato invece l’antenato delle formazioni
economico-sociali asiatiche e/o schiavistiche. Giustamente J. Diamond ha notato
che «in alcuni casi, parte dei beni ricevuti dal popolo non venivano ridistribuiti,
ma erano consumati dalla casta dominante e da chi lavorava per loro: si trattava
allora di un vero tributo, di un precursore delle moderne tasse che fece la sua prima
comparsa proprio tra le chefferies. Non solo: il capo poteva chiedere al popolo
104
ROBERTO SIDOLI
anche di partecipare alla costruzione di grandi opere, sia queste fossero di utilità
pubblica (come un sistema di irrigazione), sia fossero ad uso e consumo della classe
alta (ad esempio una tomba monumentale).»58
Veniva in tal modo a formarsi una “società stratificata”, in cui i processi di centralizzazione
e redistribuzione dei beni generavano nei gruppi di rango politico
elevato dei diritti preferenziali di accesso e possesso ad alcune risorse materiali
strategiche.
La direzione politica unitaria e la sua azione continua di redistribuzione del
plusprodotto, agricolo-armentizio, poteva esprimersi in sostanza mediante due
diverse modalità generali, con due scale di priorità socioproduttive alternative e
sulla base di due diversi rapporti sociali di produzione-distribuzione: proprio nel
suo eccellente lavoro, J. Diamond osservò empiricamente, anche se solo in riferimento
alla Polinesia, la diversità reale creatasi in alcune strutture politico-sociali
del Neolitico-Calcolitico a dispetto di una sostanziale omogeneità nel livello di
sviluppo qualitativo delle forze produttive.
«Le chefferies, anche se finora ne abbiamo parlato come se fossero tutte la stessa
cosa, erano in realtà molto diverse tra loro. Le più grandi avevano capi più potenti,
un maggior numero di caste, distinzioni più marcate tra governanti e sudditi, tributi
più elevati e costanti, un maggior numero di burocrati e un’edilizia pubblica
più grandiosa. Per contrasto, società più piccole come quelle presenti in certe isolette
polinesiane erano molto simili a delle tribù con il capo villaggio, con l’unica
differenza che la carica era ereditaria. La capanna del capo era fatta come tutte le
altre, non c’erano burocrazia e lavori pubblici, quasi tutti i tributi raccolti venivano
ridistribuiti e la proprietà della terra era comune. Ma su isole più grosse come le
Hawaii, Tahiti e Tonga i capi andavano in giro riccamente vestiti, grandi masse
di popolani erano costrette a lavorare alle opere pubbliche, i tributi non venivano
ridistribuiti e la terra era controllata dai capi. Inoltre, c’era molta variazione tra società
costituite da un solo villaggio autonomo e tra quelle formate da agglomerati
regionali, con un villaggio più importante a fare da capitale.»59
Se i risultati ottenuti da una parte degli storici contemporanei ci forniscono un
primo indizio, è proprio la dinamica complessiva del periodo Neolitico-Calcolitico
a costituire la migliore – e più diretta – prova concreta a sostegno della tesi sopraesposta
sulla coesistenza/lotta tra due distinte tendenze in campo produttivo,
sociale e politico, che si affermarono realmente come dominanti in segmenti diversi
della popolazione mondiale tra il 9000 ed il 3900 a.C.. Anche se la tendenza
“sconfitta” a volte lasciò un segno subordinato, ma reale in strutture sociopolitiche
egemonizzate dalla “rivale”: infatti l’effetto di sdoppiamento provocato dalla “magica”
apparizione di un surplus costante si rivelò soprattutto attraverso l’esistenza/
riproduzione reale di due diversi rapporti di produzione sociali, all’interno
dello stesso contesto geopolitico (o di aree limitrofe) e della stessa epoca storica (o
in periodi strettamente collegati), a parità approssimativa di sviluppo qualitativo
delle forze produttive, o in presenza di una superiorità detenuta in questo campo
105
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
dalle società e culture contraddistinte da relazioni socioeconomiche tendenzialmente
egualitarie e cooperative.
La più avanzata e dinamica tendenza socioproduttiva, la “linea rossa” del periodo
Neolitico-Calcolitico, si è basata su rapporti di produzione collettivistici,
sulla gilania (uguaglianza tra i sessi) e su una determinata forma politica di chefferies,
il clan conico, finalizzata alla tutela delle relazioni produttive cooperative
mediante il controllo di una distribuzione sostanzialmente ugualitaria del surplus,
spesso indirizzata verso lavori di comune utilità: si trattò di società che spesso si
riprodussero ininterrottamente per molti secoli (o addirittura millenni), superando
a volte gravi problemi geoclimatici (alluvioni, processi di desertificazione, ecc.) e
coinvolgendo nel loro sviluppo milioni e milioni di esseri umani.60
Il punto di partenza del segmento collettivistico delle società neolitiche venne
costituito da Gerico, una delle più grandi meraviglie della storia, dato che proprio
nel centro palestinese a partire dall’8500 a.C. venne progressivamente creata la prima
civiltà urbana del genere umano, in quella che diventò la capitale del mondo
per più di duemila anni: i clan neolitici della città e della limitrofa area siro-palestinese
non solo riuscirono a domesticare il grano, l’orzo, il farro e i maiali poco dopo
il 9000 a.C., “inventando” l’agricoltura e l’allevamento nell’area mediterranea, ma
effettuarono anche un’altra grande scoperta storica, la costruzione di piccole città.
Gerico nacque come piccolo villaggio attorno al 9000 a.C., in una fertile oasi nel
deserto, diventando con il tempo un importante centro commerciale del periodo
protoneolitico in un’area in cui vennero coltivati orzo e grano, innescando un lento
processo di selezione delle sementi più produttive attraverso una lunga pratica
cooperativa.
In pochi secoli, tra l’8900 ed il 8400 a.C., i clan collettivistici del luogo edificarono
una piccola città con una caratteristica serie di abitazioni ovali, composte da
mattoni di fango essiccato con un intonaco levigato dipinto di rosso; nella fase
immediatamente successiva dello sviluppo di Gerico apparvero delle case rettangolari,
con molte stanze e dei microsantuari per la Dea, mentre la popolazione aumentò
progressivamente fino a superare le duemila unità in una data anteriore al
7000 a.C., uomini e donne che vivevano in un’area calcolata in oltre quattro ettari
e che superava per dimensioni quella di buona parte dei centri urbani formatisi
nell’Europa occidentale, durante il XV secolo della nostra era.61
Non solo: gli abitanti di Gerico erano circondati e difesi da una cinta muraria,
munita di torri difensive alte fino a dieci (10!) metri dimostrando che già dieci
millenni or sono l’arte edilizia aveva raggiunto livelli di sviluppo impressionanti,
confermati del resto anche dalle costruzioni realizzate nel 9000 a.C. dai cacciatoriraccoglitori
di Gobekli Tepe.
Non solo. Fin dall’8300 a.C. Gerico commerciò con altre tribù e villaggi dell’Asia
Minore da cui importava principalmente l’ossidiana, un vetro naturale di colore
nero, mentre il processo di sepoltura egualitaria dei teschi era accompagnata dal
modellamento in argilla dei lineamenti dei viventi sui crani che venivano sepolti:
106
ROBERTO SIDOLI
si trattò della più antica forma di ritrattistica del singolo individuo, accompagnata
anche dai primi segni di sviluppo di un’arte statuaria in grado di utilizzare l’argilla.
62
Non era un fenomeno casuale: attorno al 6500 a.C., nell’area del Vicino Oriente
e a Gerico si era diffusa l’arte della ceramica con la produzione stabile di oggetti e
utensili di argilla, cotta col fuoco e variamente decorata, mentre già molto prima le
case avevano porte munite di stipiti in legno e veri e propri lavandini emergevano
dai pavimenti, molto spesso decorati.63
L’esperienza di Gerico non rimase sicuramente isolata, visto che nella regione
palestinese-siriana essa era circondata da tutta una serie di villaggi “minori” del
periodo natufiano quali Ain Mallaha, Nureybet, Ramad, Munhata e Beidha, mentre
la rivoluzione produttiva ed urbana si estese progressivamente nell’8000-6000
a.C. a tutto il Vicino Oriente, dall’attuale Turchia (sito di Asili, 8000 a.C.) fino a
Cipro (sito di Khirokitya, VI millennio a.C.), in presenza quasi ovunque dell’egemonia
dei rapporti di produzione collettivistici.64
Saltano infatti subito all’occhio la sostanziale uniformità delle abitazioni di
Gerico, la costruzione di silos collettivi per il deposito di grano ed orzo e i metodi
di sepoltura egualitaria, limitati al solo cranio: la capacità ormai acquisita dalle tribù
siropalestinesi di organizzare grandi lavori collettivi, quali la stessa produzione
agricola e la costruzione di alte mura e di gigantesche torri per difendersi dagli attacchi
predatori delle tribù di cacciatori-raccoglitori, permisero senza problemi la
riproduzione plurimillenaria (seppur con qualche lunga interruzione storica) del
primo e splendido modello di chefferie collettivistica.
La seconda concretizzazione della “linea rossa” neolitica è costituita dalla città
anatolica di Catal Hüyük, sviluppatasi tra il 6600 ed il 5600 a.C.
Otto millenni or sono, la civiltà neolitica di Catal Hüyük (odierna Turchia) contava
circa 6000 abitanti, distribuiti in modo egualitario su un complesso abitativo
che si estendeva con circa mille case su uno spazio di 1,5 Km2. Le omogenee case
di mattoni e legno erano di forma rettangolare e consistevano in una o due stanze,
mentre gli interni venivano decorati con cornici di legno rosso, rivestiti di creta e
dipinti: visto che le case erano tutte contigue, oltre che uniformi esternamente, la
“circolazione” avveniva sui tetti dove si apriva l’ingresso della casa, mentre una
parte delle case era adibito a microcappelle per onorare la Dea Madre.
Gli abitanti neolitici di Catal Hüyük non solo erano abili artigiani nel campo dei
monili, dell’ossidiana e della produzione dei tessuti, ma nel 6000 a.C. conoscevano
già l’arte della ceramica ed i suoi segreti; sul piano agricolo essi utilizzavano su
larga scala degli efficienti microimpianti di irrigazione artificiale, mentre il ritrovamento
di numerosi piccoli santuari, adorni di dipinti parietali e di offerte votive
destinate alla Dea Madre (e altre divinità-totem), attestano il notevole livello di
sviluppo artistico raggiunto dalla civiltà anatolica in esame.65
Inoltre, come è stato mostrato dall’archeologo britannico James Mellaart, la civiltà
di Catal Hüyük conosceva a metà del VI millennio a.C. la metallurgia: lo
107
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
studioso inglese ha infatti scoperto nel sito anatolico delle scorie che indicavano
l’estrazione del rame dal minerale attraverso un processo di fusione, mentre tecniche
analoghe vennero in seguito impiegate nell’area siropalestinese tra il 4500
ed il 4200 a.C. con l’utilizzo di fornaci che mantenevano il fuoco alla temperatura
di 1084° necessaria per la fusione. Sempre a Catal Hüyük si è trovate una serie di
stampi di argilla cotta, utilizzati per fare tatuaggi e (probabilmente) disegni per
abiti in quella che diventò la prima protoforma di tecnologia di stampa, scoperta
circa sette millenni prima dei cinesi e di Gutenberg.66
Queste conquiste tecnologico-produttive vennero raggiunte in presenza di rapporti
di produzione prevalentemente collettivistici e matriarcali, come dimostrato
dal culto della Dea e dall’uniformità delle abitazioni: nonostante l’esistenza di alcune
limitate forme di differenziazione socioeconomica, gli abitanti di Catal Hüyük
ignoravano precisi segni distintivi della chefferie protoclassista, quali l’esistenza di
grandi e numerosi edifici religiosi, di tombe speciali destinate a pochi privilegiati e
di abitazioni molto più ampie e sfarzose della media di quelle poste a disposizione
dei lavoratori manuali.
La terza “stazione” è formata dalla civiltà Al-Ubaid, sviluppatasi in Mesopotamia
tra il 4900 ed il 3900 a.C. e protagonista di un nuovo grande salto di qualità produttivo
nella storia del genere umano; essa precedette ed interagì direttamente con
la prima fase di sviluppo della società classista dei sumeri, i quali molto probabilmente
vissero a stretto contatto con le popolazioni ubaidiche per un lungo periodo
incorporandone via via le conquiste produttive e culturali, a partire dal 3900-3800
a.C.
La civiltà Ubaid non si limitò a produrre statuette dal corpo umano con il volto
di serpente, probabilmente collegate al culto della Dea Madre, ma riuscì ad ottenere
nell’ultima fase della sua esistenza (periodo tardo Ubaid, 4200/3900 a.C.) una
serie impressionante di successi in campo agricolo e tecnologico, che in seguito
vennero imitati su larga scala ed affinati dalla civiltà sumera (periodo antico Uruk)
nella stessa area geopolitica, tra il 3800 ed il 3400 a.C.: non a caso quest’ultima ereditò
dai suoi predecessori collettivistici tutta una serie di termini tecnico produttivi,
quali engar (agricoltore) ed apin (aratro), simug (fabbro) e udur (pastore).67
Alcuni storici, tra cui M. Liverani, hanno definito giustamente la brusca accelerazione
impressa dagli Ubaid allo sviluppo delle forze produttive sociali come la
“rivoluzione secondaria” del Neolitico, composta in campo agricolo da tutta una
serie di innovazioni strettamente connesse tra loro e capaci di sfruttare al meglio
alcune condizioni geonaturali, potenzialmente molto favorevoli.
Per facilitare il processo di mietitura di grandi estensioni cerealicole, la civiltà
Ubaid introdusse infatti un attrezzo quale il falcetto di terracotta, a forma di mezzaluna
e con il bordo interno affilato, il cui costo di produzione era estremamente
basso in confronto a qualunque altro tipo di lama, in selce o rame.
Inoltre gli Ubaid seppero sfruttare con estrema efficacia l’intreccio di fiumi e
acquitrini naturali che contraddistingueva la parte finale del corso del Tigri e del108
ROBERTO SIDOLI
l’Eufrate, realizzando nel corso dei secoli un’estesa rete di canali e un’ottima sistemazione
idraulica del terreno basso-mesopotamico. Nella loro ultima fase di
esistenza essi crearono il campo lungo, nel quale il processo di irrigazione a solco
veniva praticato su sottili strisce parallele tra di loro e che si estendevano in lunghezza
per molte centinaia di metri, in leggera pendenza: si aveva pertanto una
“testa alta” adiacente al canale da cui ricavavano l’acqua e una “testata bassa”,
verso gli acquitrini o i bacini di drenaggio, in modo tale che l’acqua inondasse solo
i solchi. Ovviamente il campo lungo, data la sua dimensione e il suo posizionamento
rispetto al canale d’irrigazione, richiedeva un lavoro collettivo coordinato e
una pianificazione centrale, ma consentiva d’altro canto un enorme innalzamento
del livello medio di produttività.68
Sempre in epoca tardo-Ubaid venne infine introdotto l’aratro a trazione animale,
strettamente collegato alla lavorazione del campo: l’aratro permise di scavare
solchi rettilinei della lunghezza di molte centinaia di metri e al momento della
semina lo strumento a trazione animale si trasformava in aratro-seminatore, mediante
l’installazione di un imbuto a cannello che consentiva di collocare i semi
uno per uno ed in profondità dentro nel solco.
La connessione strettissima creatasi tra campo lungo, irrigazione a solco ed
aratro a trazione animale permette di attribuire loro una collocazione temporale
approssimativa nel periodo tardo-Ubaid, quasi due secoli prima del sorgere dell’egemonia
dei Sumeri e intorno al 4000 a.C.
«I falcetti di argilla, che per la loro materia sono l’unico elemento dell’intero
complesso che sia archeologicamente ben visibile, si distribuiscono attraverso il
periodo tardo-Ubaid e antico-Uruk, per essere poi evidentemente soppiantati da
altro tipo di attrezzo – a differenza delle altre innovazioni che permarranno per
millenni. Se esaminate tutte assieme, queste innovazioni si situano dunque a ridosso
della grande esplosione demografica e organizzativa del periodo tardo-Uruk:
non possono risalire più indietro della fase matura di Ubaid, e devono aver raggiunto
la pienezza organizzativa con la fase antico-Uruk.
Si può anzi proporre che mentre l’uso del falcetto d’argilla (che implica un’intensificazione
della cereali-coltura, ma non è necessariamente legato alle altre innovazioni)
sembra introdotto in uso abbastanza presto durante il periodo Ubaid,
invece le innovazioni più significative e strettamente interconnesse possono collocarsi
a immediato ridosso del periodo Uruk, intorno al 4000 a.C.»69
La seconda grande rivoluzione neolitica produsse un enorme aumento della
produttività del lavoro sociale, non molto lontano da quello raggiunto in precedenza
nell’area palestinese-siriano attorno al 9000-8000 a.C.
«Questo complesso di innovazioni, impostato su un’organica sistemazione
idraulica del territorio e sull’impiego della trazione animale, deve aver avuto un
impatto sulla produttività agricola della bassa Mesopotamia che è senz’altro paragonabile
all’introduzione della meccanizzazione nell’agricoltura moderna. Si
potrebbero forse tentare dei calcoli più specifici: si è già detto che la messa a dimo109
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
ra dei semi produce un aumento della produttività valutato del 50% rispetto alla
semina per dispersione; l’uso dell’aratro comporta rispetto all’uso della zappa un
risparmio di tempo quantificabile; e così via. In complesso, non è certo azzardato
ritenere che i passaggio dal sistema tradizionale (dissodamento a zappa, semina
a getto, irrigazione per inondazione) di dimensione familiare, ad un complesso
tecnico-organizzativo come quello ora descritto deve aver comportato un aumento
di produttività (a parità di risorse umane impegnate) in un ordine di grandezza
stimabile tra il cinque a uno e il dieci a uno.
Questo che possiamo ben chiamare una rivoluzione delle tecniche agricole, e
che si sviluppò nell’arco di alcuni secoli a ridosso della rivoluzione urbana e delle
formazioni proto-statali, è un evento storico di enorme rilievo, ed è in vario modo
archeologicamente documentato. È stupefacente constatare quanto poco se ne parli
nella corrente letteratura storico-archeologica sull’argomento, prevalentemente
accentrata sugli sviluppi della struttura sociale e dell’élite dirigenti, sviluppi spesso
estraniati da quelli relativi al modo di produzione.»70
La risposta alla questione posto dall’autorevole storico M. Liverani viene probabilmente
dal fatto che la struttura sociopolitica degli Ubaid era incentrata su un
“clan conico” in cui le disuguaglianze socioeconomiche tra gli abitanti erano ridotte
al minimo, fatto evidentemente poco apprezzato da larga parte degli storici,
ma resta il fatto innegabile che un aumento di produttività pari ad almeno cinque
volte rappresentò indubbiamente un’accelerazione eccezionale nel processo di sviluppo
qualitativo delle forze produttive, che si unì tra l’altro ad altre innovazioni
introdotte o adottate su larga scala dalla cultura Ubaid.71
Attorno al 4500-4200 a.C. alcune zone del Vicino Oriente (e gli Ubaid) conoscevano
infatti da tempo la tecnica della metallurgia per la fusione del rame ed i primi
elementi del processo di creazione di strumenti di lavoro e di armi prodotti con
tale minerale, visto che le fornaci dell’epoca Calcolitica permettevano di mantenere
il fuoco alla temperatura di 1084°C necessaria per la riduzione allo stato liquido
del rame puro.
Inoltre tra gli Ubaid non solo si sviluppò la produzione su larga scala di contenitori
in ceramica, di vasellame da tavola (brocche, tazze e bicchieri) e da cucina
(pentole), ma tale lavorazione si poté avvalere delle forme primordiali di torni
con piattaforme girevoli; del resto anche la tessitura del lino, ed in subordine della
lana, si realizzò concretamente mediante l’utilizzo di telai di tessitura a pesi
nel processo produttivo degli Ubaid i quali, nel loro ultimo periodo di esistenza,
seppero creare anche alcuni tra i primi oggetti vetrificati in superficie all’interno
dell’area del Medio Oriente. 72
Il processo di urbanizzazione della civiltà Ubaid, nelle sue ultime fasi di esistenza
storica, era già abbastanza avanzato e si esprimeva con l’esistenza di una serie
di cittadine quali Eridu, Tell’Uqair, Tell’Abada e Tell Ubaid, nelle quali emersero
degli edifici di culto sempre più estesi che «possono avere assunto e ridefinito vecchie
pratiche di “magazzino comune”» (Liverani); infine è molto probabile che i
110
ROBERTO SIDOLI
sorprendenti Ubaid avessero riprodotto la ruota e i primi veicoli a ruota, dato che
già da un vaso dell’età halafiana (la civiltà che precede storicamente Ubaid) sembra
sia stata dipinta “la più antica rappresentazione di un veicolo a ruote” finora
scoperta.73
Ma il dato storico che più sorprende consiste nel carattere sostanzialmente
egualitario assunto dalla chefferie degli Ubaid, che si riprodusse anche in presenza
della “seconda rivoluzione” neolitica e di quella quintuplicazione del rendimento
produttivo medio (decuplicazione nelle stime più ottimistiche) sopra citata.
M. Liverani notò che «innanzi tutto si tratta di una cultura piuttosto egualitaria
e piuttosto severa: priva di vistosi dislivelli, di fenomeni di accentramento, di tesaurizzazione
e di ostentazione, o altro. Si pensi alla ceramica, che la produzione
in serie, alla “ruota lenta”, depriva di quelle vivaci caratterizzazioni e decorazioni
delle culture precedenti. Si pensi all’assenza di vistose differenze nella dimensione
e la struttura degli abitati, che ove scavati su estensioni sufficienti (nel caso di Tell
es-Sawwan e di Tell’Abada) colpiscono assai più per il loro aspetto omogeneo che
non per la presenza di ovvie gradazioni dimensionali (sulle quali comunque torneremo
più avanti). Si pensi all’omogeneità e povertà delle sepolture (ogni inumato
è accompagnato da un paio di vasi di tipo standard e da un modesto ornamento
personale), senza quella concentrazione diversificata di ricchezza che normalmente
fornisce l’indicatore privilegiato per l’emergenza di élite. Si pensi più in generale
all’estrema rarità, per non dire assenza (sia in contesti funerari sia di abitato), di
materiali e oggetti di pregio e di importazione, come metalli o pietre semi-pregiate.
Questo carattere severo e sostanzialmente egualitario della cultura Ubaid può
non stupire di per sé, ma deve certamente stupire se rapportato al fatto che proprio
allora s’innescava quella decuplicazione dei rendimenti agricoli, quella possibilità
di eccedenze sostanziose, di cui abbiamo detto sopra. La crescita demografica
complessiva, nonché la floridezza generalizzata deducibile dalla dimensione e
dalla fattura tecnica delle abitazioni, non hanno adeguato parallelo in una crescita
di dislivelli interni – o almeno nella loro sottolineatura mediante pratiche ostentatorie.
»74
In sintesi la florida civiltà Ubaid realizzò la seconda grande rivoluzione, tecnologica
e produttiva, del periodo neolitico-calcolitico. Una crescita demografica
molto consistente e un’urbanizzazione diffusa. Il tornio. La metallurgia del rame.
Probabilmente la ruota. La tessitura con telaio. Una rete di canali d’irrigazione
molto avanzata.
Tutto questo, in modo “stupefacente” (Liverani), in presenza e grazie allo stimolo
di rapporti di produzione collettivistici: la presenza di capi e di chefferie ben
organizzate per la redistribuzione del surplus, per la costruzione e manutenzione
di canali e per la gestione delle città Ubaid si accompagnò costantemente alla parallela
assenza di sfruttamento della forza lavoro e al possesso collettivo dei mezzi
di produzione, visto che i nuclei dirigenti statali della civiltà Ubaid usufruirono
111
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
fino alla fine solo di limitati privilegi, durante la loro azione politico-sociale di
coordinamento e di redistribuzione del surplus, a dispetto della forte crescita urbana
e demografica e della crescente complessità delle strutture Ubaid (specializzazione
artigianale, edilizia, agricola, ecc.).
Di fronte agli eccezionali risultati raggiunti dai punti avanzati della “linea rossa”
nell’area mediterranea e mediorientale, impallidiscono le modeste conquiste
tecnico-produttive ottenute dai popoli nomadi e pastori dell’Europa ed Ucraina,
al cui interno stavano di regola prevalendo le tendenze all’appropriazione privata
del surplus e dei mezzi di produzione, e limitate quasi solo al processo di domesticazione
del cavallo.
La “linea rossa” neolitica si concretizzò anche in altri contesti geoeconomici e
geopolitici, con modalità e tempi storici del tutto indipendenti da quelli vissuti
nell’area del Mediterraneo orientale e del Golfo Persico.
Attorno all’8000/6000 a.C. iniziò a svilupparsi il neolitico cinese con le prime
ed arcaiche culture di Jiahu, di Yixian e di Peiligang. Queste società protoneolitiche
sapevano produrre la ceramica e oggetti musicali (flauti) intarsiati, mentre le pietre
da macina ed i resti di miglio carbonizzato attestano che esse conoscevano l’agricoltura,
oltre ad aver già addomesticato il maiale ed il cane.
Nel villaggio neolitico di Dadiwan (5500-3000 a.C.) sono venuti alla luce i più
antichi dipinti, ceramiche ed edifici in terra della Cina, che risalgono a più di settemila
anni fa, e fin da allora Dadiwan era composta sia da 240 case parzialmente
diverse tra loro che da una grande area centrale per le cerimonie religiose; invece
nel sito di Xinglonggou, posto nella Cina nordoccidentale e risalente al 6000 a.C.,
sono state trovate decine e decine di abitazioni utilizzate da una popolazione di
cacciatori-raccoglitori che sapeva produrre la preziosa giada, creare statue di donna
e commerciare con le tribù delle coste della Cina e del Giappone, in una cultura
in cui erano già presenti alcune significative forme di differenziazioni sociale e
politica.
La manifestazione più avanzata del collettivismo neolitico in Cina venne rappresentata
dalla cultura di Yangshao, di cui sono stati ritrovati oltre mille siti nel
bacino del Fiume Giallo e nel Gansu e che si sviluppò tra il 4800 ed il 2000 a.C.,
ereditando direttamente le precedenti conquiste della civiltà di Peiligang.
Le diverse collettività appartenenti alla matriarcale cultura Yangshao coltivarono
per tre millenni il miglio attraverso forme produttive cooperative e comunitarie,
iniziando allo stesso tempo su microscala quei lavori di irrigazione che avrebbero
contraddistinto la storia cinese, mentre parallelamente esse integrarono l’attività
agricola con l’allevamento di cani e maiali e con la caccia/pesca, costruendo delle
grandi abitazioni collettive fuori da terra.
Inoltre le comunità Yangshao riuscirono ad acquisire le tecniche della filatura e
della tessitura, attestate dalle impressioni di tessuto presenti sulla base di alcune
ciotole e dal rinvenimento di aghi in osso, costruendo delle fornaci per la cottura
delle terrecotte e le loro ceramiche, ancora modellate a mano, presentarono una
112
ROBERTO SIDOLI
grande varietà tipologica in cui gli oggetti più caratteristici furono dei bacili, con
decorazioni dipinte in nero su sfondo rosso, e bottiglie a base appuntita con una
decorazione impressa.
«Tra i numerosi siti Yahgshao il più significativo è senza dubbio quello di Banpo,
nei pressi di Xi’an, in cui sono stati rinvenuti i resti di un villaggio distribuiti su
un’area di oltre 10.000 mq. Situato a circa 300 m. dal fiume Chan, un affluente del
fiume Wei, il villaggio, di pianta grosso modo ovale, presenta la zona abitativa al
centro, divisa in due aree da un piccolo fossato; tutt’intorno è scavato un fossato
più grande profondo sei metri, e ad est di esso si trovavano le fornaci per la cottura
delle terrecotte, mentre a nord era situato il cimitero comune. Le abitazioni, a
pianta circolare o quadrangolare, erano capanne seminterrate, cui si accedeva attraverso
uno stretto cunicolo; al centro della zona abitativa era posta una capanna
di grandi dimensioni (20 m. per 12,5 m.), probabilmente un edificio comunitario.
All’interno del villaggio sono stati trovati un gran numero di manufatti in pietra,
in osso e in terracotta.
Si ritiene che la comunità di Banpo – come le altre della cultura Yangshao – fosse
caratterizzata da un sistema sociale di tipo egualitario, anche se la vita della comunità
doveva essere regolata probabilmente da una complessa ritualità. Le tombe, le
dimensioni delle abitazioni, e le fosse per l’immagazzinamento delle derrate presentano
infatti dimensioni simili, ed anche i corredi delle sepolture non appaiono
contrassegnati da differenze rilevanti riguardo alla loro quantità. La ritualità appare
d’altro canto attestata, oltre che dalla composizione dei singoli corredi, anche
dai motivi decorativi di alcune ceramiche, fra i quali si distingue una maschera
circolare con quattro pesci, due attaccati all’altezza delle orecchie, e gli altri due
congiunti all’altezza della bocca: l’immagine suggerisce l’esistenza di riti sciamanici.
Di particolare interesse appaiono inoltre alcuni marchi incisi su terracotta, che
sembrano ricollegarsi ad alcuni caratteri della scrittura Shang.»75
Verso il 2400 a.c. la civiltà Yangshao, nella sua ultima fase di sviluppo (Machang),
riuscì a produrre sia il bronzo che la seta, ma queste conquiste tecnico-produttive
furono seguite da una profonda trasformazione di una parte delle comunità in
esame: infatti a poco a poco i riti sciamanici ed i loro protagonisti, i sacerdoti, assunsero
un ruolo diverso in una sezione delle comunità Yangshao, svolgendo la
funzione di apripista per il processo di introduzione al loro interno di rapporti di
produzione protoclassisti, fondati sull’egemonia di un’élite politico-religiosa (culture
di Longhshan dello Shaanxi e dello Henan).
Sempre in Cina, ma nel bacino dello Yangzi (Fiume Azzurro), sorsero nel
6000/5000 a.C. le civiltà di Pengtoushan e di Hemudu, alle cui strutture socioproduttive
collettivistiche (forse di origine africana) il genere umano è debitore della
prima coltivazione su larga scala del riso: i semi di riso venivano coltivati in campi
inondati in modo artificiale e controllato con l’aiuto di zappe di osso.
La “linea rossa” trovò un altro sbocco nel Nord America, zona geografica staccata
per millenni dall’evoluzione parallela avvenuta nelle altre aree del globo: in
113
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
quest’area le civiltà di cacciatori-raccoglitori paleolitici furono affiancate nella zona
sud-occidentale degli Stati Uniti dalle splendide civiltà dei pueblos, gli Hohokam
(“coloro che scomparvero senza tracce”) e gli Anasazi.
Preparata da un plurisecolare processo di sviluppo economico e culturale, la civiltà
degli Hohokam fiorì nella zona del deserto del Sonora tra il 500 ed il 1250 d.C.
e venne formata da gruppi di agricoltori che vivevano nei pueblos, agglomerati a
più piani costruiti con mattoni di argilla essiccati, di dimensioni variabili e in cui
si ritrovava sempre un Kiva, una sala di riunione e luogo di preghiera allo stesso
tempo.76
Non solo tra gli Hohokam la produzione di ceste e di vasellame di argilla aveva
raggiunto un livello artistico straordinariamente alto, ma essi raggiunsero un’eccezionale
competenza nel processo di costruzione (e manutenzione) plurisecolare di
un avanzatissimo sistema di irrigazione per la cultura del mais, avviato attorno al
I secolo a.C. e sviluppatosi gradualmente fino alla fine del XI secolo.
«Questo popolo, così abile nei piccoli oggetti artistici, fu gigantesco nelle grandi
opere. Alludiamo al sistema di canali che consentì loro l’agricoltura intensiva e
soprattutto l’irrigazione costante del mais, che è la base di quasi tutte le culture
nordamericane.
Questo sistema di canali lunghi miglia e miglia sorse a poco a poco, col lavoro di
parecchie generazioni. Un canale di cinque chilometri, scavato con le mani e con
primitivi strumenti di legno e pietra, poté essere datato a prima di Cristo, allorché
gli Hohokam non avevano ancora sviluppato le loro “capacità artistiche”. I canali
dovevano essere adeguatamente adattati al terreno (e come potevano farlo privi
com’erano di qualsiasi strumento ottico di misurazione?) costantemente sorvegliati,
modificati, migliorati; si dovettero costruire dispositivi per la regolazione delle
acque, e ciò durò secoli.
E la natura era contro di essi. Giammai la portata d’acqua del Gila era costante,
giammai si poteva calcolare in precedenza la quantità di pioggia che sarebbe caduta,
neppure disponendo dei migliori uomini di medicina.»77
Anche la tecnica della costruzione urbana raggiunse presso gli Hohokam vertici
notevoli, dato che ad esempio la grande costruzione (Kiva) di Casa Grande, a sud
di Phoenix nell’odierno Nuovo Mexico, costituì una specie di “vetero-grattacielo”
nordamericano a cinque piani e con centinaia di stanze affiancate.78
Fino al 1300 d.C., quando venne messa in crisi da disastrosi cambiamenti climatici
(siccità e “piccola glaciazione” del 1200) e dalle invasioni di popoli nomadi,
nel sud-ovest degli attuali Stati Uniti apparve un’altra millenaria concretizzazione
della “linea rossa” neolitica, la grande civiltà agricola americana degli anasazi
(“gli antichi”) che cominciò ad emergere nella Mesa Verde attorno al 300 a.C. e si
sviluppò fino al 1200 d.C. Anche gli Anasazi costruirono spettacolari sistemi di
canali di irrigazione e di bacini di riserva, incrementando enormemente la produzione
agricola e la densità demografica in un’area semidesertica, mentre allo stesso
tempo essi crearono una stupefacente produzione nel campo della tessitura, della
114
ROBERTO SIDOLI
ceramica e della gioielleria edificando anche enormi “condomini” a più piani (talvolta
anche cinque) che arrivarono a contenere fino a 800 stanze, come nel caso di
Pueblo Bonito nel Chaco Canyon.79
Le culture Hohokam ed Anasazi erano fondate su strutture sociopolitiche collettivistiche
e matriarcali, visto che la coltivazione cooperativa del mais e i giganteschi
lavori di irrigazione artificiale venivano regolati da una chefferie/clan conico
che godette di privilegi insignificanti per diversi secoli e in centinaia di pueblo, la
cui popolazione complessiva arrivò a toccare nel periodo d’oro alcune decine di
migliaia di persone.
A migliaia di chilometri di distanza, nel centro-nord dell’attuale Perù, si affermò
tra il 900 a.C. ed il 200 d.C. la civiltà di Chavin. Essa coltivò il mais, il tubero
della manioca, le arachidi e le zucche; scoprì ed applicò i metodi necessari per
l’irrigazione artificiale e la costruzione di grandi serbatoi d’acqua; addomesticò il
lama, conobbe la tessitura di lana e cotone e seppe lavorare l’oro ed il rame, mentre
la sua produzione di ceramica monocromatica raggiunse livelli artistici molto elevati
anche grazie a una forte ispirazione magica-religiosa, ben evidente nei templi
della “capitale” della cultura in esame.
Con la sola esclusione degli edifici religiosi di Chavin de Huantar, nell’enorme
area geografica in esame e nei numerosi piccoli centri urbani della cultura Chavin
sono stati trovati solo modesti santuari fatti di mattoni d’argilla, costruiti da piccole
comunità agricole: secondo lo storico F. Katz nella zona in oggetto non sono
state scoperte tracce di mura ed armi, neanche nella “capitale”, mentre la relativa
uniformità delle sepolture nella civiltà precolombiana in esame rivela il carattere
almeno semicollettivistico della cultura Chavin. Nella visione dello storico H. D.
Disselhoff, a Chavin «né il potere né la ricchezza erano concentrate nelle mani di
pochi, che ne avrebbero potuto abusare. Ci si può immaginare, piuttosto, un benessere
abbastanza equamente distribuito…»80
Le culture dell’era post-Chavin vennero travolte dopo alcuni secoli da uno dei
rappresentanti sudamericani della “linea nera”, i Mochica, abili guerrieri capaci
di costruire il primo impero andino: essi introdussero la cattura su larga scala di
prigionieri, l’espansione territoriale nel centro-nord del Perù e la parallela costruzione
delle piramidi e di grandi tombe riservate all’élite politico-religiosa, anche
se il livello di sviluppo qualitativo delle forze produttive rimase sostanzialmente
uguale a quello del periodo Chavin.
Nell’area dell’Europa centro-orientale si svilupparono tra il 6000 ed il 3000 a.C.
avanzate culture collettivistiche (della civiltà di Vinca) che si estesero dai Balcani
fino al Baltico: esse crearono la prima forma storica di protoscrittura, coltivarono
cereali, produssero splendide ceramiche e gioielli in oro ed arrivarono nell’ultima
fase della loro esistenza ad impadronirsi della tecnica della metallurgia del rame:
secondo l’opinione di M. Gimbutas, C. Renfrew e Gordon Childe, questa civiltà era
composta da una serie di città e villaggi locali autonomi riprodottisi all’interno di
una sorta di federazione neolitica con forti componenti paritarie tra i sessi, abitata
115
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
da agricoltori egualitari le cui società non possedevano alcun ordine gerarchico
stabile e rigido.81
Sempre in Europa apparvero anche delle civiltà megalitiche matriarcali, diffusesi
tra il 4000 ed il 1000 a.C. in un’area posta tra il Portogallo, la Sardegna, l’isola
di Malta e la Gran Bretagna. Le grandi opere in pietra realizzate da queste civiltà
richiesero sia la presenza di un surplus agricolo costante che un alto grado di coesione
sociale tra le donne e gli uomini impegnati nella creazione di monoliti giganteschi
e cerchi di pietra, sempre in assenza di strutture statali o di elevati livelli
di differenziazione socioeconomica al loro interno: tali strutture socioproduttive,
come quelle di Vinca soprammenzionate, vennero in larga parte travolte e deformate
dalle invasioni di popoli nomadi più arretrati sul piano economico-sociale.
Proprio la costruzione di megaliti, vere e proprie tombe collettive gigantesche,
costituì un’attività cooperativa che serviva anche, se non soprattutto, a rafforzare
la solidarietà interna delle comunità che via via realizzarono tali gigantesche opere:
secondo Colin Renfrew, «è lecito immaginare che le comunità più strettamente
collegate, in pace tra di loro e in grado di resistere alle pressioni dei vicini, si trovassero
in una posizione di notevole vantaggio. Ora, è proprio la partecipazione
comune a eventi sociali e cerimonie religiose, simboleggiate dai megaliti, che spesso
serve a rafforzare una comunità, soprattutto quando essa è dispersa in fattorie
che possono trovarsi a diversi chilometri l’una dall’altra. La popolazione mesolitica
di Téviec e Hoëdic con le sue ben organizzate sepolture familiari, già segnate
e rese evidenti da un tumulo di pietra, può aver riconosciuto il valore reale di tale
solidarietà, allorché entrò in contatto con i nuovi vicini. In tali circostanze, con
una popolazione in aumento e una crescente pressione sul territorio, si sarebbero
dovuti rinforzare gli elementi che favorivano la solidarietà nella comunità, così
che si sarebbe accresciuto il significato sociale dato alla sepoltura vera e propria e
l’importanza del memoriale fisico. Questi fattori, uniti alla consueta competizione
pacifica tra gruppi vicini, espressa in termini sociali da un generoso scambio
di doni o dalla costruzione di monumenti sempre più belli, avrebbero favorito la
rapida evoluzione di monumenti unificanti e apportatori di prestigio: in altri termini,
dell’architettura megalitica».82
Secondo alcuni storici, risulta chiara anche la matrice semicollettivistica dei rapporti
di produzione e politici che contraddistinsero l’estesa rete di antiche civiltà,
sorte nelle pianure alluvionali dell’Indo e dei suoi cinque principali affluenti, nell’odierno
Punjab, alias la cultura di Harappa e Mohenio-daro, dal nome delle due
principali città dell’India neolitica che si riprodussero tra il 3500 ed il 1900 a.C.,
anche se va notato che fin dal 7000 a.C. si sviluppò nell’area in oggetto la città di
Mehrgath (ora sommersa) nel golfo di Cambaye, sede di una sofisticata comunità
di agricoltori le cui abitazioni erano già fatte in mattoni.
La civiltà di Harappa era formata da una pleiade di estese città (ne sono state
ritrovate circa ottanta) che coesistettero pacificamente per oltre un millennio, su
un’area geografica estesa quasi come l’Europa occidentale, raggiungendo livelli
116
ROBERTO SIDOLI
“ubaidici” di sviluppo delle forze produttive, visto che l’agricoltura basata su un
sistema idrico artificiale produceva surplus notevoli di cereali e favoriva la crescita
di grandi città con decine di migliaia di persone quali la stessa Harappa, con un
perimetro di quattro chilometri, vie ben progettate e un magnifico sistema di fognature;
la tecnica delle civiltà indiane preariane e delle sue corporazioni inoltre
conosceva la ruota e la scrittura, la costruzione di carri e battelli, la tessitura del
cotone, la ceramica e la tecnica della verniciatura.
Sul piano sociale, in ogni caso, le poche tombe ritrovate ad Harappa si mostravano
senza eccezione disadorne e prive di una dotazione di oggetti di valore,
mentre secondo G. Childe «né templi monumentali né palazzi né tombe attestano
senza equivoci una concentrazione centralizzata di ricchezza, né suggeriscono
la dominazione economica di una città dell’Indo da parte di una “grande casa”:
sempre ad Harappa il più grande edificio era significativamente un granaio che
misurava 150 piedi per 50, mentre a Mohenjo-daro una costruzione che occupava
un intero isolato conteneva una vasca da bagno asfaltata, e viene considerata un
bagno pubblico.
Comode case a due piani in cotto, provviste di stanze da bagno e di un alloggio
per il portinaio, che coprivano ben 97 piedi per 83, possono venir messe in contrasto
con monotone file di casette in mattoni di fango, composte ciascuna di due
sole stanze e di un cortile, e che non superavano la superficie di 56 piedi per 30.
Senza dubbio il contrasto riflette una divisione della società in classi, ma, a quanto
pare, soltanto fra mercanti o “uomini d’affari”, e lavoratori o artigiani. Una sorprendente
ricchezza di ornamenti d’oro, d’argento, pietre preziose e porcellana, di
vasellame di rame battuto e di utensili e di armi di metallo, è stata raccolta dalle
rovine. La maggior parte pare proviene dalle case attribuite ai “ricchi mercanti”.
Ma una quantità di arnesi di rame e di braccialetti d’oro è venuta fuori a Harappa
nei “quartieri degli operai”. Nulla fa pensare a tesori regi.»83
Non è casuale che la civiltà semicollettivistica di Harappa sia stata caratterizzata
a livello religioso dalla presenza di divinità femminili e dal culto della fertilità,
generalmente segno distintivo delle società gilaniche, egualitarie e pacifiche, tanto
che secondo lo storico C. K. Maisels la civiltà dravidica della valle dell’Indo era
organizzata come una federazione, un “commonwealth” in cui le varie comunità
locali avevano uno status identico e il surplus restava nelle mani di coloro che lo
producevano: «l’élite al comando aveva autorità non in virtù del suo potere economico
sugli altri cittadini, bensì in virtù del consenso sociale di cui godeva presso i
membri della comunità.»84
Si trattò di una civiltà complessa ma con un basso livello di stratificazione sociale,
a cui dopo molto tempo succedette la cultura ariana, ferocemente militarista
e classista, ma incapace di replicare le opere di canalizzazione urbana (a disposizione
di tutti gli abitanti) create in precedenza dalle antiche città semi-egualitarie
dell’area geopolitica indiana.
117
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
Anche in Egitto il periodo badariano e amraziano (5500-4000 a.C.) e la prima
fase del Gerzeano/Nagada II (3900-3500 a.C.) furono contraddistinti dalla riproduzione
di ben articolate strutture economico-sociali collettivistiche, in presenza e
grazie alle quali si avviarono e svilupparono l’agricoltura e l’irrigazione artificiale,
l’estrazione e lavorazione su larga scala della selce, la lavorazione artigianale dell’oro
e l’arte ceramica.85
Nell’Africa subsahariana, accanto e simultaneamente ai regni classisti via via
comparsi in tale area a partire dal 300 d.C., si crearono alcune civiltà evolute prevalentemente
collettivistiche, pacifiche e relativamente avanzate sul piano tecnologico-
produttivo: la più progredita tra esse fu quella di Jenne-Jeno, che si sviluppò
per più di un millennio tra il 500 a.C. ed il 1100 d.C. nella regione del Niger (Africa
occidentale), in una fase di transizione dall’epoca neolitica a quella del ferro.
In questa area geoeconomica «un caso piuttosto singolare è rappresentato da
alcune società, vissute intorno al delta interno del Niger, che, pur essendo straordinariamente
complesse sia dal punto di vista economico che dal punto di vista
della concentrazione abitativa, non avevano né una struttura statale, né forme di
potere centralizzato, i cui resti archeologici sono stati studiati per la prima volta
negli anni settanta.
Le prime popolazioni a noi note dovettero insediarsi in queste regioni a partire
dal 500 a.C. Esse conoscevano l’uso del ferro e dovettero costruire quel sistema
integrato di agricoltura, pastorizia e pesca, che poi è sempre rimasto caratteristico
di questa regione. Anche le attività artigianali erano progredite: la ceramica era
raffinata, per gli insediamenti si usavano mattoni crudi, mentre esistevano elaborate
tecniche di lavorazione del ferro e di altri metalli preziosi. (…) Il periodo più
florido di queste società dovette verificarsi intorno all’800 d.C.: tre secoli dopo il
sistema collassò rapidamente e la popolazione si ridusse a un decimo, non sappiamo
se in relazione a cambiamenti climatici o a eventi esterni. In una località del
delta, Jenne-Jeno, i resti archeologici hanno dimostrato l’esistenza di un agglomerato
abitativo di circa 33 ettari. Le case, costruite in mattoni di argilla, erano poste
una accanto all’altra, all’interno di un reticolo di strade piuttosto strette, con un
mercato al centro, mentre l’intera area era racchiusa da un grosso muro di mattoni
cilindrici. Jenne-Jeno non era isolata, ma circondata da altre 25 località dello stesso
tipo, con una popolazione che è stata valutata intorno ai 27.000 abitanti. Gli archeologi
che hanno studiato questi siti hanno ipotizzato una forte specializzazione
economica della regione, con popolazioni diverse che si occupavano della pesca,
dell’agricoltura e dell’allevamento. I modelli abitativi avrebbero rispecchiato questa
differenziazione di compiti: pescatori, agricoltori, pastori, fabbri, vasai, tessitori
avrebbero occupato siti distinti. Nel complesso, l’intero sistema, fondandosi sullo
scambio, avrebbe funzionato come una città, ma in assenza di un’autorità centralizzata;
questo è il motivo per cui si è parlato di “città senza cittadelle”.
Non abbiamo dati sufficienti per approfondire la natura di questo grande agglomerato
di popolazione, con un’organizzazione sociale probabilmente molto più
118
ROBERTO SIDOLI
egualitaria che nelle società centralizzate. Certamente la presenza di Jenne-Jeno e
di altri siti analoghi è la testimonianza della coesistenza in una regione geografica
di sistemi sociali diversi e del fatto che non necessariamente le compagini statali
sono in grado di inglobare in sé tutte le realtà circostanti.»86
In Giappone la cultura Jomon si riprodusse ininterrottamente e su basi prevalentemente
collettivistiche dal 12000 a.C. fino a poco prima dell’era cristiana, scoprendo
per prima al mondo l’arte ceramica (circa 11000 a.C.) e coltivando zucche e
riso, rispettivamente dal 6000 e dal 3000 a.C.: alcuni villaggi recentemente scoperti
dell’ultimo periodo Jomon attestano l’esistenza di abitazioni ben costruite e di lavori
relativamente sofisticati di carpenteria e gioielleria.
La civiltà Jomon, contraddistinta dall’egualitaria sepoltura in comune dei defunti,
venne rapidamente soppiantata da una serie di ondate di colonizzatori arrivati
dalla Corea attorno al 300 a.C. che diedero vita al periodo Yayoy della storia
nipponica, in cui progressivamente emersero le tipiche strutture distintive delle
società protoclassiste.
Tra il IV ed il II millennio a.C. si estendeva nell’odierno Turkmenistan la
Margiana, ricca di oasi e basata su un nomadismo commerciale che permise lo
sviluppo di tutta una serie di città-stato alleate. La confederazione margiana era
caratterizzata da un controllo matriarcale ed egualitario sui beni di scambio e di
consumo e, soprattutto, sul mercato carovaniero che attraversava quella zona strategica
dell’Asia: solo dopo molti secoli il controllo femminile fu lentamente sostituito
dal dominio sociopolitico classista, introdotto da una sezione minoritaria dei
maschi della zona in oggetto.87
In Corea, infine, civiltà prevalentemente collettivistiche fondate sulla coltivazione
in comune del suolo si riprodussero senza interruzione tra il sesto e la fine del
secondo millennio a.C. e solo nel corso del primo millennio a.C. si diffuse in Corea
sia la coltivazione del riso che una profonda differenziazione tra il “popolo dei dolmen”
e quello delle “tombe a lastre”: se il secondo era posizionato principalmente
nell’area settentrionale della penisola ed era molto probabilmente sopraggiunto
dalle steppe dell’Asia centrale, essendo composto da guerrieri-cacciatori che utilizzavano
sepolture singole con ricche dotazioni di preziosi oggetti in bronzo, il
popolo dei dolmen nel sud del paese praticava delle sepolture multiple di gruppi
coperte da gigantesche strutture in pietra, molto simili a quelle delle tipiche civiltà
megalitiche europee.
I capi dei villaggi meridionali della Corea, oltre ad organizzare i lavori collettivi
necessari per la costruzione dei dolmen, curavano il processo di accumulazione
del surplus alimentare e la sua redistribuzione tra i lavoratori rurali secondo un sistema
ben conosciuto in Corea fino all’epoca recente, denominato ture (o pumasi):
questi villaggi e strutture semicollettivistiche coesistevano con l’organizzazione
fortemente gerarchizzata ed elitaria (sul modello Kurgan) delle popolazioni settentrionali,
che probabilmente costituivano anche gli invasori ed i dominatori del
“popolo dei dolmen” coreano.88
119
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
Le esperienze neolitiche/calcolitiche sopra descritte formano e costituiscono un
quadro molto ricco ed esteso su scala planetaria, ma proprio negli stessi millenni,
proprio dal 9000 a.C. e nelle aree geopolitiche sopra esaminate stava emergendo
un’altra tendenza socioproduttiva e sociopolitica, che si differenziava nettamente
dalla “linea rossa” rispetto a tutta una serie di elementi socioeconomici fondamentali.
Prima di esaminarla, va subito precisato che i parametri oggettivi utilizzabili
in modo combinato per differenziare le società appartenenti alla “linea rossa” da
quelle facenti parte della rivale “linea nera” neolitica risultano essere:
– la presenza/assenza di vistose asimmetrie tra le diverse abitazioni delle strutture
sociali neolitiche e calcolitiche.
– la presenza/assenza di differenze molto marcate, nelle sepolture dei diversi
membri delle comunità.
– la presenza/assenza di numerosi edifici di grandi dimensioni, destinati a fini
non-produttivi e/o religiosi.
– la presenza/assenza del culto delle armi (ivi compreso il cavallo).
– la presenza/assenza del culto gilanico della “Dea Madre”, oltre che di raffigurazioni
artistiche riguardanti donne e bambini.
La combinazione tra i vari criteri di differenziazione sopra proposti risulta di
regola molto utile nel separare nettamente la “linea rossa” da quella “nera”, ma
non sempre: esistono infatti degli scenari storici che consentono e stimolano una
duplice interpretazione della loro natura sociopolitica e socioproduttiva, come avviene
per l’ultima fase della civiltà neolitica di Varna (odierna Bulgaria) e rispetto
ai rapporti di produzione formatisi nella cultura di Malta (tra il 5000 ed il 3000
a.C.), di Caral (attuale Perù, verso il 3000 a.C.) e nella società minoica.89
Dopo il “Grande Evento” e la riproduzione di un surplus costante ed accumulabile,
iniziò a manifestarsi su larga scala anche la tendenza politica, sociale ed
economica volta a riprodurre dei livelli molto elevati di disuguaglianza rispetto
al processo di appropriazione del surplus e dei mezzi di produzione, a tutto vantaggio
di una minoranza di abitanti di alcune strutture economico-sociali formatisi
del Neolitico-Calcolitico.
Già a Dolni Vestonice (attuale repubblica Ceca), dal 26000 a.C. sede dell’unica
e “monopolistica” fabbrica di terrecotte del Paleolitico e di una fornace di livello
tecnologico relativamente elevato, il lucroso processo di scambio delle preziose
statuette in ceramica con altri clan limitrofi produsse le prime forme di differenziazione
sociale, formatesi su scala relativamente ampia e testimoniate dalla diversità
nelle sepolture ritrovate: ma la “linea nera” del Neolitico partì da Nevali Cori,
situata nell’attuale Kurdistan e le cui origini risalgono all’8900 a.C.
La città-tempio di Nevali Cori era composta quasi esclusivamente da edifici di
culto, alimentati da un plusprodotto estorto alla zona agricola circostante che veniva
monopolizzato a proprio favore da una casta sacerdotale strettamente separata
dai comuni “sudditi”, visto che solo una parte delle ventidue costruzioni scoperte
120
ROBERTO SIDOLI
a Nevali Cori era usata come abitazione, mentre gli altri edifici erano adibiti a templi
o a magazzini ed officine di supporto di questi ultimi. Il centro della teocrazia
della città anatolica era disposto attorno ad una struttura rettangolare di pietra, un
edificio di culto comprendente giganteschi monoliti con lati perfettamente regolari
ed inseriti in un basamento liscio: le costruzioni “sacre” erano utilizzate con tutta
probabilità anche per compiere sacrifici umani, in sinistra analogia con i successivi
riti aztechi e maya.
Questo prototipo di società protoclassista, quasi contemporanea a Gerico e relativamente
vicina alla città palestinese, venne in seguito affiancata dalla frequente
diffusione tra i pastori del neolitico di rapporti di produzione patriarcali (vedi
Meillassoux e il “modo di produzione domestico”), in cui il maschio più anziano
controllava il lavoro ed il surplus prodotto dalla propria moglie/dalle proprie
mogli, dai figli e da un numero solitamente molto ristretto di schiavi/schiave: in
Eurasia questo modello alternativo di organizzazione della vita socioproduttiva
e politica si sviluppò contemporaneamente alla dinamica di riproduzione delle
società collettivistiche di Catal Hüjuk, degli Ubaid e di Vinca, e a volte in aree geopolitiche
limitrofe a queste ultime.90
La diffusa cultura dei pastori nomadi del Neolitico ha espresso delle costanti
e caratteristiche comuni, che l’hanno fatta rientrare tendenzialmente (seppur con
alcune eccezioni) nel raggio d’azione della “linea nera”, a partire dal semplice fatto
che l’allevamento extradomestico e la cura delle mandrie rimasero occupazioni
tipicamente maschili in società che coesistettero, anche per lunghi periodi, con le
gilaniche ed egualitarie strutture agrarie formatesi nel periodo storico in esame.
«Gli antropologi, naturalmente, rifuggono dalle generalizzazioni, ma persino
loro sono costretti ad ammettere che i popoli dediti alla pastorizia di qualunque
angolo del mondo condividono delle caratteristiche fondamentali. Tutti sono ossessionati
dalle loro pecore, capre, mucche, cammelli o cavalli, a seconda del caso,
perché questi animali garantiscono sia l’identità tribale che i mezzi di sostentamento.
La mandria è tutto per i popoli dediti alla pastorizia e nulla può frapporsi fra
mandrie, pascoli e aree d’abbeveraggio. Se ciò accade, la loro monomaniacalità si
trasforma rapidamente in efferatezza, il disprezzo in violenza. In Thinking Animals,
Paul Shepard elenca i tratti caratteristici delle società pastorali di qualunque parte
del mondo: “Aggressività ostile verso i forestieri; famiglie, faide e scorrerie armate
nell’ambito di un’organizzazione gerarchica patriarcale; costituzionale della caccia
con la guerra; elaborate cerimonie sacrificali; orgoglio e sospetto monomaniacali…”
Marvin Harris ha analizzato moltissime culture umane differenti alla ricerca
di elementi che le accomunassero. In Cannibali e re, afferma che “molte società pastorali
prestatali, nomadi o seminomadi, sono espansioniste e ultramilitariste”.
Tali società sono solitamente bellicose e a forte dominanza maschile perché la
loro principale fonte di sussistenza e ricchezza “sono gli animali da pascolo piuttosto
che i raccolti agricoli”.
121
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
Proprio perché così legate alle mandrie, le pressioni economiche obbligano le
popolazioni dedite alla pastorizia a vivere al loro seguito, spostandosi per miglia
alla ricerca di acqua, pascoli e altri animali di cui impossessarsi.
Nel resoconto sulle varie culture pastorali contenuto nel volume Man, Culture
and Animals curato da Anthony Leeds e Andrei Vayda, l’antropologo Homer
Aschmann sottolinea il medesimo bisogno di espansione territoriale: “Nella maggior
parte delle culture pastorali è riscontrabile uno schema molto forte e definito
basato sull’aggressività individuale e collettiva, nonché su strutture istituzionali
ed elaborazioni etiche con valore giustificativo”.
Sempre Aschmann rileva anche un’ulteriore caratteristica della distruttività
delle società pastorali e cioè che la loro tendenza a ingrandire le proprie mandrie,
va invariabilmente a scapito della qualità dei terreni di pascolo: “Nessuna società
basata sulla pastorizia ha mai raggiunto uno stabile equilibrio ecologico se non a
patto di accettare un livello di produttività inferiore rispetto a quello esistente al
momento dell’introduzione della pastorizia stessa”.»91
Il lato nomade-pastorizio del processo produttivo sviluppatosi nel periodo neolitico
e calcolitico produsse delle conseguenze decisive, all’interno dell’area eurasiatica,
riuscendo infatti progressivamente a modificare i rapporti di forza tra clan
agricoli e nomadi e trasformando via via le relazioni sociali di produzione in questa
enorme zona geopolitica, a partire dal Medioriente, in una direzione protoclassista
ed espansionistica che si adattava perfettamente alle caratteristiche dominanti in
larga parte dei clan di pastori nomadi del periodo preso in esame.
«Ma fu in Medio Oriente che il potere regale, le guerre e le scorrerie raggiunsero
proporzioni inaudite a causa delle influenze culturali delle prime popolazioni
che in quei luoghi si dedicarono alla pastorizia. Non dimentichiamoci che i primi
addomesticatori di animali di grossa taglia discendevano da una lunga tradizione
di specializzazione nella caccia e, pertanto, conservavano intatta la loro perizia di
cacciatori-guerrieri. Tale perizia tornò molto utile nel favorire la creazione di vere
e proprie mandrie, cioè della loro ricchezza e sicurezza. Dal punto di vista di un
cacciatore-guerriero era molto più prestigioso (nonché più facile e veloce) ampliare
la propria mandria perpetrando razzie piuttosto che non impegnarsi in un lento e
faticoso lavoro di allevamento. Le abilità guerriere erano inoltre utili a mantenere
la ricchezza acquisita; una tribù in condizioni economicamente floride doveva,
infatti, stare costantemente all’erta per difendersi da possibili razzie altrui. Infine i
pastori erano marcatamente più espansionisti dei comuni agricoltori. I coltivatori
vivevano in pochi acri in una vallata o lungo la riva di un fiume e ampliavano i
propri campi molto lentamente, in genere nel corso di diversi anni. I pastori, al
contrario, dominavano con arroganza su un’intera regione grazie alla forza militare,
assicurandosi in tal modo l’accesso ai migliori pascoli e alle migliori aree
d’abbeveraggio. In Medio Oriente, i pastori si trovavano nella posizione migliore
per alimentare le fila della casta dei guerrieri, da cui sorsero poi le élite dominanti
e i re. Di conseguenza, l’intera gerarchia sociale e la cultura di quella regione erano
122
ROBERTO SIDOLI
imbevute dei valori di fierezza e predominio tipici dei popoli pastorali. Quando
tali valori vennero integrati nella religione e nelle istituzioni militari e di governo
si rivelarono essenziali alla nascita di nazioni dispotiche pronte a condurre guerre
di conquista.
Oltre a fomentare le occasioni di guerra e a fondare imperi, la cultura pastorale
contribuì non poco all’ossessione occidentale per la proprietà e il denaro. Alcuni
studiosi ritengono che tale ossessione discenda direttamente da quella più antica
che i pastori nutrivano per le mandrie, la loro ricchezza semovibile. Richard
Lewinsohn sostiene la tesi che il concetto di denaro – vale a dire la ricchezza
scambiabile – ebbe origine proprio con la pastorizia piuttosto che con l’agricoltura
in senso lato. Nel libro Gli animali nella storia della civiltà, Lewinsohn scrive:
“Dall’esercitare il potere su mandrie a propria disposizione si formò il concetto di
proprietà. Esso è più antico e più forte della pretesa al possesso terriero, poiché di
terre coltivabili ve n’erano a sufficienza, mentre gli animali domestici erano scarsi.
La terra è un bene di produzione, il bestiame è un bene di consumo e solo questo
ha valore tangibile. […] Gli animali sono la prima forma di capitale. La parola è di
origine romana, da capita, le teste di animali, in base al cui numero si misurava la
ricchezza”.
Analogamente, alla radice di parole come pecunia e pecuniario, che fanno riferimento
al denaro, c’è il termine latino pecu, che significa appunto gregge. Nell’antica
lingua ariana, la parola che indica lo stato di guerra ha il significato letterale di
“desiderio di possedere più bestiame”. Il bestiame, o più precisamente pecore e
capre, la prima forma di ricchezza mobile che, come tale, poteva essere scambiata.
In altre parole, furono la prima forma di denaro.»92
Le forme iniziali di rapporti di produzione patriarcali e protoclassisti fecero un
decisivo salto di qualità in Eurasia tra le tribù dei pastori-predoni Kurgan. Se da un
lato lo sviluppo del processo di appropriazione privata del surplus e dei mezzi di
produzione da parte dei capifamiglia, e cioè di una minoranza della popolazione
neolitica, avvenne con particolare intensità nei clan nomadi della zona del Volga e
dell’Ucraina a partire dal 6000 a.C., collegandosi in seguito con la domesticazione
del cavallo e con un miglioramento parallelo nella produzione di strumenti di distruzione
quali l’arco, d’altro canto il rapido peggioramento delle condizioni geoclimatiche
verificatosi attorno al 4000 a.C., nell’Africa settentrionale ed in Arabia,
nelle steppe ucraine e dell’Asia centrale, favorì a sua volta i processi migratori e
predatori dei gruppi di pastori che in precedenza vi risiedevano (De Meo, 1986).
Un elemento decisivo nelle loro vittorie fu rappresentato dalla domesticazione
del cavallo, avvenuta attorno al 4400 a.C. nelle steppe a nord del Mar Nero: “grazie
ai cavalli si potevano coprire distanze maggiori, attaccare di sorpresa e fuggire
prima dell’arrivo dei rinforzi”.93
Mentre l’introduzione della proprietà privata degli armenti tra alcune tribù pastorizie
indo-europee ne incentivò la latente aggressività predatoria contro le più
avanzate strutture agricole-sedentarie, i successi ed i bottini procurati loro dalle
123
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
guerre condotte con la coppia cavallo-arco stimolarono a loro volta un salto di
qualità nella differenziazione di classe: le vinte comunità agricole dell’Europa e
dell’India fornirono infatti su larga scala schiavi e schiave, forza lavoro ed oggetti
sessuali, surplus produttivo e ricchezza ai nomadi predatori, determinando il definitivo
trionfo al loro interno dei rapporti di produzione classisti, mentre anche
le civiltà “indigene” sopravvissute all’invasione, per questioni vitali di sopravvivenza,
iniziarono a loro volta a cambiare ed a imitare il modello protoclassista di
società e di chefferie, esportato con successo dai barbari, ma bene armati Kurgan.
Le tre grandi ondate di invasioni delle popolazioni Kurgan (4400; 3500; 3000-
2600 a.C.) e quelle successive degli indoeuropei hanno rappresentato i momenti
principali della “guerra mondiale” neolitica, scatenatasi per millenni tra i nomadipastori
e le strutture agrarie-collettivistiche e gilaniche e terminata purtroppo con
la sconfitta delle seconde.
Secondo i linguisti e molti storici, la cultura altaica dei Kurgan era contraddistinta
dalle sepolture individuali poste sotto un tumulo o un’altura (Kurgan) e si
era formata a partire dal 6000 a.C. nel bacino del Volga e in Ucraina, addomesticando
il cavallo (4600 a.C.) e perfezionando la fabbricazione di armi quali l’arco e
la freccia, la lancia e la daga: si trattava di una società patriarcale e protoclassista
contraddistinta di regola da attività agricole praticate su scala ridotta e dal notevole
peso assunto dall’allevamento di animali, in cui il culto del cavallo e la tumulazione
dei personaggi più importanti (accompagnata dal sacrificio dei loro schiavi)
simboleggiavano relazioni sociali fondate apertamente sulla disuguaglianza e
sull’aggressività militare. Le incursioni dei Kurgan prima, e degli indoeuropei in
seguito misero fine all’antica cultura europea matrilineare ed egualitaria, anche se
alcune zone del Mediterraneo – quali Thera, Creta, Malta e la Sardegna – si sottrassero
per più di mille anni all’invasione dei pastori indoeuropei, sensibilmente più
arretrati delle popolazioni sconfitte sul piano produttivo e tecnologico-civile.94
«Su di una gran parte dell’Europa centrale orientale, sulla pianura nordeuropea,
in Scandinavia e Olanda, abbiamo, lasciando da parte le tradizioni dei villaggi
danubiani dalle case allungate e i loro successori, le tracce di quelle che sembrano
essere nuove popolazioni di cui le forme del vasellame, con l’uso abbondante di
ornamenti eseguiti con l’impressione di corde sulla superficie, le loro asce da battaglia
in pietra con foro per il manico seppellite insieme ai guerrieri come armi di
prestigio, le loro tombe individuali sotto tumuli e spesso in case mortuarie, tutto
sembra rivelare legami con le regioni a nord del Mar Nero; compaiono anche degli
insediamenti fortificati. Archeologicamente i nuovi venuti rappresentano un complesso
di culture, – delle anfore globulari, della ceramica a corda, i popoli dall’ascia
da battaglia, dalla tomba individuale, – e qualche studioso le ha considerate come
derivate da gruppi locali e tardo-neolitici. L’opinione generale, tuttavia, ritiene che
negli elementi essenziali essi sembrano rappresentare un diffuso e forse rapido
movimento di popoli, collegati fra di loro, dalle steppe della Russia meridionale
verso nord-ovest almeno fino al Reno e ai Paesi Bassi, dove le date al radiocarbonio
124
ROBERTO SIDOLI
mostrano che fabbricanti di ceramica cordata e di asce da battaglia erano arrivati
verso il 2500 a.C. Parlavano una lingua indoeuropea? Questa è una domanda dalla
risposta difficile e per il momento ne rinviamo la formulazione.
Esistono degli indizi, non del tutto decisivi, che indurrebbero pensare che questi
“popoli dalle tombe sotto tumuli” avevano un’economia nella quale la pastorizia,
forse nomade in parte, può aver rappresentato un ruolo importante; un recinto
steccato per il bestiame bovino ad Anlo in Olanda c. del 2300 a.C. può essere significativo
a questo proposito.»95
Raggruppati inizialmente in piccole bande, i pastori Kurgan inflissero fin dalla
prima ondata dei notevoli danni alle civiltà neolitico-collettivistiche dei Balcani e
dell’Europa centrale dato che, secondo l’opinione degli storici Anthony, Telegin e
Brown (1991), «gli agricoltori sedentari divennero facile preda delle improvvise
incursioni di nemici a cavallo che non potevano essere né inseguiti né puniti. Molti
di questi villaggi furono abbandonati e i loro abitanti divennero cacciatori a cavallo
per autodifesa».96
Le ondate di invasioni Kurgan e quelle successive ariane (dal 3000 a.C.) presero
via via possesso dell’Europa occidentale riplasmando in senso elitario la cultura
dei megaliti (tombe gigantesche in pietra) e dei menhir (grandi pietre poste in posizione
verticale), mentre dopo il 2000 a.C. il popolo nomade degli ari proveniente
dalle steppe dell’Asia centrale si impadronì anche dell’area indiana, soggiogando
progressivamente le popolazioni autoctone ivi stanziate (denominate dai vincitori
con il termine di dasyu).
Passando all’area mesopotamica, si è già notato in precedenza come l’arrivo
attorno al 3900 a.C. di nuove popolazioni (i sumeri) abbia portato alla rapida scomparsa
nella zona della millenaria ed avanzata civiltà Ubaid ed alla creazione da
parte degli invasori della prima struttura statale del genere umano, attorno al 3700
a.C., con città dominate in una prima fase da teocrazie in grado di controllare a
proprio vantaggio il processo produttivo ed il processo di costruzione/manutenzione
delle opere di irrigazione su larga scala.
In Cina “la linea nera” fu rappresentata invece dalle culture di Dawenkou, di
Hongshan e Longshan.
La civiltà di Dawenkou era contraddistinta da una ceramica grigia, marrone o
nera, con numerose varietà, mentre le terrecotte bianche e nere, con pareti sottili,
erano lavorate al tornio: il livello di sviluppo delle forze produttive in campo agricolo
era praticamente equivalente a quella raggiunta dai quasi contemporanei clan
di Yangshao, ma i rapporti di produzione dominanti e la forma di chefferies politico-
sociale appartenevano ormai alla tipologia protoclassista.
«Non sappiamo quali coltivazioni praticassero le comunità Dawenkou, ma
certamente l’allevamento dei maiali doveva avere una particolare importanza, in
quanto numerosi crani e talvolta interi scheletri di questo animale sono stati rinvenuti
nelle tombe. Il grande divario esistente tra le sepolture di questa cultura
per quanto concerne sia le dimensioni che la ricchezza dei corredi, sta ad indicare
125
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
che già esistevano all’interno delle comunità forti differenziazioni sociali. Inoltre la
presenza dei crani di maiale nelle sepolture farebbe pensare a sacrifici funerari riservati
a un gruppo ristretto, ormai classificabile come una vera e propria élite.»97
Seimila anni or sono era apparsa la “cultura della giada” con la civiltà di
Hongshan (4000-2500 a.C.), divenuta rapidamente protoclassista ed elitaria, in
modo tale che più di cinque millenni or sono nei siti della Cina del nord si trovavano
ormai delle città neolitiche con grandi templi e strutture difensive guidate da
un’aristocrazia che monopolizzava il potere, gli articoli di lusso fatti con preziosa
giada e le funzioni religioso-sacrificali, stimolando allo stesso tempo il processo di
costruzione di numerose piramidi.
Attorno al III millennio a.C., nel bacino del Fiume Giallo, si formarono le culture
Longhshan della Shaanxi, dello Henan e dello Shandong: le prime due come
prodotto dell’evoluzione interna di una parte della civiltà Yangshao, la terza come
sviluppo endogeno della cultura Dawenkou.
Deve essere subito rilevato che non sussistevano sostanziali differenze, tra le
civiltà protoclassiste contadine di Longhshan e quelle antecedenti, per quanto riguarda
il livello tecnologico degli attrezzi agricoli, mentre emerse solo una maggiore
sofisticazione nell’arte ceramica, i cui prodotti più elaborati erano monopolizzati
dall’élite politico-religiosa: sotto il profilo degli strumenti di produzione
agricola, asse centrale del processo economico, «essi sono rappresentati ancora da
vanghe, zappe, falcetti, e i materiali impiegati continuano ad essere la pietra, l’osso,
il corno, le conchiglie. Consistenti progressi si realizzano invece nella produzione
della ceramica: accanto a terrecotte grigie, probabilmente di uso comune,
compare infatti un vasellame nero ad impasto fine, caratterizzato da una grande
eleganza e lucentezza. Questi manufatti implicano l’esistenza di ceramisti con un
elevato grado di specializzazione, che facevano uso del tornio e di fornaci relativamente
sofisticate. Un’altra innovazione significativa rispetto al passato riguarda la
stratificazione sociale, ormai profonda e probabilmente consolidata, come sembra
indicare l’analisi delle sepolture. Tra il progresso della ceramica e l’approfondimento
delle differenziazioni sociali esiste probabilmente una stretta connessione: il
vasellame in ceramica nera era destinato certamente all’élite, che quasi certamente
lo utilizzava a fini rituali. D’altro canto, il ritrovamento di numerose scapole di animali
impiegati a scopo divinatorio – una pratica questa che, come vedremo, avrebbe
conosciuto un notevole sviluppo nell’epoca successiva – denota senza dubbio la
comparsa di un sistema ideologico relativamente complesso, collegato con un’élite
politico-religiosa.»98
L’utilizzo della religione come “apripista” per le strutture protoclassiste si affermò
anche in altri contesti geografici e temporali, oltre che nell’area geopolitica
cinese, come emerge anche dal caso sumero.
Cambiando continente ed epoca storica, emerge che mentre nell’attuale
California centro-meridionale popoli quali i Miwok, i Maidu, i Pomo e i Wintu cacciavano,
raccoglievano e pescavano per secoli con rapporti di produzione coope126
ROBERTO SIDOLI
rativi ed egualitari (riuscendo tra l’altro a sviluppare un elaborato sistema di frantumazione
e filtrazione delle ghiande, la principale risorsa dell’area), la California
settentrionale e l’Oregon assistettero ad un quadro socioproduttivo molto diverso.
Se infatti le tribù paleolitiche dei Coos, Chinook, Chehalis, Quileute e Makah vissero
fondamentalmente pescando i salmoni che risalivano ogni anno in massa i fiumi
della loro zona, affumicando ed essiccando il grosso della ricca preda, queste società
furono rigorosamente gerarchiche e divise tra “capi”, cittadini comuni e schiavi,
senza peraltro avere un livello qualitativo di sviluppo produttivo sensibilmente
superiore a quello delle tribù della California meridionale.99
In altre zone del Nordamerica si svilupparono strutture economico-sociali protoclassiste
più avanzate e prevalentemente agricole, dominate da chefferie politicoreligiose
che si appropriavano del surplus/plusprodotto agricolo per i loro fini ed
a proprio esclusivo vantaggio politico-materiale. Infatti in tutta la zona centrale
degli Stati Uniti, dal Wisconsin fino al Golfo del Messico (con una notevole concentrazione
nell’Ohio), si possono trovare decine di migliaia di collinette artificiali e di
cumuli di terra, accumulata e spostata dal lavoro collettivo umano: sono i famosi
mounds, il più gigantesco dei quali copre una superficie maggiore di quella della
piramide egizia di Cheope, strutture costruite da diverse culture neolitiche nel
corso di un periodo storico che parte dal 300 a.C. fino al 1450 d.C. (in quasi perfetta
sincronia temporale con i pueblos collettivistici degli Anasazi ed Hohokam, isolati
dalle civiltà mounds da migliaia di chilometri di distanza).
Tra le fasi più importanti della civiltà mounds si ricordano:
– la cultura Adena, che si colloca tra il 600 a.C. ed il 300 d.C.;
– la cultura Hopewell, dal 200 al 700 d.C.;
– la cultura dei Temple Mound Builders, sviluppatasi dall’800 d.C. fino al 1540
lungo le rive del Missisippi.
Passando all’Egitto, il periodo che va dal 3500 al 3200 a.C. e denominato
Gerzeano-III (Nagada) vide in presenza di un livello stabile di sviluppo qualitativo
delle forze produttive la nascita e riproduzione di notevoli disuguaglianze
sociali tra la popolazione, testimoniante dalla ricchezza di addobbi e dalla particolare
forma rettangolare di alcuni sepolcri, quasi sicuramente come conseguenza
del fatto che dopo il 3500 a.C. delle popolazioni di origine semite invasero l’Egitto
imponendo la loro egemonia politico-sociale e determinando la formazione di una
chefferie protoclassista, dal cui interno sarebbe via via emersi i primi faraoni, i capi
politico-militari che unificarono progressivamente in un’unica formazione statale
le diverse città sorte lungo il Nilo: secondo la studiosa E. J. Baumgartel questa tesi
viene suffragata dai dati archeologici e dalla sussistenza nella lingua egiziana sia
di elementi semitici che camitici, derivati questi ultimi dalla popolazione stanziata
sul posto prima del 3500 a.C. Tuttavia la riproduzione del dominio della nuova aristocrazia
coesistette con alcuni elementi importanti della vecchia struttura economico-
sociale collettivistica, tipici della prima fase del Gerzeano, quali la proprietà
collettiva del suolo e l’essiccazione collettiva del raccolto.100
127
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
Nell’America centro-meridionale tra il 2600 ed il 500 a.C., quasi contemporaneamente
e dopo Chavin, si formarono le civiltà teocratiche e protoclassiste degli
Olmechi (Guatemala/Messico), di Cuello (Belize), di Tiahuanaco (Bolivia) e di
Teotihuacan (Messico), con la costruzione di grandi edifici e monumenti a scopo
religioso-astronomico: il nascente modo di produzione asiatico, in cui la proprietà
del suolo spettava al re-sacerdote e a caste teocratiche (o di guerrieri-invasori),
venne portato in seguito a piena maturazione durante il dominio politico-militare
via via esercitato dalle formazioni statali dei maya, dei toltechi, dei mochica e degli
incas.
Tenendo conto delle sopraccitate coesistenze concrete createsi tra “linea rossa” e
“linea nera” in Corea, Africa subsahariana (Jenne-Jeno) e regione margiana durante
l’epoca neolitica/calcolitica, è possibile trarre una prima sintesi teorica, notando
innanzi tutto che dal 9000 a.C. l’effetto di sdoppiamento rese possibile la riproduzione
concreta, sincronica e vicina nello spazio, sia di chefferie collettivistiche che di
società protoclassiste, in virtù di un surplus costante/accumulabile ed utilizzabile
in forme diversificate ed alternative tra di loro ed in presenza di un livello qualitativo
di sviluppo delle forze produttive simile (o più favorevole alla linea rossa):
all’interno di questo campo di possibilità alternative, si inserì la concreta praxis
politica delle diverse civiltà neolitiche-calcolitiche, nel suo aspetto specifico del
controllo del potere decisionale e militare, della redistribuzione politica del prodotto
sociale e del possesso dei mezzi di distruzione.
Germi e prodromi della “linea nera” erano già presenti nelle comunità paleolitiche
rivelandosi nel possesso privato di alcuni oggetti di consumo, nelle sporadiche
lotte e razzie tra clan preistorici e nei limitatissimi “privilegi” materiali di cui a
volte godevano i capi-clan: la comparsa del surplus sull’area storica fece maturare
questi “germi” come in una serra protetta, trasformandoli in una tendenza reale
sia a livello oggettivo che soggettivo, insita nella coscienza dei segmenti più o
meno ampi della popolazione neolitica, visto che era ormai possibile utilizzare la
forza-lavoro altrui a vantaggio di una minoranza a patto che quest’ultima controllasse
a proprio esclusivo profitto il potere decisionale e redistributivo (del surplus)
e i mezzi di distruzione della comunità.
La linea rossa, la chefferie collettivistica si affermò negli scenari storici in cui non
si assistette alla creazione di un monopolio nell’uso delle armi da parte di una minoranza
della popolazione ed in cui la redistribuzione del surplus non andò a vantaggio
di un segmento della popolazione, mentre invece le chefferies protoclassiste
e la linea nera vinsero laddove si attuarono concretamente queste due condizioni
preliminari, di carattere sia materiale che politica.
Sorge a questo punto inevitabile un primo quesito sulle cause fondamentali
dell’affermazione delle diverse forme storiche di controllo del potere decisionale,
militare e distributivo: cosa “fece la differenza” e quali fattori spostarono la bilancia
storica a favore di una delle due “soluzioni” storiche possibili dall’effetto di
sdoppiamento? Estrapolando dai fattori casuali indipendenti dalla pratica umana
128
ROBERTO SIDOLI
(catastrofi naturali, siccità, epidemie, ecc.), ed ovviamente dal livello qualitativo
di sviluppo delle forze produttive, simile o spesso favorevole alle culture della
“linea rossa”, a mio avviso risultò decisiva volta per volta la presenza/assenza di
particolari dinamiche belliche e religiose riguardanti le relazioni internazionali tra
le diverse tribù/società del neolitico-calcolitico, e/o i rapporti via via creatisi tra i
sacerdoti ed i semplici credenti dei culti religiosi durante il periodo storico preso
in esame.
La “linea nera” si affermò in primo luogo mediante le guerre di conquista dei
nomadi in Eurasia. Tra il 4400 ed il 1500 a.C., le società pastorizie e patriarcali dell’Eurasia
furono inevitabilmente attratte dal surplus, dai metalli preziosi e dal superiore
livello di sviluppo delle forze produttive raggiunto dalle collettività agrarie-
sedentarie, mentre le loro vittorie politico-militari su queste ultime nel periodo
in esame (anche grazie all’utilizzo del cavallo) determinarono sia la creazione di
un monopolio dell’uso delle armi, a vantaggio esclusivo dei conquistatori, che la
parallela redistribuzione del plusprodotto nelle loro avide mani: come già affermò
Engels nel 1884, “i prigionieri di guerra furono mutati in schiavi” e trasformati in
forza-lavoro subordinata, a disposizione delle chefferie protoclassiste e dei successivi
modi di produzione classisti asiatici, schiavistici e feudali (fenomeni simili
avvennero nell’epoca post-neolitica di Corea, Giappone, Egitto, ecc.).
Ma nel neolitico-calcolitico si assistette anche ad una sorta di “via pacifica” ed
endogena di affermazione delle formazioni economico-sociali e di chefferie protoclassiste,
mediante il “cavallo di Troia” dell’apparato religioso-politico.
Per decine di migliaia di anni, durante il Paleolitico superiore e il Neolitico,
forme variegate di autocoscienza religiose quali lo sciamanismo, il culto dei morti
e quello della “Grande Madre” avevano rappresentato la sovrastruttura ideologica
delle culture collettivistiche e si erano combinate felicemente con i rapporti di
produzione comunistico-primitivi.101
Dopo la produzione-riproduzione di un surplus permanente ed accumulabile,
tuttavia era ormai diventato possibile un utilizzo alternativo e classista della
psicologia religiosa diffusa tra i diversi membri dei clan neolitici. A tale scopo era
sufficiente la formazione più o meno casuale di un apparato religioso-politico dotato
di un minimo di massa critica numerica e di prestigio sociale, che riuscisse ad
ottenere legittimità e consenso in una determinata collettività neolitica a favore
della scelta strategica tesa a destinare una parte del prodotto sociale sia per la
costruzione di templi che per la stessa riproduzione materiale privilegiata della
gerarchia politico-religiosa: in tal modo si spostavano i rapporti di forza politicosociali
a favore di quest’ultima, che col tempo avrebbero potuto via via accrescere
la sua quota di appropriazione del surplus produttivo e dotarsi anche di apparati
militari, per la difesa armata dei suoi privilegi sociopolitici.
Senza violenza, o con l’utilizzo di un minimo di coercizione iniziale si potevano
in tal modo creare le basi materiali, politiche ed ideologiche per la riproduzione
di chefferie (e stati) classisti imperniati sull’appropriazione del plusprodotto e dei
129
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
mezzi di produzione sociali a vantaggio di una minoranza, oltre che sul monopolio
del potere decisionale-militare da parte di una ristretta élite politico-religiosa:
fu questo il caso sia di Nevali Cori, nel corso del nono millennio a.C., che delle
strutture protoclassiste delle Haway descritte da J. Diamond.
«Gli uomini delle bande o delle tribù credevano già nelle entità soprannaturali,
ma questo non giustificava l’esistenza dell’autorità o del trasferimento di ricchezze,
e non bastava a frenare la violenza. Quando un insieme di credenze fu istituzionalizzato
proprio a questo scopo, nacque ciò che chiamiamo religione. I capi
hawaiani erano assai tipici in questo, visto che si proclamavano dei, o figli di dei, o
per lo meno in stretto contatto con gli dei. Così potevano dire al popolo che lo servivano
facendo da intermediari con il soprannaturale, recitando le formule rituali
per ottenere la pioggia, un buon raccolto o una pesca abbondante.
Nelle chefferies troviamo in genere un’ideologia che anticipa le religioni istituzionalizzate,
e che serve a rafforzare l’autorità del capo. Il capo può essere un leader
politico e religioso allo stesso tempo, o può mantenere una casta di sacerdoti
che provvede alla bisogna. Ecco perché una così larga parte dei tributi serve per
costruire i templi, che servono sia come luoghi di culto della religione ufficiale sia
come segni visibili di potere.»102
Non è certo casuale che la prima formazione statale classista, quella sumera,
fosse imperniata su una teocrazia egemonizzata da un’élite politico-religiosa: una
“prova del nove” di questa ipotesi può essere ritrovata proprio nell’assenza di
guerre di conquista, e/o di apparati ecclesiastici su larga scala, nelle chefferies e
nelle formazioni economico-sociali collettivistiche del Neolitico-Calcolitico eurasiatico,
cinese, indiano e americano, da Gerico fino agli Ubaid.
In secondo luogo bisogna cercare di spiegare le cause della trasformazione della
“linea nera” da potenzialità a realtà storica: perché una parte del genere umano
ha sfruttato a proprio esclusivo vantaggio le potenzialità alternative create dal
“Grande Evento” del 9000 a.C., abbandonando metodi di produzione/distribuzione
collettivistici antichissimi e riprodottisi per due milioni di anni?
La ragione fondamentale è che lo sviluppo dei bisogni materiali era già relativamente
elevato, all’inizio dell’era neolitica e nel 9000 a.C. L’uomo paleolitico lavorava
relativamente poco, tre-quattro ore al giorno in media, ed aveva ovviamente
interiorizzato sia un legittimo e sacrosanto diritto all’ozio, che una certa riluttanza
ad impegnarsi costantemente in attività faticose e prolungate, come erano quelle
agricole e/o pastorizie: come inevitabile sottoprodotto si diffuse, più o meno intensamente,
la tentazione di scaricare il proprio pesante carico di lavoro su altri
esseri umani, a partire da eventuali prigionieri di guerra e dalle donne dei clan
neolitici, tensione individuale e collettiva emersa almeno in una parte dei maschi
vissuti nel periodo preso in esame (9000-3900 a.C.).
Va inoltre notato che, già attorno al 9000 a.C., l’uomo paleolitico-mesolitico
aveva costruito e riprodotto tutta una serie di bisogni di consumo superflui, non
indispensabili alla sua riproduzione fisiologica. Oggetti ornamentali, vestiti e cal130
ROBERTO SIDOLI
zature, abitazioni in legno erano già allora costantemente prodotti, e consumati,
dai nostri lontani antenati e la disponibilità concreta di oggetti “di lusso” aumentò
progressivamente fin dall’inizio del neolitico, con l’avvio del processo di produzione
degli oggetti in ceramica decorati, di gioielli in oro e giada, di bevande
alcoliche quali la birra (ed in seguito il vino, dopo il 4500 a.C.) e di suppellettili
in legno per le abitazioni. Una massa di oggetti e di bisogni materiali che stava
progressivamente aumentando e che poteva scatenare almeno in alcuni individui
– e in alcune tribù di pastori, di regola meno evolute sul piano tecnologico-civile
– delle tentazioni predatorie, finalizzate ad appropriarsi in modo esclusivo e senza
lavorare degli “status symbol” dell’era neolitica e calcolitica, dei beni di consumo
di qualità superiore.
Potenzialità socioproduttive e presenza costante del surplus, tentazioni/desideri
materiali-elitari e rifiuto del lavoro vennero in reciproco contatto nell’epoca
in esame, creando in una serie crescente di casi storici come loro figli legittimi le
strutture elitarie della “linea nera”, divenute poi egemoni soprattutto in seguito
alle invasioni Kurgan ed indoeuropee nell’Eurasia e nel Mediterraneo (risultate
purtroppo vincenti grazie ai nuovi rapporti di forza politico-militari).
Comunque l’effetto di sdoppiamento non cessò di esercitare la sua influenza sul
processo storico universale anche dopo la fine del Neolitico-Calcolitico, sebbene
in Eurasia dopo il 2000 a.C. l’egemonia politica, sociale ed economica fu detenuta
quasi sempre dalla “linea nera”, dall’esito classista, patriarcale e militarista di
quella biforcazione potenziale dei rapporti di produzione sociali generatasi dopo il
9000 a.C.: in questi ultimi sei millenni la “linea rossa” è riapparsa carsicamente nel
processo di sviluppo socioproduttivo del genere umano, anche se (quasi) sempre
in posizione subordinata rispetto ai rapporti di produzione classisti e venendo influenzata-
deformata dall’egemonia detenuta da questi ultimi, proprio perché non
erano venute meno alcune basi materiali e sociopsicologiche necessarie per una
sua riproduzione (come lato secondario e deformato) all’interno delle nuove formazioni
economico-sociali classiste.
Infatti anche dopo il 3900 a.C. la terra e i campi poterono essere posseduti collettivamente
e coltivati in comune, in tutto o in parte, mentre anche dopo la data
sopraccitata l’attività produttiva combinata degli umani produsse via via masse
variabili del prezioso surplus/plusprodotto, potenzialmente sempre utilizzabili a
vantaggio dell’intera collettività e non solo di una sua ristretta minoranza. Anche
dopo il 3900 a.C. la “linea rossa” trovò dei punti di appoggio materiali e concreti,
su cui appoggiarsi per riprodursi sia realmente, anche se molto spesso in modo
deformato e parziale, che a livello potenziale visto che:
– Il livello di sviluppo delle forze produttive sociali all’interno delle società classiste
non cadde mai sotto la soglia già raggiunta durante il periodo neolitico-calcolitico,
e non si deteriorò mai dal punto di creare un recupero generalizzato della
raccolta di cibo-caccia dell’era paleolitica, con la sua correlata assenza di processi
di produzione-accumulazione continua del surplus.
131
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
– La produzione ininterrotta di surplus rimaneva utilizzabile anche per scopi
collettivi, almeno a livello potenziale.
– Poteva essere utilizzato sia per fini cooperativi che per scopi di profitto privato
il lavoro universale, termine con cui si intende «qualunque lavoro scientifico,
qualunque scoperta o invenzione. Esso dipende in parte dalla cooperazione tra i
vivi e in parte dall’impiego del lavoro dei morti» (K. Marx, Il Capitale, Libro III,
Cap. V, par. 4).
– Il “bene immateriale della conoscenza” (E. Grazzini, 2008), anche in campo
scientifico e tecnologico, può essere sempre utilizzato dagli esseri umani per fini
cooperativi e senza brevetti di sorta, può essere riprodotto e replicato con relativa
facilità dai non-inventori in seguito all’uso, è un bene facilmente (anche se non
inevitabilmente) condivisibile: può diventare un bene privato, ma anche e più facilmente
un bene pubblico.
– La terra continuò ad essere il “grande laboratorio” (Marx, Grundrisse) che forniva
al genere umano sia “i mezzi di lavoro” che il “materiale di lavoro”; arsenale
sempre suscettibile, almeno a livello potenziale, di essere destinato a processi di
appropriazione collettiva da parte del genere umano, mentre considerazioni analoghe
possono essere effettuate anche per l’acqua e le opere di irrigazione, partendo
dai sumeri e dai famosi giardini pensili di Babilonia.103
– Una parte del suolo e dell’acqua continuò ad essere realmente proprietà collettiva,
“proprietà tribale o comunitaria” (Marx, Grundrisse), anche dopo il 3700
a.C. e in larghe sezioni del pianeta.
– Anche altri oggetti del lavoro umano, come i metalli preziosi, le materie prime
(rame, ferro, ecc.) e le diverse fonti energetiche (legname, carbone, idrocarburi,
uranio, ecc.) hanno potuto essere appropriati realmente dal processo lavorativo
umano sotto modalità di lavoro cooperativo e con una proprietà collettiva, spesso
statale, sempre durante il periodo postcalcolitico.
– Anche dopo il 3900 a.C. si riprodusse una “comunanza del lavoro” (Marx,
Grundrisse) e una cooperazione lavorativa nei processi di riproduzione delle “condizioni
comuni della produzione” (sempre Marx, Grundrisse): “sistemi di irrigazione”,
“mezzi di comunicazione” (Marx, Grundrisse) ed opere di dissodamento
del suolo.
– Anche dopo il 3900 a.C., almeno una parte variabile del suolo venne molto
spesso coltivata in modo cooperativo dai produttori rurali, in una concreta “comunanza
lavorativa”, che divenne un “vero e proprio sistema” (ancora Marx, sempre
nei Grundrisse) in larga parte del pianeta, ivi compresa l’Europa.
– La manifattura prima, la grande industria in seguito divennero delle esperienze
diffuse di stretta cooperazione nel processo produttivo, proprio dopo il 3900
132
ROBERTO SIDOLI
a.C., partendo dalla prima fase della società sumera: mezzi di produzione sociali
suscettibili, sia potenzialmente che realmente, di processi di appropriazione collettiva
in grado di assorbire il loro prodotto e surplus sociale.
– Alcune frazioni dei produttori diretti sfruttati continuarono ad essere dei
convinti sostenitori della “linea rossa”: uomini/donne in lotta più o meno aperta
contro il sistema di sfruttamento classista, le disuguaglianze socioeconomiche e la
miseria, anche se spesso utilizzando ideologie e relazioni organizzative di matrice
religiosa.
Risulta possibile verificare l’esistenza di sette “orme”, subordinate/deformate,
le quali attestano concretamente come i livelli qualitativi di sviluppo raggiunti dalle
forze produttive nel periodo post-Calcolitico, almeno equivalenti a quelli della
lunga fase storica precedente, permettessero potenzialmente sia la riproduzione
di relazioni di produzione classiste che di quelli collettivistici, attraverso l’analisi
di esperienze concrete che hanno interessato una parte minoritaria, ma reale del
processo di sviluppo delle formazioni economico-sociali classiste dopo il 3900 a.C.:
la “linea rossa” non sparì mai del tutto dall’orizzonte storico anche dopo quella
data, coesistendo conflittualmente con l’alternativa ed egemonica tendenza socioproduttiva.
La prima “orma” riguarda la principale forza produttiva, l’uomo: la soggettività
dei produttori diretti di oggetti di consumo, servizi e mezzi di produzione
ha espresso infatti una propria tendenza collettivistica e antagonista rispetto ai
multiformi rapporti di produzione e di distribuzione classisti, sintetizzabile sotto
la categoria dei “rossi”.
Dopo il 3700 essa ha compreso al suo interno l’insieme di donne e uomini che,
fin dal 2000 a.C. in Egitto, si sono ribellati apertamente contro l’oppressione e lo
sfruttamento. Ha inglobato tutti gli esseri umani che da quattro millenni hanno
conservato e tramandato l’utopia di un mondo di liberi ed eguali, sotto forme laiche
o religiose, ed ha sussunto tutti gli schiavi e i servi della gleba che, con la fuga
o la lotta aperta, hanno sfidato i loro padroni, oltre agli “eretici” comunisti sterminati
periodicamente in Europa o nel mondo arabo; ha compreso al suo interno le
grandi e periodiche ribellioni dei contadini cinesi e le espressioni politico-sociali
più avanzate della classe operaia degli ultimi secoli, a partire dalle lotte dei Ciompi
fiorentini fino ad arrivare ai nostri giorni. Per fortuna una parte variabile degli
esclusi e delle vittime della “linea nera” si è sempre opposta, sotto forma aperta o
clandestina, con la lotta o con il sogno collettivo ad occhi aperti, alla logica e alle
costanti di fondo che hanno unito ed accomunato tutti i modi di produzione classisti,
succedutisi dal 3700 a.C. fino al nostro terzo millennio.
La seconda “impronta” storica si manifestò nella concreta riproduzione della
parte subordinata del modo di produzione asiatico: questa categoria storico-teorica
indica e comprende al suo interno tutte le formazioni economico-sociali con133
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
traddistinte sia dall’”inesistenza della proprietà privata del suolo” (lettera di Marx
ad Engels, 2 giugno 1853), che diventava invece proprietà dello stato, sia da una
struttura dualistica in cui coesistevano e lottavano allo stesso tempo due diverse
forme di rapporti sociali di produzione, creando una sorta di “centauro” composto
da due settori socioproduttivi distinti, ma inscindibili tra loro.
Il primo (e subordinato) lato del centauro era formato dalle comunità rurali
agricolo-artigiane parzialmente collettivistiche, caratterizzate da una rete di solidarietà
comunitaria e dall’appropriazione collettiva (in varie forme) del prodotto
delle attività lavorative comuni: in molti casi esse fondavano la loro attività produttiva
su opere di irrigazione più o meno estese, alla cui costruzione e manutenzione
contribuiva l’intera popolazione del villaggio.104
Il surplus creato da queste comunità semicollettivistiche veniva in larga parte
estorto, in modo coercitivo, ai produttori diretti dall’autorità politica centrale e
dagli apparati centrali-periferici dello stato; il nucleo centrale politico del modo di
produzione asiatico, spesso rivestito di vesti divino-religiose, e le sue emanazioni
periferiche costituivano l’altra (e principale) metà del “centauro” in oggetto, che
si appropriava con la violenza/minaccia della violenza del plusprodotto erogato
dalle comunità di villaggio, fornendo spesso in cambio delle limitate prestazioni
produttive, quali la direzione della creazione/manutenzione delle opere d’irrigazione
e la regolamentazione delle forniture d’acqua a scopi irrigui, oppure limitandosi
a svolgere delle attività meramente simbolico-magiche.105
Il modo di produzione asiatico rappresentò la relazione di produzione egemone
in larghe zone del globo e per archi temporali molto ampli, a partire dal 3700 a.C.
fino al 1793 d.C. (India), coesistendo a volte con relazioni schiavistiche ad esso
subordinate.106
La prima fase della società sumera (tardo-Uruk) fu contraddistinta dal possesso
della proprietà fondiaria e del surplus da parte della casta sacerdotale, che si appropriò
delle risorse produttive accadiche come casta collettiva monopolizzando
il controllo delle opere collettive irrigue nell’area mesopotamica, facendo in modo
che le comunità di villaggio sumere fossero asservite alla casta sacerdotale, al “tempio”
e all’”agenzia centrale” mediante la corvè ed altri obblighi lavorativi.107
In buona parte dell’India il modo di produzione asiatico si riprodusse su larga
scala fino al 1793, partendo già dall’epoca precristiana: correttamente Marx affermò
nel Capitale che “per esempio, le piccole, millenarie comunità indiane, che in
parte sussistono tuttora, poggiano sul possesso collettivo del suolo, sulla combinazione
immediata dell’agricoltura e dell’artigianato e su una divisione del lavoro
stabile…”; benché fossero inquinate dal sistema delle caste, in esse era assente il
possesso privato del suolo. “Nella forma più semplice, la comunità coltiva in comune
la terra e ne distribuisce il prodotto tra i suoi membri, mentre ogni famiglia
pratica la filatura, la tessitura, ecc. come mestiere domestico e sussidiario”.108
Il surplus veniva controllato ed estorto essenzialmente dagli apparati statali,
mentre solo in piccola parte esso garantiva il mantenimento del capo del villaggio,
134
ROBERTO SIDOLI
del contabile, dell’ispettore delle acque e del maestro di scuola, del bramino e dei
diversi artigiani specializzati.
Le civiltà pre-colombiane di Teotihuacan, olmeche, maya ed incas costituirono
ulteriori esempi americani di formazione economico-sociali dualiste, con comunità
agrarie almeno in parte collettivistiche sfruttate dai nuclei dirigenti politicoreligiosi,
sempre in assenza di proprietà privata del suolo, mentre anche i regni
cambogiani di Fu-nan (100-330 d.C.) e di Angkor adottarono il modello asiaticoidraulico
nelle loro relazioni sociali interne di produzione/distribuzione.
In alcuni stati dell’Africa subsahariana, tra il 600 ed il 1500 d.C., si sviluppò un
modo di produzione basato su una rete diffusa di clan e di villaggi in cui era assente
il possesso privato del suolo e al cui interno vigevano delle relazioni diffuse
di cooperazione nel processo produttivo agricolo: tali comunità dovevano fornire
tributi regolari all’autorità politico-centrale, che prendeva tutte le decisioni fondamentali
relative alla redistribuzione del surplus ed allo stesso possesso delle terre
tra i diversi clan.
In tal modo si presentarono nell’arena storica africana una serie di regni contraddistinti
da grandi città e da forme artistiche molto raffinate (sculture in legno),
che ebbero un largo arco spaziale e temporale di esistenza: secondo lo storico J.
Fage, questo tipo di modello è presente in buona parte dell’Africa Nera, nei regni
lacustri dell’Africa orientale e negli stati Zimbabwe-Monopotama, nell’Africa occidentale
con monarchie quali quelle del Benin.
«Si sostiene comunemente che le forme di governo monarchico organizzato
sviluppatesi fra le popolazioni nere sub-sahariane, e probabilmente manifestatesi
per la prima volta a un certo punto del primo millennio d.C., sono espressioni di
un modello comune. Si credeva che il re fosse, se non un dio egli stesso, quanto
meno discendente degli dei e quindi era separato dagli uomini comuni tramite una
quantità di rituali. Raramente si mostrava in pubblico, generalmente dava udienza
nascosto dietro una specie di cortina, comunicava quasi esclusivamente tramite
dei portavoce e non poteva essere visto mentre compiva azioni terrene quali mangiare
e bere. Era il rappresentante degli dei, in nome dei quali controllava l’uso
delle terre da cui dipendeva la sopravvivenza del suo popolo, stabiliva il tempo
della semina e del raccolto e occupava un ruolo centrale nelle grandi cerimonie che
accompagnavano queste attività. Si riteneva che la fertilità del suolo, il regolare arrivo
delle piogge, e quindi il benessere complessivo della comunità, dipendessero
da lui e dalla continuità della sua prosperità; la sua infermità era una calamità che
doveva essere dissimulata o, in alcuni casi, fatta finire con un’uccisione rituale.
Alla sua morte, veniva sepolto in gran pompa in compagnia delle sue mogli e del
suo seguito. Nella sua corte generalmente era riservato un posto importante alla
grande regina o regina madre, che era il capo femminile della famiglia reale più
che una moglie. Al di sotto del re c’era una gerarchia di grandi funzionari che governavano
la corte e che imponevano ordine e tributi sulle comunità di clan e di
villaggio dei suoi sudditi. I più importanti articoli del commercio a lunga distanza,
135
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
quali l’oro, l’avorio, il rame e il sale, erano comunemente monopolio reale e la corte
reale era il principale punto di concentrazione dei maggiori artigiani del paese,
come quelli che lavoravano l’oro e i metalli più rari, i tessitori e i musici.»109
Passando all’area geopolitica cinese, il periodo storico compreso tra il 2100 e il
770 a.C. ha visto il dominio politico-sociale di una serie di aristocrazie guerriere,
gli Xia, gli Shang e gli Zhou occidentali: durante questo arco temporale “sembra
di potere desumere che la coltivazione avveniva collettivamente, sotto la supervisione
di rappresentanti del sovrano. Tutta la terra coltivata era considerata come
proprietà del re”.110
È appena il caso di rilevare come l’esperienza plurimillenaria del modo di produzione
asiatico attesti che, anche nel periodo post-Calcolitico, fosse possibile concretamente
la lavorazione e l’appropriazione collettiva di una frazione variabile
della terra e che, d’altra parte, i nuclei dirigenti statali e i gruppi sociali ad esso
legati riuscissero ad estorcere il surplus dalle comunità solo mediante la loro superiorità
politica e militare rispetto ai produttori diretti rurali: il lato dominante del
“centauro asiatico” riprodusse nel tempo uno sfruttamento sistematico delle masse
contadine solo mediante l’utilizzo/minaccia di utilizzo di strumenti militari,
coadiuvati da meccanismi di legittimazione religiosi e politici, “vampirizzando” i
rapporti sociali di produzione semicollettivistici ad esso subordinati.
La terza orma lasciata dall’effetto di sdoppiamento, dopo il 3900 a.C., proviene
da tre esperienze di “stati degli schiavi”, sorti sull’onda di alcuni dei rarissimi
movimenti di manodopera servile e di liberi-poveri che riuscirono a rovesciare
– purtroppo per brevi periodi – i rapporti di produzione e di potere schiavistici,
esistenti in aree geopolitiche relativamente estese.
Nel 136-132 a.C. venne alla luce un grande movimento armato di schiavi in
Sicilia, che dopo aver battuto larga parte dell’esercito romano presente nell’isola
elesse un proprio consiglio direttivo ed un leader indiscusso, di nome Euno.
Durante il breve periodo di tempo in cui gli ex-schiavi controllarono buona parte
dell’isola coniarono delle proprie monete, con inciso il nuovo nome preso da
Euno (Antioco), e soprattutto essi riorganizzarono i rapporti di produzione rurali
salvando dalla distruzione le sementi, le riserve e gli strumenti di produzione,
distruggendo invece le relazioni schiavistiche prima esistenti e creando nuove
“comuni” rurali di uomini liberi (purtroppo spazzate via dalla vittoria successiva
delle armate romane): le “villae” romane, i grandi latifondi agrari vennero trasformate
in nuclei produttivi di tipo cooperativo, con una precisa divisione sociale del
lavoro al loro interno.
Nel regno di Pergamo (Asia Minore), una rivolta antiromana degli schiavi e dei
poveri-liberi del regno guidata da Aristonico, figlio di un precedente sovrano, tra il
132 ed il 130 a.C. fondò un effimero “Stato del Sole” la cui ambizione era quella di
diventare un regno della libertà e dell’uguaglianza, dove non sarebbero esistiti né
ricchi né poveri, né schiavi né padroni, riprendendo apertamente elementi sociopolitici
collettivistici presenti nel culto della divinità solare diffusa in larghi strati
136
ROBERTO SIDOLI
popolari dell’Asia Minore e della Siria: purtroppo, anche in questo caso, l’intervento
vittorioso degli eserciti schiavistici romani mise fino ad un’esperienza ricca di
notevoli potenzialità sovversive.
Nel 104-101 a.C. gli schiavi siciliani insorsero nuovamente e riottennero il
controllo di larga parte dell’isola, eleggendo come loro capi Atenione e Trifone.
Atenione invitò larga parte degli ex-schiavi a continuare a lavorare nelle grandi
tenute conservando il massimo ordine e facendole diventare delle comunità di uomini
liberi, come viene ammesso persino nell’opera dello storico romano-schiavista
Diodoro, ma ancora una volta il processo di consolidamento dei nuovi rapporti
di produzione collettivistici fu interrotto bruscamente dalla vittoria – ottenuta a
caro prezzo – delle armate di Roma.
I casi storici sopraelencati costituirono degli episodi eccezionali, ma dimostrarono
almeno la non-inevitabilità della riproduzione delle relazioni sociali schiavistiche
e la possibile affermazione di altre ed ugualitarie modalità di produzione e
distribuzione nel mondo antico, purché esse fossero concretamente sostenute dalla
supremazia politica e militare acquisita dagli schiavi insorti.111
L’effetto di sdoppiamento trovò una sua nuova e parziale epifania post-
Calcolitica nelle comuni rurali, riprodottesi per lunghi periodi in presenza di rapporti
di produzione feudali in Europa, nell’America Latina e in Vietnam (938-1862
d.C.): specialmente in Europa la comune rurale (di origine germanica, slava o celta,
a seconda delle diverse aree geopolitiche) del periodo medioevale si sviluppò parallelamente
e contemporaneamente alla dominante formazione economico-sociale
feudale, ma anche dopo il 1492 le comunità solidaristiche di villaggio degli indios
rappresentarono un pezzo importante delle realtà socioproduttive nell’America
Latina dominata dal colonialismo spagnolo (gli ejidos e gli ayllu), come del resto
in Scozia, Russia e nei paesi balcanici.112
La comune rurale medioevale di matrice germanica attraversò due fasi di sviluppo:
nella prima non solamente la proprietà del suolo era comune, ma anche
l’attività produttiva era svolta in modo cooperativo e il prodotto complessivo era
ripartito secondo “i bisogni del consumo”, detratte le quote destinate alla riproduzione
del processo produttivo ed estorte dai signori feudali, laici ed ecclesiastici.
La comune rurale “arcaica” fu in seguito sostituita da una nuova “comune agricola
dualistica” (Marx 1881), nella quale la terra rimase proprietà pubblica inalienabile
venendo tuttavia divisa e ridistribuita periodicamente tra i suoi membri, in
modo tale che ciascuno di essi potesse coltivarla e appropriarsi individualmente
dei frutti del lavoro agricolo (detratte le quote di beni/lavoro destinate alla riproduzione
del processo produttivo e alla classe feudale). Se i terreni destinati a
pascolo o alla raccolta di legno/cacciagione erano sempre a libera disposizione
di tutti i membri della comunità, spesso – ma non sempre – una parte consistente
della terra era coltivata ancora in comune dai contadini, che comunque mantenevano
sempre dei vincoli reciproci di solidarietà e mutuo appoggio durante alcuni
137
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
momenti del processo produttivo nei campi, nel dissodamento dei terreni vergini
e nella creazione/manutenzione delle opere di irrigazione.
In una lettera indirizzata nel 1881 a V. Zasulich, Marx notò correttamente che
«la proprietà comune di tipo più o meno arcaico si ritrova dappertutto nell’Occidente
europeo», dalla Germania all’Irlanda per arrivare alla Russia, e in un passo
memorabile distinse tra le due forme principali di comune rilevando per la prima
volta alcuni segni concreti dell’esistenza dell’effetto di sdoppiamento nel processo
storico di sviluppo del genere umano.
«Passiamo ora ad esaminare i tratti più caratteristici che distinguono la “comune
agricola” dalle comunità più arcaiche:
1) Tutte le altre comunità poggiano su rapporti di consanguineità fra i loro
membri. Vi si entra alla sola condizione di essere parente naturale o adottivo. La
loro struttura è quella di un albero genealogico. La “comune agricola”, tagliando
il cordone ombelicale che la teneva legata alla natura, fu il primo raggruppamento
sociale di uomini liberi non tenuto stretto da vincoli di sangue.
2) Nella comune agricola, la casa e il suo complemento, la corte rustica, appartengono
in privato ai coltivatori. La casa comune e l’abitazione collettiva erano invece
una base economica delle comunità più primitive, era questo molto prima dell’introduzione
della vita pastorale e agricola. Si trovano, certo, delle comuni agricole
in cui le case, pur avendo cessato d’essere luoghi di abitazione collettivi, cambiano
periodicamente possessore; ma si tratta di comuni che conservano il loro marchio
di nascita, che cioè si trovano in uno stadio di transazione da una comunità più
arcaica alla comune agricola propriamente detta.
3) La terra coltivabile, proprietà inalienabile e comune, è periodicamente divisa
fra i membri della comune agricola, in modo che ciascuno sfrutta per conto suo
i campi che gli vengono assegnati e, in particolare, se ne appropria i frutti. Nelle
comunità più primitive, il lavoro si svolge in comune, e il prodotto comune – eccettuata
la quota destinata alla riproduzione – si ripartisce a seconda dei bisogni
del consumo.
È ovvio che il dualismo inerente alla costituzione della comune agricola può dotarla
di un’esistenza vigorosa. Emancipata dai legami forti ma ristretti della parentela
naturale, la proprietà comune della terra e i rapporti sociali che ne discendono
le garantiscono una solida base, mentre la casa e la corte rustica, dominio esclusivo
della famiglia individuale, la coltura particellare del suolo e l’appropriazione privata
dei suoi frutti, danno all’individualità un impulso incompatibile con la struttura
delle comunità più primitive.
Tuttavia, non è meno evidente che, alla lunga, questo stesso dualismo può trasformarsi
in un germe di decomposizione. A parte tutte le influenze maligne provenienti
dall’esterno, la comune porta nel suo stesso grembo elementi deleteri. La
proprietà fondiaria privata vi si è già insinuata sotto la forma di una casa con la
sua corte rustica, che si può trasformare in una piazzaforte dalla quale si prepara
l’assalto alla e contro la terra comunale. È un fatto al quale si è già assistito. Ma
138
ROBERTO SIDOLI
l’essenziale è il lavoro particellare come fonte di accumulazione privata; lavoro che
dà luogo all’accumulazione di beni mobili come il bestiame, il denaro e, a volte,
persino schiavi o servi.
Questa proprietà mobile, che sfugge al controllo della comune ed è il soggetto
di scambi individuali in cui l’astuzia e il caso hanno buon gioco, peserà sempre più
su tutta l’economia agraria. È questo il vero solvente della primitiva eguaglianza
economica sociale. Esso introduce elementi eterogenei, che provocano in seno alla
comune conflitti d’interessi e di passioni suscettibili di incidere dapprima sulla
proprietà comune delle terre coltivabili, poi su quella delle foreste, dei pascoli,
del suolo incolto, ecc., che, una volta convertiti in annessi comunali della proprietà
privata, finiscono, a lungo andare, nelle sue mani.
Come… fase ultima della formazione primitiva della società, la comune agricola…
è nello stesso tempo fase di trapasso alla formazione secondaria e, quindi, di
trapasso dalla società basata sulla proprietà comune alla società basata sulla proprietà
privata. La formazione secondaria, si intende, abbraccia tutta la serie delle
società poggianti sulla schiavitù e sul servaggio.
Ma significa ciò che la parabola storica della comune agricola debba fatalmente
giungere a questo sblocco? Nient’affatto. Il dualismo ad essa intrinseco ammette
un’alternativa: o il suo elemento di proprietà privata prevale sul suo elemento collettivo,
o questo s’impone a quello. Tutto dipende dall’ambiente storico nel quale
essa si trova… Le due soluzioni sono, di per sé, entrambe possibili.»113
Fin dal 1881 Marx notò che “le due soluzioni” erano entrambe possibili, senza
tuttavia attirare l’attenzione dei suoi eredi su questo punto nevralgico di natura
storico-teorica.
La comune agricola in ambito feudale, parzialmente collettivistica, dimostrò
un’eccezionale vitalità storica anche fuori dall’area dell’Europa centro-occidentale
(600-1500 d.C.). In Vietnam si assistette per molti secoli alla coesistenza (non pacifica)
tra domini feudali dei grandi proprietari terrieri, terre private e campi comunali
(la maggioranza), suddivisi periodicamente tra contadini e signori feudali; nella
Russia e nell’Europa meridionale la comune rurale si riprodusse su larga scala fino
al XIX secolo; in larga parte nell’America Latina le comunità solidaristiche e prevalentemente
collettivistiche degli indios hanno formato per tre secoli (1550-1850),
dal Messico fino al Cile, un forte contraltare socioeconomico rispetto al colonialismo
feudale spagnolo, come dimostra la grande diffusione nella regione andina
di forme di relazione produttive quale l’ayni e la faena (lavori collettivi destinati
a soddisfare sia bisogni individuali che comunitari); nelle regioni scozzesi restò
per molti secoli in vigore (fino al 1746) il sistema per cui il terreno era sorteggiato
ogni anno tra i membri delle comunità e coltivato attraverso l’aratura in comune,
mentre in Irlanda tra il 500 ed il 1100 d.C. il terreno da pascolo rimase proprietà
collettiva della comunità domestica (tate), lasciata al massimo in possesso vitalizio
a singoli membri della collettività.114
139
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
La capacità di autoriproduzione della comune rurale si rivela ancora più straordinaria
se viene messa in collegamento con la parallela azione parassitaria esercitata
nei suoi confronti dai rapporti di produzione e dagli apparati statali feudali,
che estorsero ininterrottamente surplus e pluslavoro dalle comunità di base contadine.
Infatti esse non si conservarono certo in una sorta di “vuoto storico”, ma
all’interno di un rapporto di coesistenza-lotta con le strutture economiche, sociali
e politiche classiste che egemonizzavano le diverse formazioni statali medioevali e
post-medioevali: nel feudalesimo le comunità rurali erano formate infatti in larga
parte dai servi della gleba, legati da un vincolo personale diretto con l’aristocrazia
fondiaria laica/ecclesiastica che prevedeva una tassazione sulla persona del
contadino-servo, prestazioni lavorative e/o monetarie a carico di quest’ultimo e il
ritorno della proprietà al feudatario in mancanza di eredi del servo della gleba.115
Ad esempio in Russia la comune agricola dualistica (l’obscina), con la sua assemblea
(myr), la redistribuzione periodica ed il possesso collettivo delle terre,
mantenne una sua continuità storica a partire dall’XI millennio pur convivendo
con strutture feudali quali i possedimenti terrieri ereditari (le votciny) dei boiari-
principi, la barscina (periodi di lavoro gratuiti forniti ai proprietari terrieri) e
l’obrok (pagamenti in natura, o in denaro o di rendite a vantaggio dei feudatari),
al punto che la servitù della gleba (ancora parziale fino al 1500) costituì il fondamento
della società russa poiché “il lavoro servile sostentava la piccola nobiltà e
pertanto l’intera struttura dello stato”.116
La servitù della gleba divenne sempre più rigida e pesante per i contadini a
partire dal XVI secolo, senza tuttavia distruggere la comune contadina che “suddivideva
la terra tra i suoi membri ed era responsabile di tasse, reclutamenti militari
e altri obblighi verso lo stato” (Riasanovsky) conservando il possesso di circa tre
quinti del suolo russo, coltivato in buona parte attraverso modalità cooperative dai
contadini.
In ultima analisi la comune rurale, nelle sue diverse forme e fasi di sviluppo storiche,
rappresentò per secoli il lato secondario di un quarto “centauro” in cui l’egemonia
era in ogni caso detenuta dai rapporti di produzione feudali ed in cui solo la
superiorità politico-militare acquisita e conservata dall’aristocrazia fondiaria, laica
o religiosa, permise l’estorsione sistematica di surplus ai contadini schiacciandone
le frequenti rivolte e mantenendo nel tempo la loro forzata sottomissione. Solo la
violenza dei conquistatori spagnoli, ad esempio, permise loro di schiacciare le carsiche
rivolte dei contadini indios dell’America Latina, schiacciati ed oppressi per
secoli da un sistema di tributi statali e feudali che gravava sulle loro comunità semicollettivistiche
di villaggio, gli ejidos: dal 1536 fino alla rivolta di Tupac Amaru
in Perù (1780) e dei contadini indios messicani, guidati dal sacerdote Hidalgo e
da Morelos all’inizio dell’Ottocento, si sono susseguite numerose rivolte – sempre
soffocate nel sangue – promosse dai produttori diretti rurali dell’impero coloniale
spagnolo.117
140
ROBERTO SIDOLI
Una quinta parziale e profondamente deformata manifestazione della “linea
rossa” si ritrova nella riproduzione plurimillenaria delle manifatture e miniere statali.
Mentre il termine manifattura indica la produzione combinata in un medesimo
luogo fisico di oggetti di consumo e/o di strumenti di lavoro da parte di gruppi
più o meno consistenti di lavoratori, con diversi livelli di divisione sociale del lavoro
al loro interno e in assenza della potente combinazione costituita dalla macchina
utensile collegata a una fonte motrice naturale, va subito sottolineato come il
carattere intrinsecamente sociale e collettivo della produzione manifatturiera consentisse
sia l’appropriazione privata dei mezzi di produzione (e del loro prodotto
complessivo) che quella pubblica, visto che una pratica millenaria ha dimostrato
sia l’esistenza di manifatture di proprietà statale-collettiva che quella di opifici in
possesso di imprenditori privati.
Un altro “centauro” nel quale si è parzialmente concentrato l’effetto di sdoppiamento
è stato rappresentato proprio dalle manifatture statali e dalle miniere
pubbliche.
Il lato nettamente subordinato e secondario di queste ultime fu infatti costituito
dall’assenza di possesso privato dei mezzi di produzione e dalla mancanza di alienazione-
compravendita-trasmissione ereditaria degli opifici pubblici, in assenza
di decisioni vincolanti prese in tal senso da parte delle autorità statali. Le manifatture
statali attestano concretamente, con la loro stessa riproduzione materiale,
come l’appropriazione privata dei mezzi di produzione e del surplus non fosse
assolutamente collegata in modo “genetico” ed inevitabile allo sviluppo di un processo
produttivo combinato e finalizzato ad un output variabile di beni materiali,
mentre viceversa fossero possibili anche modalità alternative di utilizzo dei mezzi
di produzione sociali diverse dal possesso ed appropriazione privata, provando
con la loro stessa esistenza che l’imprenditore privato era una figura sostituibile,
con relativa facilità, nel processo sociale di direzione delle forze produttive e di
produzione-scambio.
Tuttavia è innegabile che le manifatture pubbliche sorsero e si riprodussero via
via in contesti storici caratterizzati sia dall’egemonia complessiva dei rapporti di
produzione classisti (asiatici, schiavistici, feudali e capitalistici) che dal dominio
di apparati statali, che rappresentarono e difesero gli interessi generali delle classi
privilegiate, neutralizzando in tal modo a priori qualunque funzione socioproduttiva
alternativa degli opifici pubblici e determinando la caratteristica dominante di
questo ” centauro”, per cui la loro forza-lavoro collettiva era composta via via da
schiavi, servi della gleba o da protosalariati quasi totalmente privi di diritti.
Una prima rudimentale forma di manifattura pubblica si era già sviluppata nel
regno sumero durante il IV millennio a.C., in un’epoca dominata da una teocrazia
(“il tempio”) che dirigeva le attività agricole (orzo, grano) e i complessi lavori di irrigazione:
sia nel campo della filatura e tessitura della lana, che avveniva mediante
telai a mano, che della molitura dei cereali la nuova classe dominante progressiva141
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
mente adottò il metodo organizzativo della concentrazione di centinaia di lavoratori
in laboratori appositi e destinati ad un processo produttivo cooperativo.
«Le fasi di lavorazione più impegnative sono quelle della filatura e tessitura. E
qui la soluzione adottata è di tutt’altro genere – una soluzione che nel ciclo dell’orzo
viene applicata solo alla fase relativamente marginale della molitura in farina
per i consumi interni. Si tratta del ricorso a lavoro schiavile, con concentrazione
di manodopera soprattutto femminile e anche minorile, considerata più adatta
per consuetudine domestica e soprattutto meno costosa per l’agenzia centrale. Le
razioni alimentari sono infatti rapportate grosso modo al peso corporeo, e sono
dunque minori per donne e bambini rispetto agli uomini: le razioni femminili sono
sui 2/3 di quelle maschili per le donne adulte, e quelle per bambini sono ancora
minori, circa la metà. Questa manodopera schiavile, nell’ordine delle centinaia di
persone, viene concentrata in edifici appositi (a metà tra prigioni e laboratori tessili),
e il suo rendimento lavorativo può essere facilmente controllato da sorveglianti
e guardie.»118
Il prototipo sumero fu seguito da una serie numerosa e proteiforme di manifatture
statali, tra le quali si possono ricordare brevemente gli opifici militari dei
romani, le grandi manifatture tessili e gli zuccherifici egiziani nell’Egitto dell’alto
medioevo islamico, l’Arsenale di Venezia (in cui lavoravano ventimila addetti, nel
momento di massimo fulgore), le manifatture pubbliche francesi del Cinquecento-
Settecento e le fabbriche metallurgiche russe del ‘700, in cui la forza-lavoro fu sempre
composta prevalentemente da servi della gleba. In Cina, sotto la dinastia degli
Han occidentali (206 a.C. – 24 d.C.), si formarono in molte città delle grandi officine
statali che producevano su larga scala armi ed attrezzi agricoli, gioielli e tessuti
e tali opifici pubblici mantennero quasi costantemente un ruolo significativo nel
processo economico cinese per due millenni, mentre nell’Europa medioevale i bei
e le risorse collettive dei Comuni non costituirono certo “un’economia marginale”
(P. Grasso), ma un fattore materiale di proprietà collettiva vitale ed indispensabile
per la stessa riproduzione delle società urbane, sostanziato nei mulini, terreni ed
immobili venuti allora in possesso dei Comuni italiani ed europei.119
La sesta “orma” (parziale, subordinata e deformata) lasciata dalla “linea rossa”
nel periodo post-Calcolitico si è espressa nei processi di cooperazione produttivadistribuitiva
e di statizzazione su larga scala dei mezzi di produzione verificatisi
nell’epoca industriale in Europa occidentale, in Giappone e negli Stati Uniti nel
corso del XIX e XX secolo, sotto l’egemonia della borghesia.
Dopo lo scoppio della Rivoluzione industriale, i livelli di sviluppo raggiunti
via via dalle forze produttive sociali hanno permesso indubbiamente la riproduzione
ininterrotta di rapporti sociali capitalistici, imperniati sullo sfruttamento del
lavoro salariato e sulla produzione costante di plusvalore-pluslavoro da parte di
questi ultimi: anzi, tali relazioni di produzione e distribuzione borghesi sono rimasti
egemoni per più di due secoli nell’area occidentale del globo, a dispetto delle
142
ROBERTO SIDOLI
frequenti crisi economiche, sociali e politiche da esse stesse provocate, con diversi
gradi di intensità e multiformi ricadute sociopolitiche.
Ma il carattere sociale assunto dalle forze produttive, con la grande industria ed
i trasporti moderni, ha fatto riemergere parallelamente e allo stesso tempo la “linea
rossa” proprio all’interno delle più avanzate metropoli capitalistiche, anche se con
forme molto deformate e in posizione nettamente subordinata rispetto all’egemonia
complessiva detenuta dai rapporti di produzione classisti.
La cooperazione, secondo Engels, ha dimostrato nei fatti e fin dalla prima metà
dell’Ottocento (pionieri di Rochdale, Owen, ecc.) che “tanto il mercante quanto il
fabbricante sono persone di cui si può fare a meno”, mediante l’azione concreta
delle società solidaristiche di consumo e di produzione.120
Pur tenendo conto dell’adozione da parte di una sezione del sistema cooperativo
di logiche e pratiche di chiara matrice capitalistica, non si può non rilevare come
agli inizi del terzo millennio l’International Cooperative Alliance rappresentasse
circa 750.000 cooperative di consumo e di produzione attive in cento stati, con un
numero totale di associati superiore ai 730 milioni di persone; persino negli Stati
Uniti sono attive più di 48.000 cooperative con un giro d’affari annuale superiore
ai 125 miliardi di dollari, mentre 34 milioni di statunitensi utilizzano elettricità
fornita a prezzo di costo da cooperative elettriche.121
Inoltre, come notò Engels nel 1878, l’esigenza oggettiva di una (parziale e deformata)
socializzazione delle forze produttive sviluppatesi dopo l’inizio della
Rivoluzione Industriale si è spesso imposta con forza nelle stesse società capitalistiche,
anche superando la resistenza di ampie frazioni della borghesia dell’Ottocento
e del XX secolo e dei suoi mandatari politici.
«In un modo o nell’altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante
ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la
direzione. La necessità della trasformazione in proprietà statale si manifesta anzitutto
nei grandi organismi di comunicazione: poste, telegrafi, ferrovie.
Se le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le
moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione
e di traffico in società anonime e in proprietà statale mostra che la borghesia non
è indispensabile per il raggiungimento di questo fine. Tutte le funzioni sociali del
capitalista sono oggi compiute da impiegati salariati. Il capitalista non ha più nessuna
attività sociale che non sia l’intascar rendite, il tagliar cedole e il giocare in
borsa, dove i capitalisti si spogliano a vicenda dei loro capitali. Se il modo di produzione
capitalistico ha cominciato col soppiantare gli operai, oggi esso soppianta
i capitalisti e li relega, precisamente come gli operai, tra la popolazione superflua,
anche se in un primo tempo non li relega tra l’esercito di riserva industriale. […] Lo
Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica,
uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria
le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore
è il numero dei cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei
143
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo
apice. Ma giunto all’apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive
non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della
soluzione.
Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura
sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di
appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi
di produzione.»122
A partire dalla prima guerra mondiale, con Rathenau e lo sviluppo del capitalismo
di stato tedesco, e soprattutto dopo la grande depressione del 1929-38 la storia
del capitalismo dell’ultimo secolo ha mostrato la parziale validità della tesi di
Engels, anche se la tendenza oggettiva alla statalizzazione dei mezzi di produzione
si è scontrata ininterrottamente con una potente controtendenza politico-sociale,
finalizzata a realizzare processi di privatizzazione del settore pubblico e promossa
al momento opportuno dalla frazione (generalmente) maggioritaria della borghesia,
mediante i suoi diretti e fidati mandatari politici: si pensi solo al fenomeno del
thatcherismo “globalizzato” e privatizzatore, affermatosi negli ultimi due decenni
del XX secolo in larga parte del pianeta.123
Ma proprio in terra inglese il caso Northern Rock, la banca privata britannica
fallita nei fatti e salvata nel febbraio 2008 dal governo di G. Brown con la nazionalizzazione
e una pesante iniezione di fondi pubblici pari a 25 miliardi di sterline,
mostra con chiarezza la forza d’urto che assume la tendenza alla statizzazione nei
momenti di crisi più gravi delle singole imprese e del sistema capitalistico nel suo
complesso: nel modo di produzione capitalistico la “linea nera” ha spesso utilizzato
in modo deformato (e paradossale) la controtendenza all’appropriazione collettiva
delle condizioni e dei mezzi della produzione proprio per arginare le proprie
tendenze autodistruttive, come ha dimostrato anche nel 2008 e con estrema chiarezza
il “socialismo dei banchieri” di Bush e Brown.
L’ultima traccia post-calcolitica lasciata dalla “linea rossa” appare nell’epoca
industriale, ed è rappresentata dall’esperienza delle formazioni economico-sociali
socialiste-deformate sviluppatesi, dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, a fianco
e simultaneamente con il mondo capitalistico. Risulta tuttavia necessario effettuare
su questa materia “incandescente” una ipersintetica premessa, per fornire
un inquadramento storico che rifletta, almeno parzialmente, sia la complessità e
i “chiaroscuri” di sette decenni divenuti centrali per la storia contemporanea, sia
la natura socioproduttiva dell’esperienza sovietica: subito rilevando che, secondo
la corretta concezione marxiana del socialismo, prima fase di sviluppo del m.p.
comunista sviluppato, la distribuzione del prodotto sociale complessivo avviene
in base al lavoro erogato dai produttori e non in base ai bisogni, sottraendo inoltre
a tale “scambio di equivalenti” (Marx, Critica al programma di Gotha) le detrazioni
necessarie per il fondo di accumulazione e di riserva, del consumo sociale e delle
spese per i disabili al lavoro, ecc.
144
ROBERTO SIDOLI
Dal 1930 al 1989 le caratteristiche positive del “socialismo reale” in campo socioeconomico
sono state:
– la socializzazione della grande maggioranza dei mezzi di produzione, mediante
sia il settore statale che quello cooperativo;
– la nazionalizzazione integrale delle terre, dei boschi, delle acque e delle
risorse minerali ed energetiche contenute nel sottosuolo dell’URSS;
– l’assenza di processi di compravendita, privatizzazioni e trasmissioni ereditarie
aventi per oggetto i mezzi e le condizioni sociali della produzione;
– l’assenza di borse-valori per azioni, merci ed il capitale speculativo (futures,
ecc.);
– la pianificazione parziale del processo produttivo globale;
– l’assenza di crisi economiche di sovrapproduzione;
– l’inesistenza di un esercito di riserva industriale, ossia della disoccupazione.
– l’assenza sia di esportazione di capitali all’estero che di estorsione su scala
internazionale di surplus e sovrapprofitti (con la parziale eccezione del 1945-
52, riguardante la Germania Orientale, l’Ungheria e la Romania);
– l’inesistenza dei dividendi azionari, del profitto commerciale e della rendita
fondiaria/speculativa all’interno dei paesi del “socialismo reale”;
– la presenza di un robusto sistema di previdenza sociale per i lavoratori ed
i cittadini, fondato sulla garanzia della piena occupazione e sull’erogazione
gratuita di servizi essenziali, seppur modesti, per la salute, l’educazione, la
vecchiaia e gli inabili al lavoro; anche secondo lo storico occidentale Henry
Hedelman «è esistito un campo principale in cui i regimi post-staliniani sono
divenuti altamente competitivi e il consumo ha raggiunto uno standard internazionale
elevato: la fruizione di servizi sociali»;124
– la presenza di prezzi politici molto bassi per elettricità e gas, generi alimentari
di prima necessità, affitti e trasporti pubblici;.
– il parziale contenimento delle disuguaglianze sociali, le quali nella grande
maggioranza dei casi rimasero ad un livello enormemente inferiore a quello
esistente nel capitalismo; su questo tema il feroce antisovietico M. Voslensky
concluse che a metà degli anni Ottanta un importante capodivisione del
Comitato Centrale del PCUS guadagnava mensilmente 450 rubli al mese, a
cui si aggiungevano a suo avviso altri 300 rubli in buoni d’acquisto e benefit
vari: “cinque volte di più dell’operaio e dell’impiegato ordinario”;125 un alto
esponente della nomenklatura, quasi ai vertici del potere del partito comunista
sovietico, guadagnava in sostanza meno di un trattorista siberiano dello
stesso periodo storico, meno delle punte avanzate dell’aristocrazia operaia
sovietica;
145
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
– l’orario lavorativo di tipo “occidentale”, un’età pensionabile non elevata
(55 anni per le donne negli anni Ottanta) e ritmi lavorativi molto meno intensi
che nel capitalismo;
– l’aumento costante del potere d’acquisto dei lavoratori sovietici verificatosi
tra il 1945 ed il 1987.
Elementi negativi sono stati invece:
– lo sviluppo progressivo delle disuguaglianze sociali, extra legali e “sommerse”
dato che fin dai tempi di Lenin sussistettero fenomeni relativamente
diffusi di corruzione e arricchimento illecito da parte dei funzionari di
partito e dei dirigenti industriali, utilizzando illegalmente fondi e mezzi di
produzione pubblici e creando elementi reali di capitalismo di stato nell’area
sovietica;
– l’esistenza di un settore privato illegale-paralegale, vera e propria fonte di
accumulazione primitiva per le mafie sovietiche;
– il primato attribuito ininterrottamente per sessant’anni (1928-1988) alla
produzione di mezzi di produzione a scapito dei consumi di massa e dell’agricoltura,
nella destinazione del surplus e del prodotto sociale: ad esempio
in Unione Sovietica dal 1925 al 1958 la produzione dei mezzi di produzione
era aumentata di 103 volte, mentre quella dei beni di consumo solo di
15,6 volte;126
– la costante sottoproduzione di beni di consumo, con le sue inevitabili conseguenze:
code nei mercati, penuria relativa di merci ed insoddisfazione crescente
delle masse popolari dell’Unione Sovietica;
– La grande massa di surplus sociale destinato ingiustificatamente all’apparato
militar-industriale e spaziale, una volta raggiunto dopo il 1966/68 un
livello più che ragionevole di sicurezza rispetto ai potenziali attacchi militari
occidentali;
– la bassa produttività e qualità media del lavoro sociale.
Come si vedrà meglio in seguito, proprio la sottoproduzione di mezzi di consumo,
individuali e collettivi, è risultato il vero “tallone d’Achille” delle formazioni
statali nate dopo l’Ottobre del 1917, solo parzialmente tamponato e coperto
dall’idealismo rivoluzionario, dalle garanzie sociali acquisite e dal “patriottismo”
sovietico, manifestatisi con particolare rigore nel 1918-20 e nel 1941-45.
Certo, anche nelle ipotesi e negli scenari più favorevoli qualunque formazione
economico-sociale socialista avrebbe dovuto superare progressivamente la
contraddizione generale che segna inevitabilmente la prima ed immatura fase di
sviluppo del modo di produzione comunista moderno, facilmente individuabile
nel conflitto esistente tra l’alto livello di sviluppo dei bisogni popolari (consumi
materiali, tempo libero, cultura, sicurezza sociale, scuola e sanità) e il basso grado
di sviluppo raggiunto dalle forze produttive sociali; ma la particolare combina146
ROBERTO SIDOLI
zione formatasi nel “socialismo reale” tra il bassissimo grado iniziale di partenza
delle forze produttive, e gli elementi negativi sopra elencati, ha fatto in modo che
tale contraddizione generale assumesse nel “socialismo reale” ininterrottamente
un carattere acuto (code, penuria economica) e a volte antagonistico, creando la
base materiale per uno scontento di massa che a volte si trasformò in scioperi e
movimenti di protesta, partendo da Kronstdat 1921 fino agli scioperi dei minatori
russi del 1989-91.
La categoria di socialismo deformato, soprattutto per il primato dell’industria
pesante e delle spese militari, esprime pertanto il carattere contraddittorio, le luci
e le ombre dei rapporti sociali di produzione delle esperienze storiche di stampo
sovietico: il cui nucleo centrale (positivo) era costituito dal possesso collettivo dei
mezzi di produzione e dalla destinazione di larga parte del prodotto sociale al
settore dei consumi e dei servizi sociali (sanità, scuola, pensioni, prezzi “politici”
di molti generi alimentari e della casa), ed in cui la “linea nera”, costituita principalmente
dagli elementi illegali di capitalismo di stato (appropriazione privata di
risorse e beni pubblici da parte della nomenklatura di partito e dei manager delle
industrie statali) risultava nettamente subordinata alla riproduzione dei rapporti
di produzione e distribuzione collettivistici, basati sul principio socialista del “a
ciascuno secondo il suo lavoro”.
Finita questa indispensabile premessa, che verrà riutilizzata ed ampliata nel
prossimo capitolo, risulta abbastanza agevole estrapolare dalla ricca esperienza
sovietica (e post-sovietica) alcune lezioni storiche che interessano la teoria in esame
e la verificano concretamente “sul campo”.
In primo luogo dopo il 1917 lo scenario politico-sociale e politico-economico
mondiale si è realmente “sdoppiato” attraverso un processo di confronto/scontro
tra il campo capitalistico e quello socialista-deformato, che è anche arrivato a dividere
in due nazioni importanti quali la Germania (tra il 1948 ed il 1989), il Vietnam
(tra il 1954 ed il 1975) e la Corea: ancora nell’aprile del 1922 una dichiarazione preparata
congiuntamente da Lenin e da G. V. Cicerin, allora commissario del popolo
per gli affari esteri della Russia sovietica, riconosceva pubblicamente che «nell’attuale
epoca storica» si rende possibile per un tempo indefinito «l’esistenza parallela
del vecchio regime sociale» (alias il capitalismo) «e del nuovo che sta sorgendo»,
la formazione economico-sociale/comunista nella sua prima fase di sviluppo.
Inoltre la pratica concreta ha mostrato come i rapporti di produzione collettivistici,
anche se deformati, siano serviti concretamente, tra il 1929 ed il 1989 ed in un
sesto del globo, come reali forze motrici ed indispensabili supporti socioproduttivi
per un aumento esponenziale e pluridecennale delle forze produttive sovietiche,
giunte dopo il 1933/35 ad un livello quantitativo e qualitativo quasi equivalente a
quello esistente negli stessi decenni in Occidente in un processo di sviluppo realizzato
per giunta in condizioni quasi proibitive.
La Russia del 1919-21 era infatti un paese afflitto da una corruzione spaventosa,
tanto da far scrivere nel luglio del 1919 ad un vecchio bolscevico di Tula in
147
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
una lettera a Lenin che «la concussione è ormai diffusa ovunque: senza tangenti i
compagni comunisti non riuscirebbero a sopravvivere»; una nazione in cui un’inchiesta
del 1920 scoprì che l’88% delle ragazze erano dedite saltuariamente alla
prostituzione e in cui la carestia del 1921 provocò circa cinque milioni di morti,
mentre nello stesso anno la produzione industriale si rivelò solo la settima parte
del già basso livello del 1913.127
Inoltre l’Unione Sovietica fu costretta in seguito a sopportare una tremenda
guerra contro il nazifascismo, che tra il 1941 ed il 1945 provocò la morte di più di
20 milioni di sovietici e la distruzione del 40% del suo prodotto nazionale globale,
mentre tra il 1945 e il 1988 essa dovette anche affrontare una costosissima corsa agli
armamenti, in primo luogo nucleari, per riuscire a competere quasi alla pari con
la superpotenza statunitense; più volte, infine, i suoi quadri dirigenti commisero
degli errori clamorosi (ed evitabili) in politica economica, estera e nella scelta delle
priorità produttive-tecnologiche.
Nonostante questi gravi handicap, il tasso di incremento produttivo tra il 1929
e il 1978 risultò esente da crisi di sovrapproduzione e soprattutto raggiunse cifre
molto elevate, tali da rendere l’Unione Sovietica la seconda potenza economica
mondiale: la combinazione concreta tra la pianificazione ed il socialismo deformato,
seppur tra grandi errori e (a volte) tragedie, trasformò la Russia dell’aratro
in legno in quella dei trattori e delle grandi centrali elettriche, dello Sputnik e di
Gagarin, come riconobbe in parte anche lo storico antistalinista I. Deutscher.128
I rapporti di produzione collettivistici rimasero in larga parte compatibili con
i diversi livelli di sviluppo raggiunti dalle forze produttive in Unione Sovietica
nei decenni compresi tra l 1928 ed il 1979, mentre le relazioni di produzione socialiste-
deformate fino al 197678 sostennero abbastanza efficacemente l’urto e la
trasformazione progressiva delle forze produttive, quasi equivalenti per livello di
sviluppo a quelle occidentali nel periodo in esame, a dispetto del clamoroso errore
commesso dai diversi nuclei dirigenti sovietici nell’attribuire costantemente il primato
alla produzione di mezzi di produzione-distruzione anche dopo il 1948/50
(errore che alla fine ebbe degli effetti devastanti per l’Unione Sovietica e gli altri
stati del Patto di Varsavia).
I dati ufficiali sovietici forniti nel 1987 da V. Zagladin danno un’idea complessiva
sulla capacità dimostrata dalla formazione economico-sociale sovietica di riprodursi
in forma allargata, in presenza di una progressiva escalation nello sviluppo
delle forze produttive sociali, anche se il dato sulla produzione agricola si rivela
estremamente basso e deludente.
«Nel 1985 in confronto al 1917 il reddito nazionale prodotto è aumentato di 138
volte, i fondi fissi di produzione di tutti i settori dell’economia sono cresciuti di 62
volte (nonostante le enormi perdite subite dal paese in questo periodo!). La produzione
dell’industria in questo periodo è aumentata di 303 volte, quella dei mezzi di
produzione di 669 volte, la produzione dell’agricoltura di 5,4 volte.
148
ROBERTO SIDOLI
Come si presentano questi risultati in confronto allo sviluppo delle forze produttive
del sistema capitalistico mondiale? Negli anni 1961-1985 l’aumento medio
annuo della produzione industriale nei paesi del socialismo è stato pari al 6,9%
(nei paesi del Comecon del 6,6%), nei paesi in via di sviluppo del 4,6%, nei paesi
capitalistici sviluppati del 3,9%.
È noto che in conseguenza delle omissioni e degli errori di previsioni, nonché
delle difficoltà di carattere oggettivo, negli ultimi anni i ritmi di crescita della produzione
nell’URSS e in una serie di altri paesi del socialismo hanno subito un rallentamento.
Ma il mondo capitalista ha conosciuto in questo periodo una serie di
oscillazioni della produzione dovute alle crisi. Di conseguenza nei paesi socialisti
il ritmo medio annuo di crescita della produzione è stato negli anni 1981-1985 del
5,5%, nel Comecon del 3,4%, nei paesi capitalistici sviluppati dell’1,8%. Nei paesi
in via di sviluppo poi la produzione è diminuita in media dello 0,5% all’anno.»129
In terzo luogo, proprio l’ultima fase dell’esperienza sovietica, dal 1988 fino all’agosto
1991, ed il successivo periodo post-sovietico dimostrano concretamente
come, sulla base di livelli di sviluppo delle forze produttive simili tra loro (dal
punto di vista quantitativo e qualitativo), sia stata possibile e reale l’egemonia
sia di rapporti di produzione collettivistico-deformati che di quelli capitalistici di
stato; sia la storia sovietica che quella post-sovietica insegnano che, sulla base di
livelli quasi equivalenti di sviluppo delle forze produttive, rimane possibile, sia a
livello potenziale che concreto, anche il ritorno all’egemonia dei rapporti di produzione
classisti/capitalistici, come avvenne negli anni seguenti al dissolvimento
dell’Unione Sovietica verificatosi tra l’agosto e il dicembre 1991.
Certo, durante il quadriennio 1992-1996 il processo di restaurazione capitalistica
guidato da Eltsin, Gaidar e Cubais determinò un calo della produzione industriale
rispetto all’ultimo periodo sovietico che risultò quasi pari al 50%, ma non certo in
misura tale da riportare la Russia al livello produttivo del Ruanda o da creare un
decisivo salto di qualità negativo nei confronti dei primi anni Ottanta sovietici.
Eppure tra il 1992 ed il 1996, si verificò ugualmente un gigantesco processo di privatizzazione
dei mezzi di produzione e delle risorse naturali, che fece riemergere
vittoriosamente la “linea nera” e che ricostruì l’egemonia in Russia (ed in tutte le
zone dell’ex URSS) dei rapporti di produzione fondati sull’appropriazione da parte
di una minoranza dei mezzi di produzione e del surplus/pluslavoro, realizzando
un esempio “chimicamente puro” di capitalismo di stato e un enorme processo
di privatizzazione della proprietà statale, attuato grazie al sostegno decisivo degli
apparati statali e dei nuclei dirigenti politici russi del tempo.
Ancora nel giugno del 1991 venne infatti istituita una Commissione dei beni
statali per la Russia, quasi contemporaneamente all’elezione di Eltsin a presidente
della Federazione Russa, avvenuta nello stesso mese con il sostegno di un ampia
maggioranza popolare (57% dei voti); nel novembre del 1991 venne posto a
capo della Commissione Anatolij Cubais, il quale redasse con il suo protettore V.
Gaidar un programma di privatizzazione dell’economia russa che entrò in vigore
149
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
con un decreto del 29 dicembre 1991, pochi giorni dopo la fine formale dell’Unione
Sovietica.
“Scopo della privatizzazione”, affermò Cubais in seguito, “era di costruire il
capitalismo in Russia, e di farlo in pochi anni di attacco frontale, realizzando così
norme di produzione che al resto del mondo avevano richiesto secoli”.130
Secondo il progetto Cubais-Gaidar, ogni cittadino russo avrebbe avuto intestato
a suo nome una specie di pagamento in contante, attraverso un buono da usare
solo a scopi di privatizzazione con una quota azionaria “uguale per tutti”, ma la
realtà si mostrò molto diversa. Al posto del conto nominativo vennero emessi invece
dei certificati di privatizzazione anonimi che potevano essere comprati-venduti
dagli speculatori ad un prezzo irrisorio, visto l’altissimo livello dell’inflazione e
la miseria di larga parte della popolazione, tanto che a metà del 1993 i “buoni” di
privatizzazione valevano ormai solo un centesimo del loro valore iniziale; inoltre
molti cittadini russi non ricevettero mai i loro voucher in una delle truffe più
clamorose della storia economica, visto che nel 1993 su un totale di 148 milioni di
buoni ne erano stati utilizzati solo 36 milioni.
Una parte significativa delle aziende russe fu auto-acquistata dai collettivi di
lavoro (la “linea rossa”), utilizzando proprio i buoni-azione della forza-lavoro interna,
ma moltissime altre imprese divennero preda di speculatori e uomini d’affari
anche grazie ai sovrammenzionati prezzi d’acquisto stabiliti per le imprese da
privatizzare; altre ancora, circa il 2% del totale, conobbero una combinazione tra le
due prime ipotesi.
«D’altro canto, alcuni uomini d’affari e “fondi buoni” di recente formazione
avevano fatto incetta di buoni dal resto della popolazione a bassissimo prezzo, e
cercavano il modo di investirli proficuamente. In questi casi non furono indette
aste, e i beni furono venduti per il loro “valore base”. Così alcune grandi imprese
passarono in mani private a prezzi assurdamente bassi.
Per esempio, un famoso cantiere navale di Pietroburgo, le Officine baltiche, fu
messo in vendita per 150 milioni di rubli, pagabili con buoni. Contemporaneamente
il prezzo del grande magazzino di giocattoli Malys, sul Nevskij Prospekt, la principale
via di negozi pietroburghese, era di 701 milioni di rubli. A Mosca l’Hotel
Minsk, un edificio di medie dimensioni, fu venduto per una somma in buoni del
“valore” nominale di 200.000 rubli. Di contro, il gigantesco stabilimento automobilistico
Zil, che occupa a Mosca più di diecimila ettari, fu privatizzato (in base alla
prima variante) per 800.000 rubli in buoni, raccolti in ogni parte della Russia. Una
serie di impianti sportivi, attrezzature portuali e fabbriche furono venduti a prezzi
bassissimi in buoni. La Fabbrica di macchinari degli Urali, più nota con l’acronimo
russo Uralmaš, che era stata il più grande stabilimento dell’URSS e lo era ancora
della Russia, e impiegava più di 100.000 lavoratori, fu privatizzata nel giugno 1993
in cambio di buoni. Ne fu stabilito il valore in 1,8 miliardi di rubli, pari al cambio di
allora a 2 milioni di dollari. Cosa si comprerebbe con 2 milioni di dollari nel cuore
di New York? Sì e no un appartamento di lusso.
150
ROBERTO SIDOLI
Il pacchetto azionario di controllo dell’Uralmaš fu comprato dall’uomo d’affari
moscovita K. Bendukidze (di cui parleremo ancora nel capitolo “La nuova classe
della Russia”), già fondatore di una società biotecnologica.
Uno stabilimento gigantesco come l’Uralmaš non si avvantaggiò passando in
mani private. Per un serio investimento che modernizzasse gli impianti occorrevano
non buoni ma dollari sonanti, a milioni se non a centinaia di milioni, che i
nuovi proprietari non possedevano. Neanche i nuovi proprietari di questi grandi
stabilimenti trassero molto beneficio dal loro acquisto, perché nelle condizioni generali
di declino industriale gli stabilimenti non davano profitti; di fatto riuscivano
a malapena a tenersi a galla.»131
Sempre sotto questo profilo va rilevato che anche se il valore reale della famosa
fabbrica d’automobili Zil era stimato nel 1992 attorno ai 4 miliardi di dollari, essa
fu venduta ad un millesimo del suo valore reale e che se tra il 1992 ed il 1994 vennero
privatizzate 88.577 aziende, il sessanta per cento circa del totale, larga parte
delle attività produttive dimesse o regalate ai privati cessò l’attività produttiva nel
giro di breve tempo.132
Nel 1994-97 il processo di privatizzazione entrò in una nuova fase toccando i
“bocconi” più prelibati, il settore energetico e quello minerario. Si attuò la cosiddetta
“vendita del secolo”, in sostanza aste a prezzi combinati: ad esempio, l’Associazione
russa degli industriali del petrolio denunciò nel 1995 che il valore di
mercato delle aziende in vendita nel loro settore era stato spesso ridotto di 50-70
volte. I neocapitalisti russi rilasciarono dei prestiti in larga parte fittizi allo stato in
cambio delle azioni dei settori più redditizi, industrie energetiche (gas e petrolio),
alluminio, materie prime e metalli preziosi ed in tal modo si formò una ristretta
oligarchia monopolista composta da nomi divenuti famosi quali Khodorkovsky,
Fridman e Shtyrov (petrolio, diamanti), Gusinsky e Abramovic.133
Secondo una stima della Literaturnaja Gazeta del maggio 2002, nel primo anno
dell’era Putin l’Unione degli industriali e imprenditori della Russia controllava
ormai tre quarti della ricchezza del paese e quattro quinti del PIL russo, mentre
sempre all’inizio del nuovo millennio erano state privatizzate anche larga parte
delle imprese della telecomunicazione e del trasporto ferroviario del paese.
Si trattò di una strategia generale a favore delle privatizzazioni basata su una
precisa scelta di campo filo-capitalistica (di stato) che si disinteressava della stessa
razionalità economica, come ha rilevato lo stesso Cubais nel suo libro Storia della
privatizzazione russa.
«Dovevamo decidere di continuo questioni di rapporti tra fini e mezzi. Ma io
ritenevo, e ritengo tuttora, che la creazione della proprietà privata in Russia un
valore assoluto [per cui lottare]. Per ottenere questo obbiettivo era necessario a
volte sacrificare certe idee schematiche di efficienza economica. Queste sono categorie
che si misurano con metri diversi. L’efficienza economica esiste su una scala
di uno o due o dieci anni, la proprietà privata opera su una scala di cento o mille
anni.»134
151
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
In effetti la “linea nera” opera realmente su una scala temporale plurimillenaria,
da Nevali Cori fino a Cubais e Putin, tanto che nel 2003 la riforma fiscale attuata
dal governo di quest’ultimo ha introdotto una tassa unica con un’aliquota del 13%
uguale per tutti, poveri e miliardari, operai e borghesi, venditori di strada e multinazionali.
L’ultima lezione che ci regala la storia dei processi storici sovietici e post-sovietici
riguarda la centralità della lotta politica e dei rapporti di forza politici (in primo
luogo politico-militari) nella risoluzione del conflitto esistente tra i rapporti di produzione
collettivistici (deformati) e quelli capitalistici: risulta infatti evidente che,
dal 1986 al 1992, il fattore decisivo per la dinamica delle relazioni di produzione
sociale fu rappresentato in Unione Sovietica dalla trasformazione dei rapporti di
forza politici esistenti in precedenza tra le forze comuniste ed anticomuniste, tra
i sostenitori del sistema economico-sociale socialista e i fans del “libero mercato”,
della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il crescente e diffuso malcontento popolare per le lunghe code e la penuria relativa
di mezzi di consumo, già ai livelli di guardia nel 1986-87; le rinascenti ed esplosive
spinte nazionalistiche nelle repubbliche non-russe (Armenia e Azerbaigjan,
Asia Centrale e paesi baltici, ecc.); lo spostamento di larga parte dei giovani, dei
minatori e delle grandi città russe a favore dell’anticomunista dichiarato B. Eltsin,
aperto sostenitore dell’Occidente e del capitalismo; gli scioperi dei minatori del
1989-91 e la crescente demoralizzazione e disgregazione del PCUS; l’elezione
trionfale di B. Eltsin a presidente della Federazione Russa nel giugno del 1991 e
il fallimento totale dell’iper-disorganizzato golpe militare attuato nell’agosto 1991
dall’ala “dura” del partito comunista formarono i tasselli principali di un declino
accelerato del peso politico, del prestigio e del consenso detenuto da quest’ultimo,
che fu accompagnato parallelamente dall’innegabile crescita nel potere d’urto delle
forze liberal-borghesi e dalla successiva presa del controllo dei gangli decisivi
dell’apparato statale, delle forze armate e dei servizi segreti da parte di queste
ultime.
La nuova borghesia russa, composta dai piccoli affaristi del mercato nero, da ex
funzionari comunisti e soprattutto dalla Mafia russa, vinse innanzi tutto sul piano
politico lo scontro con il partito comunista, ormai entrato in uno stato semi-comatoso
e da anni diviso tra riformatori gorbacioviani e “ala dura”, incassando subito
dopo l’ascesa al potere di Eltsin i dividendi socioeconomici del proprio trionfo
politico (sponsorizzato e sostenuto dal democratico Occidente capitalistico).
«Nel giro di pochi mesi, dopo il golpe del 1991, la Mosca di Elcin ha incominciato
ad essere dominata dalla presenza di questa prorompente “nuova imprenditoria”.
Gli spazi ove sino a poco tempo prima si allungavano le code per il pane,
le patate, le mele, diventavano mercati ove era possibile trovare di tutto, computer
americani e biscotti danesi, biancheria italiana, e birra tedesca. Il panorama urbano
appariva profondamente cambiato: si pensi alle insegne dei nuovi negozi, a quel
che si intravede al di là dei vetri delle finestre degli uffici delle ditte giapponesi,
152
ROBERTO SIDOLI
italiane, francesi, ove lavorano migliaia di segretarie, centinaia di piccoli manager
(e anche a quella che viene chiamata la “nuova criminalità” con le vittime che sono
oggi banchieri, commercianti, costruttori di case)…»135
In altri termini, i “nuovi ricchi” russi e le multinazionali straniere attuarono in
pochi anni una gigantesca accumulazione primitiva capitalistica, creando soprattutto
per via politica e con mezzi politici il dominio della “linea nera” socioproduttiva
in Russia.
Un veloce excursus attorno a sei millenni di storia ci porta pertanto a concludere
che anche nel periodo post-Calcolitico l’effetto di sdoppiamento abbia continuato
ad esercitare la sua azione storica, sebbene la “linea nera” sia riuscita finora
quasi sempre a prevalere su quella collettivistica ponendola forzatamente in una
posizione subordinata/deformata o allo stato latente, grazie soprattutto al controllo
(quasi) costante esercitato sugli apparati statali dalle classi sfruttatrici.
La seconda conclusione che si può trarre è che tra i due litiganti il “terzo” (alias
la sfera politico-statale) ha costantemente assunto un ruolo decisivo. La coesistenza/
lotta tra la linea rossa e quella classista ha prodotto e riprodotto per millenni il
primato della lotta politica, tesa e finalizzata al decisivo e vitale controllo del potere
statale e degli apparati decisionali, di controllo e repressivi: controllo decisivo
proprio per il successo storico dei rapporti di produzione fondati sull’appropriazione
da parte di una minoranza delle forze produttive e del surplus sociale, o viceversa
per la “rivincita” dei rapporti di produzione collettivistici (vedi URSS nel
1917-90). Proprio i concreti rapporti di forza politici (politico-militari, ecc.) via via
creatisi tra le diverse classi e frazioni di classe hanno fatto la differenza tra le “due
linee”, provocando quasi sempre negli ultimi millenni la prevalenza di rapporti
di produzione classisti, asiatici, schiavistici, feudali o capitalistici: rapporti di produzione
coercitivi, che si sono basati e si fondano tuttora principalmente sull’utilizzo/
minaccia dell’uso della forza da parte delle classi privilegiate, esercitata di
regola attraverso i loro mandatari politici e gli apparati statali da esse controllati,
direttamente o indirettamente.
Ad ulteriore sostegno di queste tesi, risulta utile analizzare un’altra concreta situazione
storica, lo scenario romeno del 1600-1800, brevemente descritto da Marx
nel Capitale.
La regione della Valacchia era rimasto uno stato vassallo dell’impero turco per
quattro secoli, dal 1419 fino all’ottobre del 1826, e dopo quella data essa venne sottoposta
per quasi otto anni al controllo diretto russo prima di ottenere una parziale
indipendenza e di costituire il nucleo centrale dello stato romeno.136
Sul piano socioproduttivo la zona valacca era contraddistinta da un dominio
plurisecolare dei feudatari boiardi, via via accentuatosi nel corso del XVII e XVIII
secolo, mentre le giornate di corvee erano la forma principale di sfruttamento dei
contadini rumeni. Ma la “corvata”, la forma di pluslavoro erogata gratuitamente
dai contadini rumeni a favore dell’aristocrazia feudale, costituì il sottoprodotto ed
il risultato di una correlazione di potenza politico-militare favorevole ai secondi, e
153
Le orme lasciate dall’effetto di sdoppiamento
non certo l’esito inevitabile e necessario di un determinato livello di sviluppo storico
delle forze produttive: i “ladri della terra” valacchi, come li definì correttamente
Marx, prevalsero sui contadini soprattutto con la “critica delle armi” e l’appoggio
degli apparati statali ottomani (e poi zaristi).
«Nei principati danubiani la corvata si trovava accanto a rendite in natura e
altre conseguenze della servitù della gleba, ma era il tributo più importante per la
classe dominante. In simili condizioni la corvata derivava raramente dalla servitù
della gleba, ma al contrario quest’ultima derivava dalla corvata. Questo accade alle
province rumene. Il loro primitivo modo di produzione si basava sulla proprietà
comune, ma non sulla proprietà comune nella forma slava o addirittura indiana.
Una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della comunità,
quale libera proprietà privata, un’altra parte – l’ager publicus – era lavorata in
comune dagli stessi membri. I prodotti di questo lavoro comune in parte costituivano
il fondo di riserva per raccolti cattivi e per altre circostanze, in parte costituivano
il tesoro pubblico per sostenere le spese della guerra, della religione e di altri
bisogni della comunità. Con l’andare del tempo dignitari militari ed ecclesiastici
usurparono la proprietà comune e allo stesso tempo i servizi che le erano connessi.
Il lavoro dei liberi contadini sulla terra della loro comunità divenne corvata
per i ladri della terra della comunità e contemporaneamente si svilupparono pure
rapporti di servitù, ma di fatto e non di diritto, fino a che la Russia, liberatrice del
mondo, con il pretesto di abolire la servitù della gleba, la sollevò a legge. Il codice
della corvata, proclamato dal generale russo Kisselev nel 1831, fu naturalmente dettato
dagli stessi boiardi. In tal modo la Russia, d’un sol colpo, conquistò i magnati
dei principati danubiani e gli applausi dei cretini liberali di tutta l’Europa.»137
Grazie ai loro agganci privilegiati e alla loro superiorità politica, militare ed
organizzativa, gli avidi feudatari romeni “usurparono la proprietà comune” devastando
la linea rossa all’interno della Valacchia ed instaurandovi l’egemonia incontrastata
dei rapporti di produzione semifeudali: ancora una volta, coesistenza e
conflitto tra tendenze socioproduttive alternative nella stessa area geopolitica.
Allo schema generale dell’effetto di sdoppiamento possono essere rivolte numerose
obiezioni. Alcune ho cercato di anticiparle nel capitolo ottavo del mio libro
“I rapporti di forza”, a partire dal problema della presunta incapacità dei rapporti
di produzione collettivistici nello sviluppare il livello qualitativo e quantitativo
delle forze produttive sociali, durante il periodo del surplus e dopo il 9000aC, e
da quello della reale carenza di spinta propulsiva in questo campo espressa invece
dalle relazioni di produzione/distribuzione classiste (asiatiche, schiavistiche,
feudali e capitalistiche) tra il 3700aC ed il 1700dC, poco prima dell’inizio della
rivoluzione industriale.
Rimando pertanto i lettori interessati alle pagine di cui sopra, facilmente reperibili
attraverso Internet.138
154
ROBERTO SIDOLI
Ma, discutendo con Costanzo, è emersa soprattutto l’esigenza di verificare sul
campo la validità della teoria dell’effetto di sdoppiamento attraverso la sua “immersione”
nel mare tempestoso della storia del novecento, facendo particolare riferimento
al movimento comunista del secolo passato (e di quello in corso).
Pronti a partecipare, a dissentire ed a criticare?
155
Il movimento comunista del Novecento e dell’inizio del terzo millennio rientra
a pieno titolo, seppur con le sue forti contraddizioni interne ed i gravi errori via via
commessi dai suoi dirigenti, all’interno della tendenza collettivistica e della “linea
rossa” che si è sviluppata dopo il 9000 a.C., fino ai nostri giorni.
Sorto e formatosi a partire da un nucleo fondamentale, alias il partito bolscevico
con la sua pratica di lotta anticapitalista (1903/1917) ed il parallelo processo ed
elaborazione teorica e politica alimentata da Lenin nella stessa fase storica (“Che
fare”, “Quaderni Filosofici”, “Imperialismo” e “Stato e Rivoluzione”); basato su
una versione -nella pratica- attivistica e volontaristica della concezione storicofilosofica
di Marx, il comunismo del “secolo lungo”(Novecento e primi decenni
del terzo millennio) non ha solo rappresentato la tendenza più forte all’interno
del movimento mondiale di lotta contro i rapporti di produzione/distribuzione
capitalistici, contro l’imperialismo ed il nazifascismo, ma dopo il 1917 e l’Ottobre
Rosso esso ha costituito la principale forza propulsiva – seppur tra numerosi errori
e tragedie – del processo di costruzione di relazioni sociali di produzione collettivistiche
(deformate) in buona parte del globo, a partire dall’area geopolitica in
precedenza compresa nell’impero zarista.
Collegando tale dinamica politico-sociale allo schema generale dell’effetto di
sdoppiamento, emergono subito cinque grandi nodi teorico-storici che vanno affrontati
almeno brevemente, ovviamente non pretendendo di esaurirne la notevole
complessità ed auspicando l’avvio di una ampia discussione su di essi all’interno
del movimento antagonista mondiale. Essi riguardano:
– la natura socioproduttiva dell’URSS, dal 1929/30 fino al 1990;
– il regime stalinista (1929/53);
– le ragioni principali del crollo dell’URSS e delle altre nazioni del Patto di
Varsavia, nel 1989/91;
– la natura socioproduttiva della Cina, di Cuba e delle altre nazioni che ancora
si autodefiniscono socialiste all’inizio del Ventunesimo secolo;
– la persistenza dell’effetto di sdoppiamento, dopo la (presunta) fine del comunismo
e la (reale) fine del comunismo di matrice sovietica.
L’EFFETTO DI SDOPPIAMENTO,
L’UNIONE SOVIETICA E STALIN
156
ROBERTO SIDOLI
Per quanto riguarda il primo punto in discussione, molte e variegate tendenze
politiche e tutta una serie eterogenea di intellettuali hanno via via negato con forza,
seppur con argomenti diversi, che l’Unione Sovietica costituisse una formazione
economico-sociale socialista proponendo invece la tesi del capitalismo di stato,
secondo la quale l’URSS avrebbe rappresentato sul piano storico solo una variante
del modo di produzione capitalistico, almeno nei suoi lati centrali. La posta in
palio è alta, perché se l’URSS per assurdo fosse stata realmente un capitalismo sui
generis, in tutto o in gran parte, la teoria dell’effetto di sdoppiamento subirebbe
inevitabilmente un duro colpo, almeno per quanto riguarda l’epoca contemporanea.
Il primo esponente dell’equazione Unione Sovietica = capitalismo (di Stato) non
è altro che il menscevico I. A. Isuv, che la espose già nell’aprile del 1918 e dopo soli
sei mesi dall’avvio della Rivoluzione d’Ottobre, quando ancora esisteva “solo” la
Russia sovietica.
Isuv sostenne sul giornale menscevico Vperiod (25 aprile del 1918) che «priva
fin dall’inizio di un carattere veramente proletario, la politica del potere dei Soviet
si inoltra sempre più apertamente, negli ultimi tempi, sulla via della conciliazione
con la borghesia e assume un carattere chiaramente antioperaio. Sotto la bandiera
della nazionalizzazione dell’industria si persegue una politica di impianto di trust
industriali, con il pretesto di ricostruire le forze produttive del paese si cerca di
abolire la giornata di otto ore, di introdurre il lavoro a cottimo e il sistema Taylor,
le liste nere e i fogli di via. Questa politica minaccia di togliere al proletariato le sue
principali conquiste nel campo economico e di farne la vittima di uno sfruttamento
illimitato da parte della borghesia».139
Già nella primavera del 1918, i “discorsi provocatori della borghesia” (Lenin,
sempre “Sull’infantilismo di sinistra”) alla Isuv venivano ripresi in buona fede dalle
tendenze dei “comunisti di sinistra” (Bukharin, Osinsky, ecc), i quali scrivevano
in polemica con Lenin sulla loro rivista Kommunist che l’introduzione da parte del
potere sovietico «della disciplina del lavoro legata alla reintegrazione di capitalisti
alla direzione della produzione, mentre non può aumentare sostanzialmente la
produttività del lavoro, diminuirà l’iniziativa di classe, l’attività e la capacità organizzativa
del proletariato. Essa minaccia di asservire la classe operaia, susciterà
il malcontento sia degli strati arretrati che dell’avanguardia del proletariato. Per
attuare questo sistema, dato l’odio che regna nei ceti proletari verso i “capitalisti
sabotatori”, il partito comunista dovrebbe appoggiarsi sulla piccola borghesia contro
gli operai e così suicidarsi come partito del proletariato».140
Lo schema interpretativo che valutava/valuta l’URSS come una struttura socioproduttiva
a capitalismo di stato venne ripresa in seguito, in modo autonomo,
anche dall’estrema destra.
B. Mussolini, in un suo discorso agli operai milanesi del 1934, notò che «quello
che si chiama bolscevismo o comunismo non è, oggi, ascoltatemi bene, non è oggi
che un supercapitalismo di stato, portato alla più feroce espressione…».141
157
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
Sul giornale “Il lavoro fascista” si parlò ripetutamente, durante la metà degli
anni Trenta, dell’URSS come una sorta di “capitalcomunismo”; Nicola Bombacci,
dirigente comunista passato nelle file fasciste, a sua volta nella rivista “Verità”
denunciò che l’URSS si era data al capitalismo di stato, trasformandosi in “un immenso
infernale esercito di schiavi”.142
Anche il fascista-aristocratico Julius Evola, nel suo libro “Rivolta contro il mondo
moderno”, proprio nel 1934 scrisse che «in Russia non si era abolito il capitalismo
privato che per sostituirvi un capitalismo di stato: si ha un capitalismo centralizzato
senza capitalisti visibili, lanciato per così dire, in mastodontica impresa a
fondo perduto», in cui ogni operaio è un azionista dello “Stato socialista”, ma che
“tuttavia non riceve dividendi” visto che «prescindendo da quel che gli viene dato
per vivere, il ricavato del suo lavoro va al Partito…».143
Passando invece alla borghesia liberale, non solo essa dopo il 1945 unificò fascismo
e comunismo sotto la categoria comune del totalitarismo, ma alcuni suoi intellettuali
come A. Ronchey, per quanto riguarda il suolo italico, ritennero l’URSS
un capitalismo di stato esasperato. Secondo la posizione espressa da Ronchey nel
novembre 1987, dopo il “diluvio” rivoluzionario del 1917/20 “è affiorata quella
neo-borghesia che si chiamò nomenklatura. G. Plechanov” (un intellettuale marxista
russo, dopo il 1903 su posizioni mensceviche)”predisse che il potere conquistato
con un putich e mantenuto col dispotismo avrebbe generato un socialismo da
impero degli Incas”, tanto che a giudizio del giornalista italiano “l’industrializzazione
mediante il massimo sequestro statale di plusvalore che la storia ricordi, si
deve a Lenin”, e nella scia a Stalin, Chruscev, ecc.144
In Francia uno dei “nuovi filosofi” liberali (ex-marxisti) come B. Henry Levy
scrisse gia nel 1979, nel suo “Il testamento di Dio”, che «d’accordo, il capitalismo
è un orrore. Quando sarà però finalmente chiaro a tutti che una società completamente
priva di proprietari è di nuovo un capitalismo, anzi il peggiore capitalismo,
l’unico capitalismo che, non soddisfatto di sfruttare gli uomini, si impadronisce
perfino del terreno in cui si ancora il loro voler vivere», tutto ormai diventa
chiaro; non a caso, in un passo successivo, Levy affermò chiaramente che “tra il
Kulak e il commissario” (commissario politico comunista) ” non esito a scegliere
il Kulak”.145
Invece nel febbraio del 1946 Virgil Jordan, autorevole presidente della National
industrial Conference Board (una branchia della Confindustria statunitense) e di
sicura fede liberaldemocratica, notò che in Russia sussisteva “un dispotismo asiatico
primitivo” e che la Russia sovietica “era tirannica e imperialistica” : per tanto,
concluse il liberale Jordan, gli USA avrebbero dovuto bombardarla (se un ultimatum
al Cremino non avesse avuto buon esito) con le atomiche, finché i liberi USA
avessero ancora detenuto il monopolio dell’arma nucleare.146
Per quanto riguarda l’estrema sinistra, a giudizio della Sinistra Comunista
(Korsch, Bordiga, Lotta Comunista, ecc.) e di una parte consistente della Nuova
Sinistra degli anni Sessanta/Settanta, del maoismo (rispetto alla realtà sovieti158
ROBERTO SIDOLI
ca dopo la morte di Stalin) e di un settore minoritario del trotskismo, l’Unione
Sovietica risultava essere una variante del capitalismo di stato.
Tale valutazione “iperrivoluzionaria” venne in ogni caso anticipata sia dal
“marxista” Isuv che dal movimento anarchico nella sua quasi totalità, visto che fin
dal luglio 1918 – con Lenin ben vivo e vegeto – la Federazione degli anarchici di
Briansk, nella Russia centrale, invitava il popolo ad insorgere contro i comunisti,
visto che “i social-vampiri” (i bolscevichi) “ti stanno succhiando il sangue” e che
“i bolscevichi stanno diventando monarchici”; con maggiore finezza l’anarchico
A. Maksimov, verso la metà di settembre del 1918, rilevò che «la rivoluzione bolscevica
consisteva semplicemente nella sostituzione del capitalismo privato con
il capitalismo di stato: un unico grande proprietario aveva preso il posto di tanti
piccoli proprietari».147
Da Evola agli anarchici, un filo comune: l’URSS era forma di capitalismo di stato,
non certo socialismo. Ma avevano ragione?
Come aveva rilevato Marx, solo la pratica può risolvere le questioni teoriche:
pratiche quali i concreti processi che si svolgono nei reali (non presunti ed immaginari)
capitalismi di stato contemporanei, formatisi a partire dal 1914/29, subito
paragonati e confrontati con le (opposte) dinamiche che si erano create invece in
URSS rispetto ai rapporti sociali di produzione/distribuzione.
Infatti ogni capitalismo ed ogni capitalismo di stato – l’Italia del 2010, gli Stati
Uniti del 2010, la Germania del 2010, ecc. rientrano a pieno titolo nella categoria
del capitalismo monopolistico di stato – ha in comune che il “fondo di accumulazione”
(Marx, Il Capitale) sia in gran parte e con piena legittimità in mano ai privati-
capitalisti, sotto forma individuale o di soci/azionisti; ha in comune che i mezzi
di produzioni sociali, ivi comprese banche/assicurazioni, siano in gran parte in
possesso di capitalisti, grandi e piccoli.
Ma in Unione Sovietica, dal 1929/30 fino al 1989/90, era scomparso proprio il
fondo privato di accumulazione detenuto legalmente dai capitalisti, i cui “ultimi
mohicani” in terra sovietica furono i nepman della città ed i kulak, i contadini ricchi
che assumevano forza-lavoro salariata e si dedicavano spesso all’usura, espropriati
entrambi da Stalin senza alcun riguardo nel 1928/30.148
Non è una differenza da poco.
Inoltre ogni forma di capitalismo di stato -meglio ripetere che l’Italia del 2010,
gli Stati Uniti del 2010, ecc. rientrano a pieno titolo nella categoria del capitalismo
monopolistico di stato- ha in comune che gran parte del settore commerciale, da
Wal-Mart e Standa fino al negozietto con un salariato in nero, sia nelle mani dei
privati-capitalisti, sotto forma individuale o di soci-azionisti.
Nell’Unione Sovietica , del 1929/30 fino al 1990, la situazione risultava totalmente
diversa, ed anche questa non è certo una differenza da poco.
Ogni capitalismo di stato – l’Italia del 2010, gli Stati Uniti del 2010, ecc. rientrano…
– ha anche come elemento comune che gran parte della proprietà del suolo
risulti in possesso dei privati, soprattutto nelle mani dei grandi proprietari fon159
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
diari sotto forma individuale o di società collettiva. Fin dal novembre del 1917,
invece, con il primo decreto elaborato da Lenin la terra era stata nazionalizzata ed
era stata “abolita per sempre ” “ogni proprietà privata” sul suolo, sui boschi, sulle
acque, sul sottosuolo, e la situazione concreta non cambiò fino al 1991: anche in
questo caso non si trattò certo di una differenza insignificante rispetto alla opposta
realtà del capitalismo di stato italiano, statunitense, ecc, che è tuttora sotto i nostri
occhi, con il possesso/sfruttamento di miniere e fonti energetiche da parte delle
multinazionali e le speculazioni edilizie attuate su larga scala dai grandi proprietari
fondiari.
Ogni capitalismo di stato è segnato anche dall’esportazione di capitali (industriali
e/o bancari) nelle altre nazioni, da filiali delle proprie multinazionali che
operano all’estero, ed in senso inverso dalla presenza di multinazionali straniere
sul proprio suolo. Ora, dove erano le banche sovietiche a New York, Tokio,
Francoforte, ecc.? Quali multinazionali sovietiche sfruttavano i lavoratori occidentali?
Ogni capitalismo di stato – l’Italia del 2010, gli Stati Uniti del 2010,ecc rientrano…
– prevede, sia legalmente che sul piano concreto, la trasmissione ereditaria
della proprietà privata dei mezzi di produzione, ivi comprese azioni e partecipazioni
in società industriali/commerciali, oltre che della terra: è appena il caso di
rilevare che il processo di trasmissione ereditaria dei mezzi di produzione e del
suolo non esistette nell’URSS dopo il 1928/30 e fino al 1991, nel presunto capitalismo
di stato sovietico.
Ogni capitalismo di stato – l’Italia del 2010, gli Stati Uniti del 2010, rientrano…
– prevede infine, sia legalmente che sul piano concreto processi di compravendita
sia dei mezzi di produzione, ivi comprese le azioni, che del suolo. Conoscete forse
la Borsa sovietica? Non si può, perché non esistette mai:ed anche queste non sono
differenze da poco, rispetto alle pratiche concrete e reali del capitalismo di stato
che tocchiamo con mano nell’Italia di oggi, negli Stati Uniti del 2010, ecc.
Se il reale capitalismo monopolistico di stato che si è via via formato dopo il
1914/29 (e molto prima in Giappone) negli USA, in Italia, ecc., fosse contraddistinto
anch’esso dal carattere minoritario e residuale della proprietà privata dei
mezzi di produzione; dall’assenza o quasi di banche private; dall’assenza di proprietà
privata del suolo; dall’assenza di trasmissione ereditaria della proprietà dei
mezzi di produzione/azioni/suolo; dall’assenza di borse-valori e di processi di
acquisizioni/vendita dei mezzi di produzione… se tutto ciò fosse vero, il presunto
capitalismo di stato sovietico sarebbe risultato molto simile ai reali capitalismi di
stato italiani, statunitensi, britannici, ecc. che si sono sviluppati dal 1914/19 fino
ad oggi, e che vediamo ogni giorno in azione con i nostri occhi. Ma la realtà parla
un linguaggio diverso.
Non sono certo delle astrazioni l’impero della famiglia Walton (Wal-Mart) e di
W. Buffett, gli imperi mediatici di Murdoch e Berlusconi, gli azionisti di riferimento
che controllano ad esempio Morgan Stanley e Goldman Sachs: il primo trucco
160
ROBERTO SIDOLI
dell’equazione URSS=capitalismo di stato consiste nel far scomparire dalla categoria
di capitalismo di stato proprio … il capitalismo ed il processo di accumulazione
da parte di privati-capitalisti , il fondo di accumulazione detenuto dai capitalisti
privati, la trasmissione ereditaria da parte dei capitalisti dei loro fondi di accumulazione
privati e la compravendita tra privati delle azioni/mezzi di produzione, in
sostanza l’essenza anche del capitalismo di stato, reale e concreto.
Il secondo trucco da prestigiatore è ovviamente quello di cercare di far dimenticare
che nel mondo occidentale, a partire dal 1914/29, si sono realmente formati
dei concreti capitalismi di stato, nei quali vivono ancora oggi i lavoratori europei,
statunitensi e giapponesi.
I due “trucchi” emergono con ancora maggiore evidenza quando si analizzano
quattro pratiche sociopolitiche che contraddistinguono proprio il reale e concreto
capitalismo di stato, e cioè :
– la socializzazione delle perdite (dei capitalisti) e la privatizzazione dei profitti
grazie ai fondi statali, in caso di crisi;
– la concessione di lucrosi appalti ai privati-capitalisti da parte degli apparati
statali;
– le commesse ed i profitti ottenuti dai monopoli privati, che dominano i
complessi militar-industriali dei capitalismi monopolistici di stato sparsi in
tutto il mondo;
– i finanziamenti pubblici alla ricerca scientifico-tecnologica delle imprese
private.
Si pensi solo alla gravissima crisi finanziaria che ha attanagliato il reale capitalismo
di stato mondiale, a partire dalla fine del 2007. Non solo le banche private
delle metropoli imperialistiche hanno ottenuto degli enormi fondi statali a fondo
perduto, al fine di salvarsi dal crollo, ma nel corso del 2009, come ha ammesso
persino l’insospettabile Corriere della Sera (14 settembre 2009) citando l’economico
di Harvard K. Rogoff, l’alta finanza e le grandi banche private dell’Occidente
«hanno fatto grandi utili investendo ovunque fondi presi abbondantemente a prestito
dalle banche centrali a tasso zero (negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) o poco
più (nella zona-euro). L’aumento del 67 % dei profitti da “trading” finanziario di
Goldman Sachs nei primi dei mesi del 2009 , rispetto a un anno fa, può essere la
spia che Rogoff ha ragione».149
I maggiori istituti finanziari privati del pianeta hanno ottenuto in tal modo due
obiettivi simultanei, socializzare le loro perdite ed aumentare i profitti con fondi
pubblici: è appena il caso di notare che nell’Unione Sovietica il potente meccanismo
sopra delineato, vero e proprio segno distintivo del reale capitalismo di stato,
non esisteva proprio per…mancanza delle banche private, capaci e desiderose di
far socializzare le loro perdite e di privatizzare i profitti con risorse statali.150
Negli ultimi anni anche i nomi di alcune società private statunitensi, impegnate
nel settore militar-industriale come Halliburton e Blackwater, sono diventati molto
161
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
noti per i loro lucrosi rapporti con l’amministrazione di Bush junior:tali “relazioni
particolari”, che riguardano ovviamente anche gli altri monopoli del complesso
militar-produttivo, (Lockeed, General Dynamics, ecc.), non sussistevano in URSS
sempre per l’assenza… di capitalisti ed imprese private che in URSS vi accumulassero
profitti, grazie alle commesse militari dello stato. Lo stesso ragionamento vale
anche per i finanziamenti pubblici destinati alla ricerca-tecnologica e fornite alle
(inesistenti) multinazionali private dell’Unione Sovietica.
Il processo di accumulazione di importanti differenze socioproduttive tra le
dinamiche del reale capitalismo di stato, nelle sue varianti italiana, statunitense,
francese, ecc., e quella invece insita nel presunto e fantasmagorico”capitalismo di
stato” sovietico supera ormai qualunque dubbio ragionevole: se il capitalismo di
stato reale trova una delle sue principali diversità con il capitalismo non di stato
proprio nel meccanismo (Ernesto Rossi) della socializzazione delle perdite e della
privatizzazione dei profitti, mentre la formazione economico-sociale sovietica invece
non era segnata da esso, l’equazione URSS = capitalismo di stato riceve un
ulteriore colpo demolitorio.
Infine, ma non certo per importanza, dal 1930 al 1990 l’Unione Sovietica venne
contraddistinta continuamente dall’assenza totale di disoccupazione e di crisi
generali di sovrapproduzione, due fenomeni invece tipici del capitalismo/capitalismo
di stato. Per quale motivo, se anche l’URSS rientrava nella categoria del
capitalismo di stato?
I sostenitori della teoria del capitalismo di stato sovietico hanno spesso sostenuto
che sia i dirigenti del PCUS (partito comunista dell’Unione Sovietica), che i
manager delle imprese di stato sovietiche godessero di un tenore di vita materiale
molto superiore a quello degli operai/impiegati/contadini del gigantesco paese
eurasiatico, e che proprio il superiore fondo di consumo (Marx, Il Capitale) dei
primi li rendesse simili alla borghesia ed ai capitalisti del mondo occidentale: tesi
ripresa fin dagli anni Trenta, con qualche differenza, da autori come L. Laurat, S.
Weil e B. Rizzi, per i quali la “burocrazia” sovietica era una classe sfruttatrice, ma
non propriamente di tipo capitalistico.
Ricordando che l’assenza sia di un fondo di accumulazione privata, che della
sua trasmissibilità agli eredi, renderebbe in ogni caso la presunta “borghesia di
stato” sovietica un pallido emulo dei suoi presunti fratelli di classe occidentali,
l’argomento in oggetto naufraga per altri tre motivi fondamentali.
Innanzitutto per il carattere ridotto e limitato dalla differenziazione tra alti dirigenti
del PCUS e operai/impiegati sovietici, fra i direttori di impresa sovietici e la
forza-lavoro delle imprese dirette da questi ultimi.
Nelle metropoli capitaliste, i grandi capitalisti e gli azionisti di riferimento dei
principali monopoli e banche ottengono in media dei redditi superiori di almeno
mille volte a quelli dei loro operai, mentre i manager di alto livello godono di un
differenziale almeno di cento a uno rispetto ai salari dei dipendenti delle aziende
da loro dirette, senza tener conto dei (frequenti) bonus speciali da loro percepiti, in
162
ROBERTO SIDOLI
termini di opzioni di acquisto a prezzi eccezionali delle aziende da loro dirette e di
partecipazioni personali ai loro utili.
Facciamo invece i “conti della serva” agli alti dirigenti del PCUS, agli inizi degli
anni Ottanta, prendendo in esame il reddito reale di un responsabile di un settore
operativo del Comitato Centrale del partito, e cioè di un funzionario inserito allora
a pieno titolo nei primi centocinquanta uomini più potenti della nomenklatura
sovietica, dei quadri dirigenti del paese e della presunta “borghesia di stato” del
paese; per avere subito un termine di paragone, nel 1979/83 un operaio sovietico
guadagnava in media 180 rubli al mese e 60 rubli di salario differito (prezzi politici
per luce, gas, trasporti pubblici, generi alimentari di prima necessità) percepiti da
tutti i cittadini sovietici.
Secondo l’arci-antisovietico A. Voslensky, ferocemente critico verso il potere
sovietico ed accanito sostenitore dell’equazione URSS=capitalismo di stato, il reddito
mensile di un alto funzionario dell’apparato centrale del Comitato Centrale
del PCUS agli inizi degli anni Ottanta risultava pari all’astronomica cifra di 450
(quattrocentocinquanta) rubli mensili. Mettendo assieme tutti i fringe-benefits di
cui usufruiva questo alto funzionario, e alto esponente della presunta “borghesia
di stato” sovietica, Voslensky tirò «la prima conseguenza: un caposettore del C.C.»
(comitato centrale del PCUS) «guadagnava, in realtà, 750 rubli al mese, cinque
volte più dell’operaio ed impiegato sovietico».151
Cinque volte più dell’operaio (quattro, se invece si tengono conto dei fondi sociali
di consumo goduti da ogni lavoratore sovietico): un fondo di consumo miserabile
per uno dei membri più autorevoli della presunta “borghesia di stato” sovietica,
per uno dei 150 uomini più potenti del paese che era, secondo la teoria del
capitalismo di stato, pienamente inserito negli strati più alti della presunta “nuova
classe sfruttatrice” sul piano socioproduttivo.
Un appartamento spazioso, una dacia, ed una macchina di servizio, uno stipendio
superiore alla media: il quadro emesso dalla radiografia del fondo di consumo
e dei privilegi detenuti da uno dei più alti della nomenklatura sovietica era così
sconfortante, almeno per l’equazione URSS=capitalismo di stato, che persino l’antisovietico
Voslensky era stato costretto a rilevare che «qualche lettore occidentale
dirà: ebbene? Un appartamento di quattro stanze, una casa fuori città, un terreno,
un auto di servizio, una pensione di 270 DM» (marchi) «al mese. Non è male, ma
non è certo la ricchezza».152
A questa frase c’è poco da aggiungere…
E il più grande “capitalista di stato” dell’URSS di quel periodo, L. I. Breznev?
Avendo in mano il possesso reale (se non la proprietà giuridica) di un sesto del
globo, assieme all’Ufficio Politico ed a poche centinaia di alti quadri del partito e
degli apparati statali, almeno secondo la teoria del capitalismo di stato sovietico,
il leader indiscusso del potere sovietico guadagnava negli anni Settanta/Ottanta
l’astronomica somma di 900 rubli al mese, contro gli 800 percepiti dagli altri membri
dell’Ufficio Politico: anche secondo uno storico dichiaratamente anticomunista
163
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
come A. Graziosi, i fringe-benefits della loro carica (cibo gratuito dai magazzini
speciali del KGB, altre cariche stipendiate di varia natura, ecc.) portarono al massimo
a triplicare il reddito reale dei circa 15 membri dell’Ufficio Politico, facendo
loro raggiungere quota 2500 rubli, 10 volte lo stipendio reale dell’operaio sovietico
in quel periodo. 153
Un divario eccessivo, non c’è dubbio; ma sotto un altro e decisivo aspetto, si
tratto di un fondo di consumo assurdamente basso per i (presunti) più grandi “capitalisti”
dell’Unione Sovietica, per l’elite indiscussa della (presunta) borghesia di
stato e della presunta classe sfruttatrice dell’enorme paese eurasiatico. Negli stessi
anni, un salumiere della Brianza o della Baviera godeva di un potere d’acquisto
e di un fondo di consumo individuale almeno pari a quello dei (presunti) grandi
capitalisti di uno stato con quasi trecento milioni di persone, tra l’altro capaci di
concentrare – almeno secondo la teoria del capitalismo di stato made in URSS – le
ricchezze di quest’ultima in poche mani e nella fascia superiore della nomenklatura.
In secondo luogo, la presunta “borghesia di stato” sovietica non aveva alcuna
garanzia di una stabile riproduzione del proprio potere, anche ai suoi livelli superiori,
viste le periodiche epurazioni che colpivano gli strati alti della nomenklatura,
facendo si che i privilegi speciali di cui essa godeva, “dipendendo dalla funzione”
da essa svolta concretamente come dirigenti politici e solo finche essi rimanevano
quadri politici, “non erano garantiti” (Graziosi) né a vita, e spesso neanche nel
medio periodo.154
Basta solo pensare alle sanguinose purghe eseguite da Stalin, tra il 1936 ed il
1952, anche e specialmente contro ogni livello della nomenklatura sovietica; oppure
che, con Chruscev al comando, vennero allontanati (senza spargimenti di
sangue) dalle posizioni di potere molti dei più alti quadri dirigenti civili e militari
(Molotov, Malenkov, Serov, Zhukov, ecc.), mentre tra il 1961/62 vennero epurati
circa 145000 funzionari ai più vari livelli per reati di corruzione, concussione ed
appropriazione indebita.155
Se si passa alla nuova direzione gorbacioviana, tra il 1986 ed il 1989 vennero allontanati
a loro volta dalle cariche politiche detenute in precedenza circa l’85%’ ed
i cinque sesti dei vecchi membri del Comitato Centrale, ben il 90,8% dei segretari
regionali del partito ed l’82% di quelli cittadini e distrettuali: una pacifica ecatombe
di funzionari ed alti quadri, che si scontra (come le altre purghe) frontalmente
con la teoria che vede la nomenklatura sovietica nelle vesti di una “casta sfruttatrice”
stabile, capace di consolidarsi nel tempo.156
In terzo luogo, gli alti dirigenti ed i funzionari del partito non riuscivano quasi
mai ad introdurre la loro amata prole nelle fila della nomenklatura, ai suoi livelli
superiori: da Stalin fino a Gorbaciov, quasi tutti i membri del Politburo e del
Comitato Centrale risultarono invece figli di operai e contadini, spesso loro stessi
operai, diventati in seguito funzionari abili al punto giusto da scalare le vette del
potere sovietico.157
164
ROBERTO SIDOLI
Detto in altri termini, i figli di Stalin, Malenkov, Chruscev, Breznev, Andropov
e Cernenkov non diventarono mai alti dirigenti del PCUS, come del resto avvenne
alla prole di decine di migliaia di altri esponenti della nomenklatura del partito e
degli apparati statali.
Con un’asimmetria di reddito modesta, se paragonata alle reali classi sfruttatrici
del passato e del presente, rispetto al livello di vita dei produttori diretti; non
garantita nei suoi modesti privilegi sociopolitici ed impossibilitata quasi in ogni
caso a trasmetterli ai figli, la nomenklatura sovietica risultava distante anni luce
dalla reale borghesia (Buffet, Walton, Berlusconi) che egemonizza i reali capitalismi
di stato, non solo rispetto al fondo di accumulazione ed al possesso dei mezzi
di produzione ma anche al fondo di consumo. Non a caso una sezione minoritaria,
ma consistente dei quadri del PCUS e dei manager delle aziende ricorse via via
allo strumento illegale e rischioso, ma potenzialmente lucroso, dell’appropriazione
illecita di fondi e mezzi di produzioni statali e della connessione organica con
i trafficanti e gli speculatori che operavano clandestinamente nell’URSS: si formò
in tale modo il reale capitalismo di stato nella particolare variante sovietica, un
settore socioproduttivo consistente – seppur nettamente subordinato all’egemone
“linea rossa”, ed ai rapporti produzione/distribuzione collettivistici – su cui tornerò
in seguito.
L’ultima “prova del nove” deriva proprio dalle gigantesche trasformazioni dei
rapporti sociali di produzione che si sono verificati nella Russia post-comunista,
tra il 1992 ed il 2002: la teoria del capitalismo di stato sovietico non può infatti
spiegare ed interpretare in alcun modo i giganteschi processi di privatizzazione
dei mezzi di produzione, delle fonti energetiche e delle risorse naturali verificatisi
in tutta l’area ex-sovietica, a partire dalla Russia di Eltsin e Putin, con la creazione
al suo interno di una borghesia reale, in carne e ossa ed egemone ad ogni livello.
Ammettendo per un attimo valida l’equazione URSS=capitalismo di stato, per
quale arcana ragione era necessario avviare un enorme e plateale processo di privatizzazione
di quei beni pubblici che, stando alla teoria in esame, erano già prima
in possesso di una ristretta oligarchia e dello strato superiore della nomenklatura?
Perché privatizzare ricchezze e mezzi di produzione, di cui la (presunta) borghesia
di stato sovietica aveva già prima il possesso reale, stando almeno alla tesi in via
di esame critico?
Ed ancora: visto che nessuno può negare che la Russia post-sovietica sia una
struttura economica dominata dal capitalismo di stato, come si spiegano (sempre
secondo la teoria del capitalismo di stato sovietico) le enormi differenze che la realtà
socioproduttiva post-comunista rivela rispetto alla fase precedente dell’URSS,
all’era del socialismo reale? Come si spiegano i fenomeni citati nel precedente capitolo
del mio contributo, quali l’apparire e consolidarsi di una classe di miliardari
russi ancora più sfacciati nelle loro ostentazioni del lusso dei loro “cugini”
occidentali, le continue compravendite di aziende ed azioni (elementi materiali
prima sconosciuti in URSS), la creazione delle diverse borse-valori russe e l’enor165
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
me quota della ricchezza globale della Russia accumulata dalla nuova borghesia
russa, collegata strettamente ai nuovi nuclei dirigenti al potere? Oppure quell’immane
processo di privatizzazioni delle risorse pubbliche russe, attraverso il quale
i “nuovi ricchi” sotto Eltsin potevano con soli mille dollari “comprare proprietà
ed attività dello stato russo del valore contabile di 300 mila dollari”, come notò
Monde Diplomatique nel gennaio del 1993 ed in piena era post-sovietica? Troppe
differenze importanti sussistono tra la formazione economico-sociale sovietica del
1929/90, e quella invece post-sovietica del 1992/2010: un capitalismo di stato reale,
contraddistinto da plateali ed evidenti rapporti di collaborazione tra la grande
maggioranza dei monopoli privati, russi o stranieri, e gli apparati statali, segnato
da relazioni “speciali” via via cristallizzatesi tra banche e grandi imprese private
da un lato, e nuclei dirigenti russi (sia sotto Eltsin, che con Putin e Medvedev)
dall’altro.
Come si è già accennato nel terzo capitolo, la complessa e variegata formazione
economico-sociale sovietica del 1929/90 era caratterizzata dall’egemonia esercitata
al suo interno dalla “linea rossa”, dai rapporti di produzione collettivistici (di
matrice statale e cooperativa, come nel caso dei colcos): tutti gli elementi materiali
forniti in precedenza contro l’equazione URSS=capitalismo di stato, si trasformano
ovviamente in argomenti a favore dell’importanza e centralità delle relazioni di
produzione socialiste (deformate) nell’economia sovietica, a partire dalla proprietà
statale del suolo delle banche e dell’industria, dall’assenza di compravendita o
trasmissione ereditaria dei mezzi sociali di produzione e della terra, ecc.
Circa quattro quinti del processo di produzione sviluppatosi tra il 1930 ed il
1990, nella variegata formazione economico-sociale sovietica, risultarono sotto
l’egemonia della ” linea rossa” ivi compresi i colcos (le cooperative rurali): ma
sussisteva anche un’altra sezione, minoritaria seppur consistente, dell’economia
sovietica in cui vigevano delle forme alternative di rapporti sociali di produzione
e di distribuzione.
Le tipologie principali che costituivano questo particolare settore socioproduttivo
erano quattro:
1) gli appezzamenti privati utilizzati legalmente dai contadini dei colcos, che
fornivano circa un terzo della produzione di carne e frutta del paese; al loro
interno ciascuna famiglia produceva autonomamente e per proprio conto,
seppur sempre in presenza della proprietà statale del suolo;
2) l’economia sommersa (paralegale e tollerata) dall’URSS, nella quale operai,
impiegati ed intellettuali sovietici impiegavano una parte del loro tempo
libero erogando servizi di varia natura (prestazioni sanitarie, riparazioni,
ecc), costruendo per conto proprio le loro dacie rurali, procurandosi direttamente
dalle campagne generi alimentari difficili da trovarsi, allestendo edifici
residenziali da loro poi abitati, ecc.;
3) le “mafie” sovietiche, dedite al traffico su larga scala ed alla speculazione
sui beni di consumo, al cambio illegale di valute occidentali e soprattutto
166
ROBERTO SIDOLI
all’appropriazione illecita dei fondi pubblici e dei mezzi sociali di produzione,
statali oppure cooperativi, in stretta connessione con la parte corrotta
dei manager e dei funzionari del PCUS: spesso creando delle “reti di piccole
aziende clandestine” (Graziosi), germogli dell’accumulazione primitiva capitalistica
4) la sezione minoritaria, ma consistente dei dirigenti d’azienda e dei quadri
politici della nomenklatura sovietica impegnati in attività economiche illegali,
nell’utilizzo clandestino per scopi di accumulazione privata sia delle risorse
naturali del paese che dei fondi pubblici e del capitale fisso delle aziende
di stato/cooperative: o direttamente ed in prima persona, oppure facendosi
corrompere dai gruppi criminali del paese dediti a pratiche produttive illecite,
sopra menzionati.
Come aveva già notato la sociologa sovietica T. Zaslavskaja nei primi anni
Ottanta, la “linea nera” (subordinata e minoritaria, ma consistente) in URSS, la
reale variante sovietica del capitalismo di stato all’interno della variegata formazione
economico-sociale in esame era formata proprio dalla connessione, via via
sviluppatasi, tra le mafie protocapitalistiche ed i segmenti corrotti dell’apparato
politico-statale della gigantesca nazione eurasiatica: il vero settore (minoritario).
del capitalismo di stato in terra sovietica, molto diverso da quello immaginato dai
vari Bordiga, Ronchey, Evola, ecc.158
Il “connubio” mafia-burocrazia corrotta si era formato su larga scala fin dalla
metà degli anni Quaranta, arginato e combattuto solo in parte da Stalin e da
alti quadri del partito come A. Kuznecov (eliminato in seguito dallo stesso Stalin).
Nelle difficilissime condizioni materiali del dopoguerra, «l’arte di arrangiarsi, ormai
da anni indispensabile alla sopravvivenza, aveva contagiato tutta la piramide
sociale. Stalin era regolarmente informato dello stile di vita dei suoi collaboratori,
dei loro festini, delle bottiglie che vi si bevevano e così via, e sapeva bene che la
corruzione economica dei dirigenti intermedi già conosceva “proporzioni assai vaste”.
Kuznecov cercò di porvi rimedio mettendo fine ai premi e ai benefici offerti ai
quadri del partito dalle altre amministrazioni, nonché alle appropriazioni indebite,
di prodotti agricoli, materiale e forza lavoro, su cui, specie in provincia, si fondava
il benessere dei signorotti locali.
Dal 1945 al 1947 quasi il 40% degli espulsi dal partito lo fu per corruzione, degenerazione,
dissolutezza, ubriachezza e condotta disordinata (rispetto a un 30%
accusato di aver vissuto nei territori occupati senza combattere)».159
La connessione dialettica tra queste due sotto-sfere dell’economia sovietica
continuò anche negli anni Cinquanta e Sessanta, tanto che Chruscev nel 1960/62
scatenò una lunga campagna politico-giudiziaria contro i “peculiari imprenditori
privati” (Graziosi) e i quadri politici/ manager corrotti: i casi di corruzione, concussione
e appropriazione indebita da parte di funzionari, poco meno di 40mila
167
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
nel 1956 e scesi nel 1959 a meno di 28mila, balzarono così nel 1961 a 63.400 e a
73.350 nel 1962.
A. Graziosi ha notato che il bersaglio principale della nuova campagna era
l’economia sommersa, «sviluppatasi ai margini dell’economia ufficiale, di cui si
nutriva. Tuttavia, non va dimenticato che di regola lo sviluppo della prima dipendeva
dall’incapacità della seconda di far fronte ai bisogni dei cittadini e che
quindi l’economia “nera” era parte integrante del sistema sovietico, al cui funzionamento
contribuiva smussandone le asperità e colmandone anche se solo in parte
e in maniera distorta, le lacune. Accanto ai funzionari corrotti, che affidavano la
distribuzione dei beni scarsi da loro controllati a canali diversi da quelli ufficiali,
c’erano anche peculiari imprenditori privati . I più intraprendenti , che in altri paesi
sarebbero diventati grandi capitani di industria, riuscivano a mettere in piedi ,
in condizioni difficilissime, reti di piccole aziende clandestine la cui pochezza era
un’altra testimonianza dello spreco di energie umane proprio del sistema sovietico.
Il bisogno di procurarsi illegalmente materie prime e semilavorati li spingeva a
legare con funzionari corrotti, mentre quello di ricorrere solo a denaro liquido e a
promesse di pagamento, e quindi a persone in grado di farle rispettare, li poneva
in contatto con il mondo della malavita. Simis ha parlato della presenza di clan
famigliari, spesso appartenenti alle minoranze ebree o caucasiche, proprietari di
dozzine di fabbrichette e di reti di vendita tentacolari, nelle quali erano investiti
milioni di rubli. Le loro attività avevano talvolta avuto origine dopo la guerra, a
partire dal commercio dei beni presi ai paesi vinti, e si erano poi sviluppate nel
settore dei servizi e nella produzione dei beni di consumo.
Tra i settori colpiti nel 1961 vi fu quello dei cambiavalute illegali, che compravano
i dollari a un tasso di diverse volte superiore a quello ufficiale, fornendo così
implicitamente un coefficiente di deflazione, certo impreciso ma migliore di tante
stime ufficiali, utile a calcolare le dimensioni effettive dell’economia sovietica. Essi
erano alimentati dal crescente flusso di turisti e dalla comunità di studenti stranieri,
specie del Terzo mondo, presenti nel paese. Le aperture seguite al 1956 fecero
cioè emergere i primi segni di una nuova dollarizzazione dell’economia sovietica
destinata ad assumere negli anni dimensioni sempre più vaste, a testimonianza
dello spontaneo movimento di individui e agenti economici verso relazioni più
rispondenti alle loro preferenze di quelle imposte dal regime, in base alle sue priorità
e alle sue considerazioni di status».160
La pratica relativamente diffusa dell’appropriazione indebita di fondi e di mezzi
statali, e della parallela produzione/distribuzione illegale di mezzi di consumo,
continuò con ancora maggiore vigore nell’epoca brezneviana, dato che la base materiale
della «diffusione di questi comportamenti era la maglia di una rete che si
estendeva dai favori reciproci che regolavano il lavoro di funzionari e dirigenti (ed
erano spesso loro necessari per mandare avanti le loro imprese) e dalla corruzione
di molti di essi fino alle attività illegali e criminali». Essa minava le fondamenta del
concetto di proprietà pubblica e alimentava sentimenti anticomunisti: già nel 1970,
168
ROBERTO SIDOLI
in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Lenin, «circolarono
tra la popolazione battute crudeli sul fondatore dello stato sovietico, che spinsero
alcuni osservatori occidentali a parlare del prevalere in URSS di rassegnato pessimismo
e passività ideologica».161
Ostacolata a priori dal suo carattere illegale; ben conosciuta dai servizi segreti
sovietici; frenata dalla presenza molto diffusa, almeno fino al 1987/88, di “veri credenti”
(Graziosi) comunisti nelle file del partito e di onesti funzionari/manager;
indebolita carsicamente dalle epurazioni periodiche della nomenklatura (eccetto
che nel 1973/81), e dalle dure condanne inflitte sia agli speculatori che alla sezione
corrotta della nomenklatura, la “linea nera” imperniato sul particolare capitalismo
di stato sovietico rappresentò in ogni caso un segmento relativamente consistente
all’interno del processo produttivo sovietico. Probabilmente contava nel fino al 4%
sul totale di quest’ultima, in varie forme e da diversi livelli, mentre l’insieme del
settore privato legale (piccoli appezzamenti dei contadini) e dell’economia sommersa
para-legale pesava invece attorno al 15% del reddito nazionale, secondo gli
stessi dati ufficiali sovietici degli anni Ottanta.
La coesistenza (asimmetrica) di rapporti di produzione collettivistici (egemoni),
e di quelli capitalistici di stato (illegali e subordinati) nell’URSS del 1930/90,
rappresenta involontariamente una manna dal cielo per lo schema generale dell’effetto
di sdoppiamento che, inteso come possibilità di coesistenza (in proporzioni
quasi sempre asimmetriche) della “linea rossa” e della “linea nera” nello stesso
paese/area geopolitica, fornisce la chiave teorica per comprendere i presupposti e
la dinamica socioproduttiva dell’Unione Sovietica.
Per la teoria in discussione, la presenza consistente della “linea nera” tra il 1930
ed il 1990, seppur subordinata fino al 1990 agli egemoni rapporti sociali di produzione
socialisti, costituisce infatti un ulteriore elemento di conferma e di verifica
empirica: in presenza di determinati livelli qualitativi di sviluppo delle forze
produttive, variabili e materiali a partire dal 1929/30 fino ad arrivare al 1990,
l’esperienza concreta dimostra come fosse possibile anche in Unione Sovietica la
riproduzione, sia a livello potenziale che reale, di relazioni sociali di produzione
capitalistiche (di stato) e di forze/attori sociali dediti allo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, durante i sei decenni presi in esame; soggettività e pratiche già allora
capaci di creare, seppur in presenza sfavorevoli rapporti di forza politico-sociali,
un’alternativa socioproduttiva alla “linea rossa” risultata invece dominante fino al
1990.
Si è già chiarito in precedenza che l’esperienza post-sovietica del 1992/2010
prova chiaramente come, sempre con un livello di sviluppo delle forze produttive
sostanzialmente equivalente a quello esistente nell’area russa dell’Unione Sovietica
durante gli anni Ottanta, fosse e sia tuttora possibile e praticabile l’affermazione di
rapporti di produzione capitalistici (di stato), alternativi e divenuti centrali grazie
ad Eltsin/Cubais rispetto a quelli socialisti (deformati) che egemonizzarono fino al
1990/91 la variegata formazione economica-sociale sovietica. Ora abbiamo un al169
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
tro dato di fatto su cui ragionare. Proprio il reale radicamento (limitato e contrastato,
visto i rapporti di forza politici allora sfavorevoli per la protoborghesia sovietica)
della “linea nera” e del connubio tra mafia e nomenklatura corrotta, dal 1930
al 1990, costituisce il segno concreto e inequivocabile di come anche nell’URSS di
quel tempo, con i livelli di sviluppo delle forze produttive raggiunti via via nel gigantesco
paese eurasiatico dal 1930 fino al 1990, fosse praticabile simultaneamente
una via socioproduttiva alternativa a quella realmente seguita, fosse possibile e
praticabile anche allora una scelta strategica capitalistica (di stato), come quella
progettata/praticata dai vari Eltsin, Cubais e Gaidar dopo il 1991.
Facciamo infine un po’ di ucronia, di “storia con i se”.
Se un ipotetico emulo di Eltsin avesse preso il potere in Russia ed in URSS nel
1940, nel 1960 o nel 1980; se Hitler ed il nazifascismo avessero sciaguratamente
sconfitto la resistenza eroica del popolo sovietico; se forze politiche anticomuniste
avessero ottenuto il controllo dell’apparato statale del paese prima/ molto prima
del 1990, la “linea nera” socioproduttiva sarebbe subito diventata egemone nel gigantesco
paese asiatico, mostrando prima /molto prima del 1991 la persistenza di
un ulteriore sottoprodotto dell’effetto di sdoppiamento, la reversibilità potenziale/
reale dei rapporti di produzione classisti in quelli collettivistici, e (purtroppo)
viceversa.
Non si tratta di mere supposizioni, ma di un ipotesi suffragata proprio dalla
nuda, inequivocabile e continua riproduzione del (particolare e subordinato) capitalismo
di stato e dei suoi “peculiari imprenditori privati” (Graziosi), già nell’URSS
del 1930/1990.
Sempre in questa direzione va anche l’analisi della situazione creatisi nelle zone
sovietiche occupate dall’imperialismo tedesco, tra il 1941 ed il 1944, nelle quali i
predoni nazisti (tra tanti altri orrori) promossero uno spietato “sfruttamento coloniale”
(R. Overy) e sostituirono la proprietà collettiva dei mezzi di produzione
e dei colcos sovietici con l’appropriazione di buona parte delle risorse materiali e
delle fabbriche russe, bielorusse ed ucraine ad opera dei monopoli privati tedeschi
e dell’apparato militare tedesco.162
Ancora una volta emerse la reversibilità potenziale/reale delle diverse relazioni
sociali di produzione, sia collettivistiche che classiste. Dopo la liberazione
(1943/44) da parte dell’Armata Rossa delle zone sovietiche occupate in precedenza
dai nazisti, i rapporti di proprietà capitalistici creati dal Terzo Reich in Unione
Sovietica si squagliarono come neve al sole in una (rossa) primavera, venendo distrutti
in un solo istante con la reintroduzione del potere sovietico nelle aree invase
dall’ imperialismo tedesco: effetto di sdoppiamento, ancora una volta.
A questo punto posso affrontare brevemente altri nodi teorici e storici, riservando
ad un futuro manoscritto una loro trattazione almeno parzialmente esaustiva,
partendo dai difetti evidenti e dai pesanti lati negativi mostrati dal socialismo (deformato)
di matrice sovietica e dalla dinamica della “linea rossa” in URSS.
170
ROBERTO SIDOLI
Fermo restando che, almeno nella concezione marxista, qualunque forma di
socialismo, anche nel migliore dei casi e nella situazione storica più favorevole,
rappresenta una specie di “Purgatorio” rispetto al “Paradiso” (immerso a sua volta
in diverse contraddizioni tra esseri umani) del comunismo sviluppato, l’egemone
sezione della formazione economico-sociale sovietica contraddistinta da rapporti
di produzione collettivistici venne costantemente indebolita e deformata, dal 1930
fino al 1990, da una serie continuata di processi socioproduttivi negativi, il cui
sviluppo venne deciso e stabilito in sede politica, attraverso la strategia politicoeconomica
via via adottata dai nuclei dirigenti sovietici.
La prima tendenza di crisi – e deformazione – all’interno del segmento socialista
del processo produttivo dell’URSS venne costituita dall’enorme quantità di
risorse produttive, umane e scientifico-tecnologiche che venne destinata alle spese
militari ed alla riproduzione del complesso militar-produttivo (e dello spazio,
dopo il 1957).
Il processo costante , ed in dosi massicce, di erogazione di mezzi materiali/
umani era in gran parte giustificato fino al 1966/68 sul piano politico e geopolitico,
viste le tremende minacce che dovette affrontare l’URSS in quegli anni (nazismo,
1934/45; piani di dominio planetario degli Stati Uniti, 1945/91), anche se il gigantesco
sforzo compiuto tolse in ogni caso enormi masse di mezzi di produzione e
di capacità umane al settore civile dell’economia sovietica e contribuì fortemente a
deformarne la natura socialista, anche tra il 1932 ed il 1968.
Ma proprio dopo il 1966/68, quando l’URSS raggiunse la parità in termini di
armi nucleari e di vettori strategici con l’imperialismo statunitense, per pressioni
del complesso militar-industriale collegati ad un piano di espansione geopolitica
su scala mondiale del nucleo dirigente brezneviano continuò , ed addirittura si
accelerò un inutile ed autodistruttiva corsa al riarmo da parte sovietica. Dal 1969
al 1988, secondo i dati emersi in URSS verso la fine degli anni Ottanta e dopo il
1991, almeno il 20% e ben un quinto del prodotto nazionale lordo del paese era stato
destinato alle spese militari ed al complesso militar-industriale, come avevano
calcolato in precedenza alcuni analisti della CIA e DIA; anche l’80% del gigantesco
potenziale scientifico-tecnologico dell’URSS, sempre nei due decenni presi in esame,
era stato messo al servizio del settore militare.163
Il processo di costruzione di un “socialismo militarizzato”, in proporzioni
non troppo lontane da quelle raggiunte nel 1918/20 (comunismo di guerra) o nel
1941/45, avvenne mentre i dati ufficiali sostenevano che la percentuale delle spese
militari rispetto al reddito nazionale lordo del paese risultasse pari, ancora agli
inizi degli anni Ottanta, ad un già serio tasso del 3-4%; tutto in nome della miope
ricerca, tra il 1970 ed il 1982, dell’acquisizione di piccole acquisizioni/vantaggi
geopolitici (tattica del “rosicchiamento”) sul mondo capitalistico da parte del nucleo
dirigente brezneviano.
Una seconda “bomba ad orologeria” all’interno della sfera collettivistica dell’Unione
Sovietica venne rappresentata dal primato attribuito per via politica al
171
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
settore A del processo economico, che produceva mezzi di produzione, a danno
del settore B che produceva invece generi di consumo, compresi quelli alimentari.
Fino al 1948/49 la centralità del settore A rimase in larga parte giustificata,
sia per la paurosa arretratezza dell’industria pesante che pesò sull’URSS fino al
1928/32 che per la necessità di ricostruire il paese, dopo le tremende distruzioni
portate dai predoni nazifascisti a buona parte della struttura produttiva del paese;
anche in questa fase, tuttavia, il gigantesco sforzo produttivo compiuto in questa
sfera, in parte connessa al complesso militar-industriale, ridusse in modo inevitabile
e drastico le risorse destinate allo sviluppo del benessere materiale di operai
ed impiegati.
Ma dopo il 1948/49, una volta compiuta con incredibile rapidità la ricostruzione
produttiva del paese e dell’industria pesante, era ormai diventata possibile e necessaria
(per la tenuta nel tempo del consenso interno) una radicale trasformazione
delle priorità produttive con l’attribuzione della centralità teorica, ma soprattutto
reale, al settore della produzione dei generi di consumo ed all’agricoltura.
Anche se qualche risultato reale venne effettivamente ottenuto in questo nodo
(decisivo) di natura sociopolitica; anche se durante l’ottavo piano quinquennale
(1965/70) il ritmo di sviluppo percentuale del settore B superò leggermente quello
del settore A, la priorità reale nella destinazione delle risorse/investimenti produttivi
rimase quasi sempre all’industria pesante, persino durante l’ultimo piano
quinquennale del 1986/90.
Quando infatti il nuovo nucleo dirigente diretto da Gorbaciov, appena eletto
segretario del PCUS, lanciò nell’estate del 1985 il dodicesimo piano quinquennale,
egli infatti si trovò ad esaltare, «con un linguaggio che ricordava quello del
1929/30, la forzatura (forsirovanie) dei ritmi di sviluppo attraverso la ricostruzione
tecnico-scientifico dell’industria meccanica, che andava resa capace di produrre
impianti nuovi ed avanzati, in grado a loro volta di sfornare una nuova generazione
di prodotti. Ciò, però, implicava enormi investimenti in conto capitale nell’industria
pesante, una decisione che stonava in una situazione di crisi provocata
dall’abbondanza di liquidità» (i risparmi “forzati” dei lavoratori sovietici, su cui
ritornerò tra poco) «e della scarsità di beni di consumo (anche da questo punto di
vista, la situazione ricordava quindi quella di fine anni Venti)».164
Il primato attribuito (quasi) costantemente al settore A si collegò concretamente
alla super-erogazione di risorse al complesso militar-produttivo determinando,
nel lungo periodo, un cortocircuito produttivo e le condizioni materiali del crollo
dell’URSS, perché tali tendenze determinarono inevitabilmente le “code” e la costante
sottoproduzione di beni di consumo disponibili per la grande maggioranza
dei produttori diretti. Già alla fine degli anni Cinquanta, si era in presenza di un
surplus nelle “scorte monetarie nelle mani di una popolazione incapace di spendere
una parte crescente del suo reddito”, eccesso di risparmio “forzato” che aumentò
enormemente nei decenni successivi.165
172
ROBERTO SIDOLI
Un terzo fattore di crisi costante nel processo produttivo sovietico venne costituito
dall’ipercentralizzazione del meccanismo di pianificazione sovietico, che
ancora alla fine degli anni Sessanta poteva controllare solo una parte dei prezzi dei
milioni di oggetti di produzione/consumo disponibili in Unione Sovietica: un sottoprodotto
di tale ipercentralizzazione fu il ripetersi monotono, e meccanico degli
investimenti in terra societica.166
La penuria costante di mezzi di consumo, e la parallela assenza di un efficace sistema
di stimoli materiali per l’insieme degli operai impiegati e dei colcosiani, che
non comprendesse solo stackanovisti e lavoratori scelti, si combinarono a loro volta
nel diminuire progressivamente (fino al quasi-zero degli anni Ottanta) i tassi medi
di incremento della produttività e dell’efficienza del lavoratore sovietico. “Perché
lavorare meglio e guadagnare più soldi, se non ci si poteva comprare molto e se si
aveva già molti più risparmi del necessario?’, si chiesero via via quote crescenti di
operai, impiegati e contadini sovietici. Con ricadute pesanti, non solo economiche
ma (soprattutto) politiche e di crescente disaffezione verso il partito comunista,
che raggiunsero il punto di non ritorno verso la metà degli anni Ottanta.
A sua volta la corruzione di una parte della nomenklatura sovietica non comportò
solo lo spreco e dispersione di una parte significativa dei fondi statali (la
variante sovietica del capitalismo di stato), ma fece ovviamente diminuire il consumo
popolare al regime sovietico, specialmente dopo il 1970 e nel pieno della
stagnazione brezneviana.
Infine i fattori di crisi sopra delineati non esistevano isolatamente, ma si combinavano
e creavano alcuni pesanti circoli viziosi: ad esempio la scarsità di beni di
consumo alimentava la bassa produttività dei lavoratori sovietici, la quale a sua
volta favoriva la scarsa produzione di beni di consumo, la quale a sua volta ri-alimentava
il basso livello di produttività nel corso del tempo.
Anche facendo astrazione di molti altri fattori esogeni di crisi (come ad esempio
la rapidissima e verticale caduta dei prezzi di petrolio e gas, avvenuta tra il 1985 ed
il 1990 e pilotata ad arte da USA/Arabia Saudita anche in funzione antisovietica),
si possono a questo punto iniziare a comprendere le ragioni del crollo dell’URSS e
dell’egemonia della “linea rossa” al suo interno.
Il declino progressivo e la caduta finale del socialismo (deformato) di matrice
sovietica ha a mio avviso quattro diversi livelli di spiegazione, interconnessi
strettamente tra loro, che rendono secondari i fattori esogeni nel processo di disintegrazione
dell’URSS (la CIA operò realmente in Unione Sovietica e l’imperialismo
statunitense fece il possibile per fare esplodere le contraddizioni interne a
quest’ultima, ma senza di esse le provocazioni esterne avrebbero creato un danno
limitato).
1) La principale ragione immediata del crollo è stato lo scontento degli operai
ed impiegati russi, ucraini e bielorussi, che costituivano nel 1980/91 più dei nove
decimi dei residenti urbani nelle aree slave dell’URSS.
173
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
Per chi ha ancora dubbi a questo proposito, basta ricordare le ipersottovalutate
(nel loro enorme e tragico valore politico-sociale) votazioni per il Soviet dei deputati
del popolo, avvenute nel marzo del 1989. Durante tale processo elettorale, per
la prima volta dopo il 1921 (e Kronstadt), si confrontarono in molti collegi elettorali
i candidati ufficiali del PCUS e quelli antigovernativi, spesso già in aperta polemica
con il PCUS come nel caso di Eltsin ed Afanasev: i primi avevano ovviamente
il vantaggio di godere dell’appoggio della macchina propagandistica del partito e
dell’accesso privilegiato ai mass-media, oltre al controllo ancora solido sugli apparati
statali e repressivi del paese.
A dispetto di tali rendite di posizione, sia nei principali centri urbani russi (allora
abitati in larga parte da “operai dalle mani callose”), che negli Urali e nei centri
minerari del paese (Donbass, Siberia) stravinsero proprio i candidati più o meno
apertamente anticomunisti e ansiosi di “superare i paletti della scelta socialista”,
come notò giustamente il semi-eltsiniano A. Cernjaev, utilizzando con intelligenza
anche la bandiera della “lotta ai privilegi della burocrazia” (proprio loro, che dopo
il 1991 avrebbero trasformato la Russia nel paradiso degli speculatori…).
L’anticomunista A. Graziosi ha notato, con legittima soddisfazione, che «l’esito
delle elezioni fu infatti assai diverso da quello atteso» dal partito comunista.
«El’cin, che aveva scelto di correre a Mosca invece che nella sicura Sverdlovsk,
travolse al primo turno con l’89% dei voti il candidato ufficiale di quello che era,
con circa 7 milioni di votanti, il principale collegio del paese. Il trionfo, ottenuto cavalcando
la richiesta di “giustizia sociale” contro i privilegi, di beni essenziali garantiti
per tutti e persino della “terra ai contadini”, segnò la nascita del fenomeno
El’cin, che dovette quindi la sua resurrezione alle riforme varate da Gorbacev. Esso
confermò altresì l’impopolarità del sistema nella sua stessa, e privilegiata capitale
e il bisogno di trasferire su un altro oggetto l’attesa del rinnovamento che fino a
poco prima aveva giocato a favore di Gorbacev.
Ma non fu solo El’cin a trionfare. Se in Kazakistan furono eletti diciannove segretari
regionali del partito su diciannove, nelle grandi città russe e nel Baltico
la situazione si capovolgeva. La stessa onda che aveva trascinato El’cin portò al
successo circa cinquecento-seicento sostenitori di una riforma radicale, come lo
storico Afanas’ev, che in un distretto a cinquanta chilometri dalla capitale batté,
contro ogni aspettativa, il candidato delle gerarchie locali con il 75% dei voti. A essi
si aggiunsero poi circa altri duecento deputati dimostrando, a detto di Cernjaev,
che la situazione era «ultramatura per un balzo in avanti che superasse i paletti
della scelta socialista», un balzo che però Gorbacev non poteva né voleva fare. Si
sciolsero invece, come neve al sole, le rappresentanze elette in passato in base a
quote prestabilite, e a scopo ornamentale, di donne, operai e nazionalità minori
(le prime, per esempio, passarono nel 1989 dal 30 al 6% dei deputati al Soviet supremo).
167 Dopo un tale cataclisma, l’Ufficio Politico del PCUS dovette prendere
atto fin dal marzo dal 1989 della batosta subita dal partito, principalmente nelle
roccaforti operaie del paese.
174
ROBERTO SIDOLI
Il 28 marzo l’Ufficio politico si riunì per valutare i risultati elettorali. Dopo aver
ricordato che le difficoltà economiche, che certo avevano giocato un ruolo, dipendevano
almeno in parte da Cernobyl, dal terremoto in Armenia e dall’Afghanistan,
il segretario fece notare che l’85% degli eletti era iscritto al partito, rispetto al 50%
del passato. Ma il dato non poteva cancellare l’umiliazione subita da decine di
segretari cittadini e regionali, molti dei quali erano stati nominati durante la perestrojka.
Nelle parole dello stesso Gorbacev, molti dei suoi colleghi erano perciò
«depressi e il fallimento era nell’aria. Vadim Medvedev notò che a Leningrado
non erano stati eletti nemmeno il segretario regionale e il comandante del distretto
militare, che la situazione era simile a Mosca e che i dirigenti del partito erano stati
battuti anche nel Povol’ze, negli Urali,in Siberia, in Estremo Oriente, in buona parte
dell’Ucraina, nel Baltico, in Armenia e in Georgia. Come affermò Ryzkov, non vi
erano insomma dubbi: “il partito aveva perso le elezioni».168
La vera fine dell’URSS, a mio avviso, è datata marzo 1989: dopo vi fu solo una
lenta agonia, anche perché i “ceti medi” sovietici (intellettuali, piccoli imprenditori,
ecc.) si unirono subito al movimento d’opposizione, radicalizzandolo ed aumentandone
sensibilmente la sua forza d’urto complessiva.
Sulla stessa lunghezza d’onda vanno gli scioperi dei minatori sovietici, apertamente
filo-eltsiniani, nel 1989 e 1991 ed i risultati delle prime elezioni presidenziali
della Federazione Russa.
IL 12 giugno del 1991 Eltsin vinse subito al primo turno con ben il 57% dei voti,
mentre il nazionalista di estrema destra Zirinovsky ottenne l’8%: le forze apertamente
anticomuniste, pronte al “salto verso il capitalismo”, ottennero quasi due
terzi dei suffragi e degli stessi operai russi, particolarmente nelle regioni minerarie-
industriali degli Urali e della Siberia e nella grandi città, a partire da Mosca e
Leningrado. Al candidato del PCUS, Ryzcov, andò solo il 18% dei suffragi.
Tutti i dati empirici mostrano che nel 1988/89 si era ormai consolidata e divenuta
maggioritaria la tendenza anticomunista tra gli operai ed impiegati russi,
tendenza che rese anche nel breve periodo inevitabile il crollo del potere sovietico
e dell’egemonia della “linea rossa” socioproduttiva, sia in Russia che nell’intera
Unione Sovietica.
2) La ragione principale che spinse la maggioranza degli operai/impiegati delle
repubbliche slave dell’URSS ad appoggiare le forze anticomuniste fu di ordine
materiale ed economica, e cioè lo scontento (giustificato e legittimo) di massa per la
costante penuria di beni di consumo e per le lunghe, defatiganti code che gravavano
come un incubo costante su larga parte di lavoratori-consumatori sovietici, sugli
operai-consumatori della gigantesca nazione eurasiatica: un’insoddisfazione di
massa che aveva superato il limite di guardia già nel 1987/88, e che aumentò ulteriormente
con l’aggravarsi della crisi economica nel successivo triennio 1989/91.
Per chi avesse ancora dubbi in proposito, è sufficiente ricordare che già nell’autunno
del 1987 Gorbaciov venne apertamente contestato da lavoratori siberiani
175
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
durante una sua visita nella (gigantesca) zona, e che guarda caso la costante delle
lamentele degli operai era proprio la carenza di beni di consumo e le continue code
davanti ai negozi, mentre quasi il 60% dei giovani intervistati nel 1987, in quattro
grandi città sovietiche, dichiarò che procurarsi i beni di consumo occidentali costituiva
uno degli scopi fondamentali della loro vita. 169
Era pur vero che tra il 1928 ed il 1985 il tenore di vita reale aumentò di almeno
cinque volte, ma in modo assolutamente insufficiente di a soddisfare le crescenti
(giuste e sacrosante) aspettative materiali dei produttori diretti sovietici. “Dopo
sette decenni di socialismo e tanti sacrifici, alla fine degli anni Ottanta dobbiamo
ancora fare le file davanti ai negozi: ora basta, viva l’occidente nel quale tutti gli
operai hanno le auto e non fanno le code”, divenne il ragionamento collettivo diffuso
nella maggioranza dei lavoratori russi e slavi, ed in primo luogo tra gli operai
dell’industria e dei minatori.
3) A sua volta ed a cascata, la ragione principale della penuria costante e della
continua sottoproduzione di generi di consumo in Unione Sovietica tra il 1929 ed
il 1990 era costituita dalle enormi risorse ingoiate (per scelta politica) annualmente,
senza sosta ed interruzione, dalle forze armate e dal complesso militar-industriale
del paese: fenomeno combinato strettamente al primato attribuito (quasi) costantemente
al settore A dell’economia ed al derivato drenaggio (annuale e senza sosta,
avvenuto per scelta politica)di risorse a danno del settore B, della produzione dei
generi di consumo e del ritmo di incremento del benessere materiale dei produttori
diretti dell’URSS.
Se l’ 80% degli scienziati e dei tecnici lavora per il complesso militar-industriale
del paese…
Se l’acciaio, il cemento ed i trattori divorano buona parte del restante fondo per
l’accumulazione…
…non può che rimanere un residuo a favore del settore B: è quello che avvenne
nel socialismo deformato di matrice sovietica , con particolare intensità/stupidità,
durante la lunga stagnazione brezneviana.
Sulla pietra tombale dell’URSS dovrebbe essere scritto: “troppe armi, troppe
code, troppo pochi generi di consumo”.
Come ammise nel 1992 il comunista tedesco Erick Honecher, nella sua bella
autodifesa mentre era sotto processo nella nuova e “libera” Germania unificata,
“nonostante la grande quantità di beni di consumo disponibili dopo il 1971″ (nella
Repubblica Democratica Tedesca, DDR) “non siamo riusciti a progredire senza
problemi su questo terreno.
Le aspettative della gente, tra cui molti se la passavano piuttosto bene, crescevano
più in fretta delle possibilità materiali. Non abbiamo prestato in tempo utile
l’attenzione dovuta alle concezioni consumistiche che crescevano in funzione della
pubblicità e di vari altri metodi. Il malcontento comprensibile per la difficoltà a
176
ROBERTO SIDOLI
reperire certi articoli” (di generi di consumo) “rendeva più difficile la vita quotidiana”.
Se nella Germania orientale mancavano spesso le “banane”, come ammise
Honecher nel 1992, in URSS la situazione materiale dei lavoratori era nettamente
peggiore ed ancora più forte la contraddizione tra aspettative collettive di consumo
e possibilità materiali.
4) A sua volta ed a cascata, sorge subito una domanda: quale fu la ragione principale
in base alla quale i nuclei dirigenti brezneviani scelsero per via politico-economica
l’opzione socioproduttiva di cui sopra, in ultima analisi autodistruttiva per
la “linea rossa”in terra sovietica e per la stessa conservazione (si pensi al 1989/91)
dell’egemonia politica del partito comunista sovietico?
Scelta ancora più assurda, inoltre, in quanto in precedenza una parte importante
dei dirigenti del PCUS, a partire (1953/54) da G. Malenkov durante il breve
periodo in cui quest’ultimo divenne il numero uno del partito, si resero conto della
duplice necessità di ridurre le spese militari e di dare finalmente la priorità al settore
B, ai generi di consumo.
Non mancarono tra l’altro dei periodi storici in cui l’Unione Sovietica ridusse
drasticamente spese militari ed effettivi dell’Armata Rossa, come nel 1921/24, nel
1945/47 e nel 1954/59.
Nel prendere il “sentiero verso la catastrofe”, contarono e pesarono sicuramente
le pressioni corporative esercitate sul centro direzionale sovietico, costantemente
e con forza, sia dal complesso militar-produttivo del paese che dalle lobby dei
“mangiatori di acciaio”(Chruscev) dell’industria pesante, oltre alla reale e concreta
azione di un formidabile nemico dell’URSS in campo internazionale, quale fu
l’imperialismo statunitense dal 1945/91. Ma dopo il 1966/68 qualunque minaccia
militare all’URSS non aveva più una seria forza d’urto reale/potenziale, proprio
grazie al prezioso raggiungimento della parità nucleare e missilistica con l’Occidente,
mentre a loro volta le spinte corporative espresse dai militari e dall’industria
pesante erano almeno in parte controbilanciate dalla presenza della lobby del
settore B.
A mio avviso la causa principale che fece oscillare il “piatto della bilancia” a
favore dell’opzione militare e del settore A venne esposta dall’allora ministro della
Difesa D. Ustinov, verso la fine degli anni Settanta: egli rilevò, con un opinione
assai ripetuta al tempo negli ambienti del complesso militar-industriale sovietico,
che «il nostro popolo è molto paziente e tollerante. Tutto ciò di cui il nostro paese
ha bisogno per sopravvivere sono pane e difesa».170
I dirigenti sovietici dell’epoca brezneviana, in altri termini, erano convinti dell’eccezionale
e duratura capacità di sopportazione delle privazioni materiali da
parte del popolo russo, oltre che del carattere ormai irreversibile delle trasformazioni
collettivistiche avvenute all’interno dell’economia e dei rapporti di produzione
sovietici, capaci ormai a loro avviso di “sopravvivere” (Ustinov) a qualunque
177
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
bufera interna/internazionale: si sentivano tranquilli sul piano politico-sociale, ed
in grado di continuare con successo la “tattica”del rosicchiamento (internazionale/
geopolitico) con l’Occidente anche in tempi lunghi.
Si sbagliavano sia in un senso che nell’altro, come del resto errava nella sua
valutazione il filosofo Afanasev (citato nel primo capitolo) sul presunto “trionfo
definitivo” del socialismo in Unione Sovietica.
Innanzi tutto essi avevano sottovalutato clamorosamente un elemento quasi
banale ma essenziale nella politica contemporanea, e conosciuto invece perfettamente
da Stalin, Malenkov e Chruscev: anche in Russia, come nel resto del mondo,
l’operaio-medio non accetta a lungo (giustamente e correttamente) la riproduzione
degli stessi livelli di consumo e le privazioni materiali del passato, senza accumulare
in modo “molecolare” (Gramsci) dosi crescenti di indignazione e rabbia, più o
meno latenti. Il (giusto e sacrosanto) materialismo consumistico di gran parte dei
produttori diretti costituisce un fattore ineliminabile e centrale della politica contemporanea,
al pari delle loro (sacrosante) aspettative crescenti di consumo, come
aveva perfettamente compreso Deng Xiaoping in Cina quasi negli stessi anni; in
URSS, invece, si studiava allora troppo il materialismo storico/dialettico e troppo
poco il materialismo del corpo, del desiderio di consumi abbondanti e di una vita
agiata, che contraddistingue larghissimi strati dei lavoratori del nostro pianeta.
In secondo luogo i dirigenti dell’era brezneviana non si rendevano quasi più
conto, se non a livello estremamente latente, della possibilità concreta di una controrivoluzione
capitalistica in Unione Sovietica, se e quando gli operai/impiegati
russi e slavi avessero infine perso la pazienza; avevano ormai quasi del tutto
dimenticato la sorte socioproduttiva subita dalle aree sovietiche occupate dalle
armate “bianche” nella guerra civile del 1917/20, o dai nazifascisti nel 1941/45,
allorché i rapporti di forza politici (politico-militare) diventarono favorevoli alla
“linea nera”ed alla tendenza capitalistica, alternativa ed antagonista all’egemonia
dei rapporti di produzione collettivistici in terra sovietica.
A questo punto ci si può riallacciare allo schema generale dell’effetto di sdoppiamento,
in grado di fornire delle utili lezioni proprio rispetto ai presupposti
storico-teorici ed alle pre-condizioni socioproduttive della tremenda controrivoluzione
capitalistica (di stato) che, appoggiata da larga parte degli operai russi,
si abbatte sull’URSS tra il 1989 ed il 1991. Infatti tale tragedia politico-sociale (e
geopolitica)insegna:
– che il socialismo è reversibile, e può essere sostituito dal capitalismo di
stato;
– che il socialismo è reversibile, se le tendenze capitalistiche riescono a controllare
la sfera politica e gli apparati statali;
– che il socialismo è reversibile, se l’opzione collettivistica perde il consenso
della maggioranza della classe operaia e dei lavoratori: fattore di forza che
pesa e conta molto proprio nella sfera politica di tutte le società , in modo
particolare negli ultimi due secoli di sviluppo del genere umano.
178
ROBERTO SIDOLI
Si tratta a mio avviso di tesi inoppugnabili, una volta scartata l’equazione
URSS=capitalismo di stato, che trovano proprio nella teoria di sdoppiamento la
cornice adeguata entro la quale essere inserite.171
Nel marzo del 1983 Y. Andropov, da poco diventato segretario generale del partito
comunista sovietico, ammise pubblicamente che “anche quando i rapporti di
produzione socialisti si sono affermati in modo definitivo” (= URSS 1983, nell’errata
valutazione di Andropov) “in qualcuno si conservano ancora, e a volte si riproducono,
le abitudini individualistiche, la tendenza ad arricchirsi a spese degli altri,
a spese della società” (Y. Andropov, “La dottrina di K. Marx e alcuni problemi della
costruzione del socialismo nell’URSS”, marzo 1983).
Si trattò di una timida e parziale ammissione dell’esistenza della “linea nera”
socioproduttiva all’interno dell’Unione Sovietica e della sua riproduzione parallela
e simultanea ai “rapporti di produzione socialisti” (Andropov), in ultima analisi di
un embrione di comprensione teorica dell’esistenza dell’effetto di sdoppiamento
a poco più di otto anni dalla fine dell’URSS, ma era ancora troppo poco, avveniva
troppo tardi e soprattutto senza trarne le dovute, pesanti ed inevitabili conseguenze
di carattere pratico: possibilità concreta di una controrivoluzione capitalistica in
Unione Sovietica, necessità vitale di ridurre drasticamente le spese per esercito/armamenti/
spazio, urgenza di aumentare ancora più drasticamente la produzione
di generi di consumo, farla finita con i “mangiatori di acciaio” del settore A, ecc.
Peccato, non andò così.
Parafrasando Marx, si può affermare che in ogni paese socialista (deformato)
“la teoria” (comunista) “diventa subito una forza materiale, anzi la principale forza
materiale”: nel bene ma anche nel male, quando è incapace di leggere la realtà
a partire dall’esistenza ed importanza dell’effetto di sdoppiamento, provocando
pertanto disastri su larga scala.
La questione Stalin, infine, trattata per forza di cose in modo ipersintetico.
La valutazione storica di Stalin e del fenomeno stalinista, che ha contraddistinto
l’URSS e gran parte del movimento comunista dal 1928 al 1953, dipende anch’essa
dalla natura socioproduttiva assunta dall’URSS proprio tra il 1928 ed il 1953, riprodottasi
in modo largamente invariato (nelle sue strutture economiche fondamentali)
fino al 1988/90.
Se fosse infatti valida la teoria del capitalismo di stato, Stalin diverrebbe il progettista
ed il leader principale di una variante russa del capitalismo di stato contemporaneo
e, allo stesso tempo, vista l’assenza costante (dopo il 1921, con Lenin
ancora vivo) di pluripartitismo e di libertà d’espressione per le forze avverse al
partito sovietico, anche un fascista/socialfascista come logica conseguenza. Del
resto per il fisico sovietico L. Landau non solo Stalin, ma anche Lenin non risultavano
altro che fascisti, ed anzi Lenin (1957) era per lui “il primo fascista”, men179
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
tre K. Korsch , teorico del “comunismo consiliare”, ritenne a suo modo Lenin un
“rivoluzionario borghese” di tipo giacobino ed autoritario, in un paese arretrato
come era l’impero zarista anche nel 1914/16.172
Si tratta di logiche conseguenze dell’equazione URSS=capitalismo di stato, riportata
nella sfera politica.
Se invece si ritiene che la variegata formazione economico-sociale sovietica
fosse prevalentemente di natura collettivistica e socialista, anche se deformata, la
valutazione su Stalin ovviamente deve cambiare radicalmente di segno (da meno
a più, per intenderci) all’interno del movimento anticapitalistico: risulta infatti innegabile
che Stalin ed il nucleo dirigente da lui diretto abbiano gestito, tra le altre
cose, la politica economico-sociale dell’URSS per quasi tre decenni e che pertanto
, dal 1928 fino al 1953, abbiano contribuito in modo come minimo notevole al processo
di costruzione e di affermazione dei rapporti di produzione/distribuzione
socialisti (deformati) nell’URSS, nel bene come negli errori/tragedie.
A mio avviso è vera la seconda ipotesi, ed è pertanto sotto questa “luce generale”
(Marx, Grundrisse) e prospettiva storica che valuto l’azione complessiva di
Stalin, inserita pienamente (seppur con grandi errori ed alcuni crimini imperdonabili)
in una dinamica anticapitalista e in una progettualità tesa a far affermare le
relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche in Unione Sovietica e,
dopo il 1945, nell’Europa orientale.
Alcuni spunti in questa direzione vengono da due diverse fonti.
Paolo Robotti fu un militante comunista italiano, imprigionato e torturato nel
1938/39 in Unione Sovietica alla fine delle purghe staliniste di quel tempo, che
riuscì a mantenere anche dopo il 1956 un atteggiamento dialettico verso l’epoca
stalinista. Condivido la sua frase su Stalin “grande nel bene come nel male”, anche
se a mio avviso il bene provocato da Stalin purtroppo non superò di gran lunga “il
male”, come per Robotti: un rapporto di 65% di positività, e un 35% di elementi
negativi è già abbastanza generoso nella valutazione globale del dirigente comunista
georgiano. Dopo il 1956 e la denuncia crusceviana dei crimini commessi dal
nucleo dirigente stalinista (di cui lo stesso Chruscev era parte integrante), Robotti
trasse «la conclusione – è ancora mio convincimento – che, in sostanza Stalin fu
grande nel bene e grande nel male e che il bene supera, nella storia, di gran lunga
il male. Altra conclusione non vedo. Gli errori ed i delitti compiuti mentre era alla
testa del Partito, furono violentemente denunciati dai suoi più vicini collaboratori
che furono tra i capi che maggiormente lo esaltarono per la sua opera di direzione
durante la guerra e per la vittoria conseguita».173
Un’altra ed assai diversa soggettività comunista, impersonata dal trotzkista
“semieretico” Isaac Deutscher, riuscì a sua volta nel 1949 a dare una valutazione
dialettica dell’azione quasi trentennale di Stalin: pur non mancando di denunciarne
“l’inumano dispotismo”, notò con cura sia i successi di Stalin che il fatto
che quest’ultimo fosse riuscito, almeno in parte, a mettere “in pratica un principio
fondamentalmente nuovo di organizzazione sociale”, e cioè a costruire insieme al180
ROBERTO SIDOLI
l’azione del partito comunista e di buona parte della classe operaia sovietica delle
relazioni di produzione collettivistiche, seppur deformate.
«Si può dire con certezza che Stalin appartiene alla famiglia dei “grandi despoti
rivoluzionari” a cui appartennero Cromwell, Robespierre e Napoleone. È opportuno
valutare esattamente ogni parola di questa definizione. Stalin è grande se si
misura la sua statura dall’ampiezza delle sue imprese, dall’impeto travolgente delle
sue azioni, dalla vastità della scena che ha dominato. Stalin è rivoluzionario, non
nel senso che sia rimasto fedele a tutte le idee originarie della rivoluzione, ma perché
ha messo in pratica un principio fondamentalmente nuovo di organizzazione
sociale, un principio che , qualunque sia per essere la sorte riservata a Stalin personalmente
o al regime associato al suo nome, sopravvivrà certamente per fecondare
l’esperienza umana e per orientarla verso nuove direzioni. Tra le vittorie di Stalin,
senza dubbio, si può annoverare anche quella di aver provocato innumerevoli tentativi
di imitazione: quanti altri governi hanno tentato di rubargli i suoi fulmini,
affermando di aver adottato, anche loro, i metodi dell’economia pianificata? Infine
il suo inumano dispotismo non solo a viziato molte delle sue realizzazioni, ma può
ancora suscitare una violenta reazione nella quale forse si potrà anche dimenticare
quale sia il vero bersaglio della reazione stessa: se la tirannia dello stalinismo o la
sua feconda rivoluzione sociale».174
Poche pagine dopo, Deutscher notò come «Stalin si accinse (per citare un detto
famoso) a cacciare la barbarie della Russia con mezzi barbari. Data la natura dei
mezzi impiegati la barbarie cacciata dalla porta è in parte rientrata dalla finestra.
Tuttavia la nazione ha fatto grandissimi progressi in quasi tutti i campi della sua
esistenza. La sua attrezzatura produttiva, che intorno al 1930 era ancora inferiore a
tutte le nazioni europee di media grandezza, si è dilatata in tale misura e con tale
rapidità che oggi la Russia è la prima nazione industriale dell’Europa e la seconda
del mondo. In poco più di un decennio il numero delle sue città grandi e piccole
si è raddoppiato; e la sua popolazione urbana è aumentata di trenta milioni. Il
numero delle scuole di tutti i gradi si è moltiplicato in misura impressionante.
Tutta la nazione è stata mandata a scuola. La sua mente si è risvegliata, e con un
tale fervore che difficilmente si lascerà addormentare un’altra volta. La sua avidità
di sapere, la sua passione per le scienze e le arti sono state stimolate a tal punto
dal governo di Stalin da diventare addirittura insaziabili e preoccupanti. Va anche
notato che Stalin, pur tenendo la Russia isolata dalle influenze contemporanee
dell’Occidente, ha incoraggiato e promosso lo studio di quella che egli stesso ha
definito l’”eredità culturale” dell’Occidente. Forse in nessun paese come in Russia
i giovani sono stati educati a un così profondo amore e rispetto per la letteratura
classica e l’arte delle altre nazioni…
Né si deve ignorare il fatto che l’ideale insito nello stalinismo (anche se espresso
da Stalin in forme grossolane e contorte) non è la dominazione dell’uomo sugli uomini
o della nazione sulle nazioni o della razza sulle razze, ma la loro fondamentale
uguaglianza. Anche la dittatura del proletariato è intesa come fase di semplice
181
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
transizione verso una società che dovrà essere senza classi; e il motivo ispiratore
è rimasto quello di una comunità di esseri liberi e uguali, non quello di una dittatura
».175
Tra i lati positivi ed i successi ottenuti in campo nazionale attraverso la direzione
politica-sociale di Stalin, sempre da un punto di vista anticapitalistico, troviamo:
– che egli “trasformò una vasta ed arretrata nazione agricola in una moderna
potenza industriale” (Ian Grey), con le sole risorse interne dell’URSS ed in
presenza dell’egemonia di rapporti di produzione collettivistici, almeno a
partire dal 1930/31176;
– il fatto innegabile che, proprio sviluppando e consolidando rapporti di
produzione collettivistici, Stalin trasformò la Russia dell’aratro di legno del
1928 nella seconda potenza mondiale, a partire dal 1945;
– la costruzione quasi ex-novo di una potente industria pesante (statale), base
indispensabile sia per i progressi dell’industria leggera che per la costruzione
di macchine belliche e di un complesso militar-industriale moderno, in
grado di sconfiggere nel 1941/45 i predoni nazisti;
– la rapida ricostruzione dell’URSS devastata dalla guerra, nel 1944/49;
– la scomparsa dei Kulak e dei nepman come classi sfruttatrici nel 1928/30,
attraverso il processo di collettivizzazione delle campagne e del settore urbano
sovietico;
– l’egemonia raggiunta con Stalin dalla “linea rossa”, all’interno della composita
formazione economico-sociale sovietica;
– l’eliminazione della disoccupazione in Unione Sovietica, l’assenza dell’esercito
di riserva industriale che continuò (fino al 1991) al suo interno;
– la creazione della base di un moderno stato sociale, visto che (L. Marcou)
“negli ultimi anni dell’impero di Stalin il livello culturale dei sovietici era migliorato
e, cosa ancora più importante, stavano aumentando le tutele sociali,
soprattutto le pensioni, le ferie pagate, la previdenza per le famiglie delle
vittime di guerra e per le madri di famiglie numerose”; all’elenco si possono
aggiungere i prezzi politici per affitti , gas e acqua, ecc.177;
– la quasi completa eliminazione dell’analfabetismo nel paese, la promozione
della cultura (Deutscher) e la possibilità per una parte consistente dei figli
degli operai di accedere agli studi superiori178;
– la selezione dei quadri dirigenti del partito e dei manager, oltre che dei funzionari
di livello medio-basso, principalmente tra la classe operaia, facendo
si che, come ha notato più volte e giustamente Rita Di Leo, l’URSS diventasse
il primo “stato operaio della storia”;
– la lotta carsica di Stalin contro la sezione corrotta, “carrierista” e protocapitalistica
dei funzionari di partito e dei manager, contro la “linea nera” e la
variante russa del capitalismo di stato: alcuni storici americani (Getty) riten182
ROBERTO SIDOLI
gono che la sanguinosa purga del 1936/38 avesse anche lo scopo di “introdurre
un controllo populista dal basso” contro i “comunisti carrieristi,sempre
alla ricerca di favori”, descritti e condannati in una risoluzione del Comitato
Centrale del PCUS del gennaio 1938179.
In campo internazionale, invece, i lati positivi espressi via via dal nucleo dirigente
stalinista furono:
– il tentativo costante di creare un fronte internazionale antifascista, tra il
1934 e l’autunno del 1938, almeno fino al vergognoso patto di Monaco firmato
dall’imperialismo occidentale con quello tedesco sulla pelle del popolo
cecoslovacco
– l’aiuto militare e politico-materiale fornito al popolo spagnolo (seppur con
un certo ritardo) nella sua lotta contro il fascismo, a partire dall’ottobre del
1936;
– la storica vittoria ottenuta sul nazifascismo nel 1941/45, di importanza
epocale;
– una strategia politico-militare che, dopo l’ottobre del 1941, si rivelò quasi
sempre di alto livello e che contribuì in modo decisivo a canalizzare e stimolare
l’eroico sforzo collettivo del popolo sovietico, nella sua lotta mortale con
i predoni nazifascisti;
– l’acquisizione con durissimi sacrifici della bomba atomica (agosto 1949),
rompendo per sempre il monopolio nucleare goduto per quattro anni dall’imperialismo
statunitense;
– la capacità di tenere testa con successo allo strapotere di Washington, durante
la prima fase della guerra fredda (1947/53);
– l’estensione del campo socialista (deformato) all’Europa orientale, con la
sola esclusione della Finlandia, aiutando in modo decisivo le forze comuniste
dell’area a spazzare via i latifondisti e la borghesia autoctona;
– l’appoggio politico, economico e militare prestato dopo il 1 ottobre 1949
alla neonata Repubblica Popolare Cinese, seppur con alcune esitazioni, aiuto
che seguiva quello fornito alla Corea del Nord e precedeva quello effettuato
a favore del Vietnam del Nord, agli inizi degli anni Cinquanta.
Passando invece al “lato oscuro della luna”, i principali lati negativi dell’azione
di Stalin sul piano interno furono a mio avviso:
– gli eccessi nella prima fase di collettivizzazione (novembre 1929-marzo
1930), denunciati ed autocriticati con ritardo dal gruppo dirigente sovietico;
– la tardiva ed insufficiente assistenza fornita alle zone dell’Ucraina e del
Caucaso, colpite dalla tremenda siccità/carestia del 1932/33;
183
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
– il ritmo insostenibile e squilibrato assunto dal primo piano quinquennale,
tra il 1931 ed il 1932;
– le sanguinose ed insensate purghe che, a partire dal 1936/38, sterminarono
o imprigionarono carsicamente una parte importante dei quadri e militanti
comunisti sovietici, oltre che di quelli stranieri residenti nel paese; centinaia
di migliaia di donne e uomini, quasi sempre innocenti (come Robotti) rispetto
alle accuse di tradimento che venivano loro mosse180;
– l’ipercentralizzazione del potere decisionale nelle mani del solo Stalin, tra
il 1936 ed il 1953;
– l’incapacità di prevedere l’attacco nazista del giugno 1941, che Stalin riteneva
sicuro ma non prima del 1942;
– i gravi errori politico-militari commessi dal nucleo dirigente sovietico nella
prima fase della guerra contro i nazisti, fino all’ottobre del 1941;
– la deportazione in massa di intere nazionalità (ceceni, tatari, ingusci, ecc)
tra il 1943 ed il 1944, a causa del collaborazionismo con i nazisti di una loro
piccola minoranza;
– il primato attribuito costantemente al settore A dell’economia anche dopo
il 1948, una volta ultimato con successo il processo di ricostruzione della devastata
economia e dell’industria pesante del paese.
Passando al piano internazionale, le principali pratiche negative dovute a Stalin
furono:
– la strategia del socialfascismo, imposta da Stalin al movimento comunista,
che impedì tra l’altro a priori al partito comunista tedesco di tentare di costruire
un fronte antifascista con la (squallida, ma antifascista) socialdemocrazia
della Germania, al fine di fermare l’ascesa al potere di Hitler;
– l’assurda e controproducente “caccia al trotzkismo”, anche allora movimento
quasi sempre minoritario e rissoso, imposta su scala planetaria e con
significativi effetti negativi (specialmente, ma non solo) nella Spagna del
1936/38;
– l’attacco militare alla Finlandia (1939/40), controproducente sotto tutti gli
aspetti;
– le direttive impartite al partito comunista cinese tra il 1946 ed il 1948, nelle
quali (per fortuna senza alcun esito) si chiedeva al nucleo dirigente maoista
di raggiungere un compromesso al ribasso con Chiang Kai-Shek e l’imperialismo
statunitense181;
– il blocco di Berlino ovest nel 1948/49, dimostratosi alla fine un completo
fallimento;
184
ROBERTO SIDOLI
– le pesanti riparazioni di guerra e le società miste (a guida sovietica) imposte
alle nazioni che avevano partecipato all’aggressione neofascista (Germania
orientale, Ungheria e Romania), con pesanti ricadute negative sulla popolarità
dell’URSS (e dei partiti comunisti locali) nelle tre nazioni citate.
Invece in una sorta di “zona grigia” va collocato il famoso patto Molotov-
Ribbentrop, stipulato nell’agosto del 1939. Le ricadute positive del patto di non aggressione
concluso dall’URSS con i nazisti furono i due anni di tempo guadagnati
da quest’ultima nel suo riarmo, e nel posporre l’aggressione nazista; il rientro in
Unione Sovietica di zone abitate principalmente da bielorussi ed ucraini, le quali
erano occupate in precedenza dalla Polonia; le pesanti incrinature dell’alleanza
tra Germania e Giappone, il quale cessò le operazioni militari contro la Mongolia
e l’Armata Rossa proprio a fine agosto 1939 e due anni dopo non partecipò all’aggressione
nazista contro l’URSS; lo spazio geopolitico acquisito ai confini dell’URSS
(incorporamento delle zone bielorusse/ucraine della Polonia, assieme ai
paesi baltici), che fece perdere tempo prezioso all’imperialismo tedesco nella tragica
estate del 1941. Furono sicuramente elementi reali e consistenti, ma essi a mio
avviso superarono solo di poco i lati negativi dell’accordo stipulato nella tragica
estate del 1939: netta diminuzione in URSS della vigilanza anti-nazista, creazione
di illusioni sulla possibilità di rinviare l’aggressione contro l’URSS e soprattutto
l’errore clamoroso di Stalin sulla data del futuro attacco nazista all’URSS, a cui si
deve aggiungere la forte perdita di credibilità di quest’ultima all’interno del movimento
antifascista mondiale.
Su questa, e su tutte le altre questioni storiche sollevate in riferimento al fenomeno
stalinista, rimando ad un futuro lavoro di elaborazione teorica. In ogni caso
si può concludere che Stalin rappresentò sicuramente la personalità più importante
del Ventesimo secolo, grande “se si misura l’ampiezza e la vastità della scena
che ha dominato” (Deutscher), oltre che per la durata temporale della sua permanenza
al potere, e soprattutto si deve sottolineare che la matrice principale della
sua progettualità/azione era “rivoluzionaria” (Deutscher) perché anticapitalista
e collettivista nella sua direzione di marcia essenziale, a dispetto dei pesantissimi
errori commessi dal dirigente georgiano
Stalin, tra l’altro ancora oggi molto popolare in Russia, non fu solo un “grande
despota rivoluzionario” ma un dirigente con una sua “grande strategia”, desideroso
di raggiungere allo stesso tempo due obiettivi distinti ma interconnessi, come
aveva ben compreso ed intuito il grande storico inglese E. Carr: l’affermazione
del movimento comunista su scala mondiale da compiersi, principalmente se non
esclusivamente, proprio grazie al parallelo ed autonomo rafforzamento ed all’accumulazione
endogena di potenza (economica, militare, nel grado di consenso interno
ed internazionale, ecc) da parte del nuovo motore fondamentale del socialismo
mondiale, l’Unione Sovietica.182
185
L’effetto di sdoppiamento, l’Unione Sovietica e Stalin
Persino Trotsky, nel marzo del 1930, riconobbe che se l’Unione Sovietica avesse
saputo mostrare al mondo la trasformazione di un paese arretrato in una grande
“società socialista” (Trotsky), avanzata e con un alto livello di benessere, attraverso
una serie di piani quinquennali coronati dal successo, il capitalismo mondiale
avrebbe subito un colpo mortale: Trotsky non ritenne mai possibile tale ipotesi,
mentre Stalin diede invece fin dal 1924 una risposta positiva, che gli permise di
fondere la sua versione del socialismo marxista con il forte e diffuso patriottismo
degli operai e dei contadini russi, visto che la sua visione strategica (il “socialismo
in un solo paese”) portava come inevitabile esigenza e sottoprodotto la graduale
trasformazione dell’URSS nella principale potenza economica e militare del globo.
Non a caso già nel marzo del 1939, durante il suo rapporto al diciottesimo congresso
del PCUS, Stalin avanzò prima di Chruscev la tesi del sorpasso economico
dei “principali paesi capitalistici” da parte dell’Unione Sovietica.
Egli rilevò che in URSS “abbiamo superato i principali paesi capitalistici per la
tecnica della produzione e i ritmi di sviluppo dell’industria. Ciò è molto bene. Ma
non basta, dobbiamo superarli anche economicamente. Lo possiamo fare e lo dobbiamo
fare. Soltanto se supereremo economicamente i principali paesi capitalistici,
potremo contare che il nostro paese sarà saturo di articoli di consumo, che avremo
abbondanza di prodotti e saremo in grado di passare dalla prima fase del comunismo”
(socialismo) “alla sua seconda fase”, il comunismo sviluppato.183
In poche righe è racchiusa l’essenza , il “segreto” e l’obiettivo finale della strategia
di lungo termine elaborata da Stalin, sotto questo particolare aspetto ripresa da
Deng Xiaoping e dai nuclei dirigenti succedutisi alla guida del partito comunista
cinese (PCC) dopo il 1976, seppur ovviamente in un’altra fase e contesto storico:
il “secolo lungo” (1917/2010, ed oltre) è composta sia da elementi di discontinuità
che da momenti di continuità, da “passaggi del testimone” nell’arduo processo di
costruzione del socialismo su scala mondiale.
187
La Cina: e qui cambiano tempi storici e aree geopolitiche, passando al processo
di analisi della natura socioproduttiva della Cina contemporanea e della strategia
politica economica adottata negli ultimi decenni dal PCC (partito comunista cinese),
dopo il 1976 e la morte di Mao Zedong.
Si tratta di questioni in ogni caso di enorme rilievo, visto che nel gigantesco
paese asiatico vive un quinto della popolazione mondiale e che proprio nel 2009 si
è assistito ad un evento di portata eccezionale, il sorpasso della nuova superpotenza
economica cinese rispetto al vecchio detentore del primato produttivo su scala
mondiale, gli Stati Uniti (sorpasso in termini di parità nel potere d’acquisto dei
rispettivi prodotti nazionali lordi); ma il processo di focalizzazione sulla composita
e complessa formazione economico-sociale cinese, durante il primo decennio del
nuovo millennio, è assai importante anche ai fini di verificare la tenuta e la persistenza
dell’effetto di sdoppiamento nel periodo seguito al crollo dell’URSS e del
socialismo (deformato) di matrice sovietica, dopo il 1989/91.184
Per comprendere la matrice (contraddittoria, sdoppiata) socioproduttiva della
Cina odierna, si deve partire dall’indagine sui suoi aspetti sociali di produzione,
tenendo tra l’altro a mente che il “modello cinese” post-maoista è stato riprodotto
largamente anche in Vietnam e Laos (paesi con circa 90 milioni di abitanti) a partire
dal 1986, e parzialmente nella Corea del Nord attraverso le zone di libero scambio
economico alla frontiera con la Corea del Sud, in base a decisioni prese in assoluta
autonomia dai tre partiti comunisti asiatici al potere.185
Contrariamente alle tesi diffuse in larga parte del movimento anticapitalistico
occidentale, la “linea rossa” e le relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche
risultano ancora oggi egemoni e centrali all’interno della variegata,
composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese del 2000-2010.
Come punto di partenza riprendo due recenti articoli del 2009 sulla Cina, di
orientamento apertamente anticomunista, che forse possono servire a provocare
uno shock salutare in alcuni lettori.
Tang Xiangyang, sulla rivista “Economic Observer News” del settembre 2009,
ha preso in esame l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali
aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende
al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali,
che operano in esso.
LA CINA CONTEMPORANEA
E L’EFFETTO DI SDOPPIAMENTO
188
ROBERTO SIDOLI
Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli
di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008
tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende,
industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico.
Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente,
svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang
Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande
azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo
il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, ed elemento socioproduttivo
su cui ritornerò, solo un quinto e solo cento delle “top 500″ in Cina
erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite
ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari a un deludente
… 10%, ad un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella
Cina del 2008.186
A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del
2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina”,
lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento
venisse finanziata da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà
pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero
ben il 70% dell’insieme globale degli investimenti di capitali in Cina
Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato
Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in
Cina”, sempre a giudizio del pubblicista occidentale.187
Quarantatre società statali ai primi quarantatre posti nella “top 500″, il 70% degli
investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non
si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei
tempi passati”.
L’egemonia contrastata della “linea rossa” all’interno della proteiforme formazione
economico-sociale cinese del 2000-2010 si compone e viene costituita innanzitutto
da quattro “grandi anelli” materiali, strettamente interconnessi tra loro.
Il primo tassello socioproduttivo della “linea rossa”, nella Cina contemporanea,
viene rappresentato dall’enorme spazio d’azione e peso specifico mantenuto tutt’oggi
dalle grandi imprese statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica,
che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande
nazione asiatica.
Il 3 settembre del 2007 il “Quotidiano del Popolo” di Pechino, l’organo di stampa
più prestigioso del PCC, ha riportato che nel 2006 le 500 imprese della Cina
(ivi comprese banche, settore petrolifero, e degli armamenti, ecc.) controllavano e
possedevano l’83,3 del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al
solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale erano
di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza della sfera
pubblica.
189
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente
o in maggioranza statali) risultò di 14,9 migliaia di miliardi di yuan, su un totale
di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime
500 imprese, alias pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza
prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big”sul prodotto nazionale
lordo cinese era pari al sopraccitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese
statali sul PIL cinese ufficiale risultava pari al 70% ed a quasi tre quarti della ricchezza
globale cinese.188
Nel 2008 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza)
era ulteriormente aumentato fino a quasi raggiungere i 18 migliaia di miliardi
di yuan, per una quota sempre pari a circa il 70% del PNL interno, equivalente a
24,66 migliaia di miliardi di yuan nell’anno preso in esame, mentre il numero di
impiegati in esse era pari a circa 35 milioni.189
Nel 2009 il giro d’affari della SOE superava a sua volta i 20 migliaia di miliardi
di yuan, con un ulteriore e netto incremento rispetto all’anno precedente.
Anche se una parte nettamente minoritaria delle imprese statali risulta in mano
ai privati, autoctoni o stranieri, come soci di minoranza, ed anche se una quota
“sommersa” del PIL cinese non emerge dalle statistiche ufficiali, si tratta di dati
assolutamente sconosciuti al reale capitalismo monopolistico di stato egemone
nell’area occidentale e giapponese, segnata tra il 1979 ed il 2005 da processi giganteschi
di privatizzazione delle imprese produttive statali, che hanno invece solo
sfiorato in misura modesta l’economia cinese.
La principale debolezza del settore statale cinese consiste nel suo minor tasso
medio di profitto rispetto a quello privato, autoctono o straniero. La massa di
profitto ottenuta dalla SOE è passata dai 90 miliardi di yuan del 1995 fino ai 221
del 2002, balzando poi nel 2007 alla cifra di 1620 miliardi di yuan (221,9 miliardi
di dollari): un incremento eccezionale, dovuto anche al doloroso processo di ristrutturazione
delle imprese statali sviluppatosi tra il 1998 ed il 2006, ma che non è
ancora sufficiente a far raggiungere alle SOE i margini di redditività ottenuti negli
stessi anni dal settore privato, che tra il gennaio e il novembre del 2007 avevano
raggiunto una massa di profitto di 400 miliardi di yuan solo nel segmento delle
grandi imprese private, trascurando le medie, piccole e piccolissime imprese.190
Il secondo anello principale che garantisce tuttora l’egemonia contrastata della
“linea rossa”, all’interno della variegata formazione economico-sociale cinese,
viene rappresentato dalla proprietà pubblica del suolo cinese, che può essere concesso
legalmente in usufrutto a privati solo in determinate condizioni e con l’approvazione
preventiva dello stato. Ancora recentemente l’assemblea legislativa
cinese ha rifiutato qualunque proposta di privatizzazione della terra in Cina: il 30
gennaio del 2007 Chen Xiwen, direttore dell’ufficio agricolo del governo centrale,
dopo aver ribadito un secco diniego alle ipotesi di privatizzazione, ha notato che
190
ROBERTO SIDOLI
la terra veniva data in usufrutto ai contadini per trent’anni e che ogni ipotesi di subaffitto
del suolo da parte dei contadini alle imprese industriali era da considerarsi
come assolutamente illegale.191
Anche secondo le nuove leggi entrate in vigore il primo ottobre 2007, la proprietà
della terra in Cina si divide in due tipi fondamentali: quella statale per le aree
urbane, e quella invece posseduta collettivamente dai singoli villaggi rurali nelle
campagne del gigantesco paese asiatico, villaggi ed agglomerati riconosciuti come
Organizzazioni Economiche Collettive (OEC), che distribuiscono l’usufrutto della
terra alle famiglie contadine e/o alle cooperative di produzione agricola nei loro
villaggi.
Proprio nell’ottobre del 2008 le autorità centrali hanno presentato un progetto
di legge che tutelerà gli OEC dall’espropriazione di terre per i bisogni produttivi
delle imprese, per nuove strade, ferrovie, ecc., consentendo allo stesso tempo alle
famiglie contadine già usufruttuarie della terra un maggiore livello di protezione
socioproduttiva e politica.
Il terzo segmento socio produttivo che costituisce il mosaico della “linea rossa”
in Cina è costituito dal settore cooperativo, in particolar modo dalle imprese
cooperative industriali di villaggio, di proprietà di tutti gli abitanti dei villaggi o
municipi interessati, secondo una pratica produttiva regolarizzata da una legge
del 1990.
Il Fondo Monetario internazionale (2004) ha stimato che se già nel 1980 le cooperative
non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel
2003 la cifra era salita a più di 130 milioni di unità lavorative, rimanendo quasi
invariata negli ultimi cinque anni e coprendo circa il 20% dell’attuale forza lavorativa
cinese, anche se alcune di queste cooperative hanno perso il loro carattere
originario ed hanno subito un processo mascherato di privatizzazione.
Come ha notato G. Arrighi, il momento fondamentale per il processo di sviluppo
delle cooperative rurali non agricole è stato paradossalmente «l’introduzione,
nel 1978/1983, del sistema di responsabilizzazione familiare, che faceva tornare
il potere decisionale e il controllo sul sovrappiù agricolo alle famiglie, togliendoli
alle comuni. Inoltre nel 1979, e poi ancora nel 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti
di prodotti agricoli sono stati aumentati in misura significativa. Il
risultato è stato un aumento importante della produttività delle fattorie e dei redditi
agricoli, che a sua volta ha ringiovanito “l’antica” propensione delle comunità
e delle brigate agricole a cimentarsi anche nella produzione non agricola. Tramite
una serie di barriere istituzionali alla mobilità personale, il governo incoraggiava
il lavoratore agricolo a “lasciare la terra senza abbandonare il villaggio”. Nel 1983,
tuttavia, venne permesso ai residenti nelle aree rurali di intraprendere attività di
trasporto e di commercio anche a grande distanza, alla scopo di trovare sbocchi di
mercato ai loro prodotti. Era la prima volta nel corso di quella generazione che ai
contadini cinesi veniva consentito di condurre affari fuori dai confini del proprio
villaggio. Nel 1984 i regolamenti vennero ulteriormente addolciti, consentendo ai
191
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
contadini di andare a lavorare nelle città vicine per presentare la loro opera in organismi
collettivi noti come “imprese di municipalità e villaggio”.
Il risultato fu la crescita esplosiva della massa di forza-lavoro rurale impiegata
in attività non agricole, dai 28 milioni del 1978 ai 136 milioni del 2003, con gran
parte dell’aumento localizzato nelle imprese di municipalità e villaggio. Fra il 1980
e il 2004 le imprese di municipalità e villaggio hanno creato un numero di posti di
lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città delle imprese statali
o collettive. Nonostante fra il 1995 e il 2004 il tasso di crescita dell’occupazione nelle
imprese di municipalità e villaggio sia stato inferiore al tasso di disoccupazione
degli impieghi urbani statali e collettivi, il bilancio dell’intero periodo mostra che
alla fine le imprese di municipalità e villaggio occupano ancora più del doppio dei
lavoratori impiegati complessivamente nelle imprese urbane a proprietà straniera,
a proprietà privata e a proprietà mista.
Il dinamismo delle imprese rurali ha colto di sorpresa i dirigenti cinesi. Come
riconobbe Deng Xiaoping nel 1993, lo sviluppo delle imprese di municipalità e villaggio
“fu del tutto inatteso”. Da allora il governo è intervenuto per regolare e dare
una normativa alle imprese rurali e nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità
e villaggio è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o
del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese
fu però conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a
una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta
a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del
50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi
e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere
impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e
investimenti di nuove imprese».192
A fianco delle cooperative rurali (non agricole) di villaggio, tutt’ora esiste una
grande e variegata rete di cooperative agricole ed edilizie, di consumo e/o urbane,
che fanno parte della Federazione delle Cooperative cinesi, interessando in forme
diverse buona parte della popolazione cinese a partire da 10 milioni di persone che
lavorano direttamente per i loro interessi ancora nel 2003.
Nel 2002 ammontavano invece a circa 100 milioni gli associati delle cooperative
cinesi facenti parte dell’ Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003
le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno la
“modica” cifra di 1.193.000.000 di uomini e donne, associati a vario titolo.193
Un ulteriore tassello della “linea rossa” cinese viene costituito dal “tesorone”
di proprietà statale che è stato accumulato progressivamente dopo il 1977, dalla
massa enorme di valuta straniera e da titoli del tesoro esteri via via rastrellati negli
ultimi tre decenni dall’apparato statale cinese.
Mentre nel 1978 le riserve valutarie statali risultavano pari solo a tre miliardi
di dollari (M. Bergere), a fine giugno 2008 il “tesorone” di proprietà pubblica della
Cina ha raggiunto la cifra astronomica di 1810 miliardi di dollari ed un valore
192
ROBERTO SIDOLI
pari a circa il 50% del prodotto nazionale lordo (nominale) del paese: detta in altri
termini, al PIL cinese controllato dalle imprese statali va aggiunta un’altra massa
enorme di denaro e risorse di proprietà pubblica convertibili in ogni momento con
facilità, un’altra enorme quota di ricchezza saldamente in mano all’apparato statale
ed a disposizione dei bisogni dello stato e del popolo cinese.194
Un “tesorone” in via di progressivo aumento e che a fine 2009 ha raggiunto
quota 2400 miliardi di dollari, risultando equivalente già ora a quasi il triplo delle
riserve valutarie statali a disposizione del Giappone.
Oltre che dai “quattro anelli” principali sopra descritti,la supremazia (contrastata)
del settore socialista sull’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata
da numerosi altri strumenti, allo stesso tempo politici ed economici,
quali:
– Il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse
naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche.
– Il quasi totale monopolio statale del settore militar-industriale, spaziale e
delle telecomunicazioni.
– La politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze
etniche del paese), con i suoi positivi riflessi sia sull’economia che sul processo
complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese
asiatico.
– Il processo partigiano ed unidirezionale di concessione dei prestiti bancari,
denunciato da Dick Morris, i quali ancora nel primo decennio del ventunesimo
secolo vengono destinati nella loro grande maggioranza a favore del
settore statale e cooperativo, e solo per una porzione secondaria vanno alla
sfera privata.195
– L’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che
infatti se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale”, riconosciuti
persino da studiosi anticomunisti.196
– Il progressivo aumento negli ultimi dieci anni della quota del PIL cinese
amministrata direttamente dallo stato, percentuale passata dal 11% circa del
1998 fino al 23% circa del 2007.197
– Il processo relativamente esteso di riacquisto dell’intera proprietà di alcune
delle joint-ventures formatesi tra stato e multinazionali statali da parte del
contraente pubblico cinese, come testimoniato a denti stretti da Luigi Vinci
(Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico-sociale
economica cinese.198
– Molte delle principali multinazionali straniere che operano in Cina sono
state costrette ad accettare di costruire joint-ventures alla pari (50 e 50 per
cento) con aziende statali per poter operare in terra cinese, fuori dalle zone
speciali: ad esempio la Volkswagen ha creato fin dal 1984 una joint-venture
193
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata
in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc
– L’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica/
statale all’interno di imprese apparentemente capitalistiche, almeno a
maggioranza, a volte può ingannare. Basti pensare che se la Lenovo, una
delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli
occhi occidentali risulta di regola una compagnia privata, alla fine del febbraio
2008 almeno il 30% della Lenovo risultava in mano statale.
– Il potere reale di fissare” dall’alto” e per via politica i prezzi di alcuni beni
e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina , grano, latte
e uova, al fine di combattere l’allora crescente inflazione (misure analoghe
vennero prese nel 1996 e 2003)
– Il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione
quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, sistema ferroviario e
stradale, ponti e sistema di internet, la ricerca scientifica ed il settore hightech,
ecc.
– Il processo di creazione e riproduzione di nuovi settori produttivi attraverso
l’azione statale, come sta avvenendo per la fusione termonucleare (progetto
East, già in funzione), i supercomputer made in China ed il nuovo polo
aeronautico civile autoctono (gestito e finanziato direttamente dalla sfera
pubblica con l’erogazione della notevole somma di 19 miliardi di yuan, a
partire dall’estate del 2008), le nanotecnologie e le infrastrutture per telecomunicazioni,
ecc.199
Questi importanti strumenti politico-economici di controllo e direzione statale
si collegano dialetticamente tra loro, rafforzando ulteriormente i “quattro anelli”
fondamentali che riproducono costantemente l’egemonia contrastata del settore
socialista nel processo di sviluppo dell’articolata formazione economico-sociale cinese,
durante il primo decennio del nuovo secolo.
Certo, se le prime 43 imprese statali della “top 500″ del 2008 venissero privatizzate…
Certo, se le 349 grandi imprese statali / a maggioranza statali della “top 500″
venissero privatizzate in Cina, come è successo nell’ex-blocco sovietico tra il 1989
ed il 1998…
Se venissero privatizzati il suolo e le risorse naturali cinesi, come è avvenuto del
resto nell’ex-blocco sovietico tra il 1989 ed il 1998…
Se il settore cooperativo cinese scomparisse, o venisse inglobato all’interno della
sfera capitalistica, autoctona o estera…
Se il “tesorone” sopraccitato venisse progressivamente destinato a riempire le
tasche delle grandi imprese private del paese, o delle multinazionali estere…
194
ROBERTO SIDOLI
Se scomparisse il quasi-monopolio statale sulle risorse naturali del paese, sul
settore delle telecomunicazioni nell’industria degli armamenti a favore del “privato”…
Se la quota statale della joint-ventures con le multinazionali estere fosse svenduta
a basso prezzo, certo, in questo ipotetico (ma non impossibile, visto l’effetto
di sdoppiamento post-9000 a.C.) scenario la configurazione concreta dei rapporti
di produzione cinesi all’inizio del terzo millennio cambierebbe radicalmente e si
affermerebbe, come nella Russia post-1991, una forma chimicamente (quasi) pura
di capitalismo monopolistico di stato, attraverso processi giganteschi di privatizzazioni
delle forze produttive sociali e delle condizioni generali della produzione,:
che davvero trasformerebbero la Cina attuale in un nuovo Eldorado per il capitalismo
internazionale.
Ma a tutt’oggi non è questa la situazione dei rapporti sociali di produzione in
Cina, mentre lo scenario sopra delineato rappresenta a mio avviso solo un ipotesi
rispetto alla dinamica futura del paese, anche perché i dirigenti del PCC hanno
studiato a lungo le dinamiche concrete e le principali ragioni materiali (code, penuria
di generi di consumo) del crollo sovietico del 1988/91.
Proprio l’egemonia (contrastata) della “linea rossa”all’interno dell’articolata
formazione economico-sociale cinese spiega, tra molti altri fenomeni, l’assenza di
crisi globali di sovrapproduzione nel gigantesco paese asiatico durante gli ultimi
tre decenni, la solida tenuta della Cina rispetto alla gigantesca crisi finanziaria che
ha colpito l’Asia durante il biennio 1997/98: strani “fenomeni”, non spiegabili assolutamente
con un ipotetico potere “magico” posseduto dal PCC e dal popolo
cinese.
Nella Cina contemporanea, tuttavia, non esiste e non si riproduce continuamente
solo la “linea rossa”, ma sussiste alla luce del sole e legalmente -a differenza che
in Unione Sovietica dopo il 1929- una potente “linea nera” che opera apertamente
all’interno della “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese, fin dal 1977/80
ed arrivando ai nostri giorni.
La sfera capitalistica in Cina si divide nel settore in mano cinese (comprendendo
al suo interno anche i capitali provenienti da Taiwan, Hong Kong e dalla diaspora
cinese in Asia), nella sfera produttiva invece controllata dalle multinazionali
straniere e nella “variante cinese” del capitalismo di stato.
L’estensione quantitativa della “linea nera”, di matrice sia autoctona che straniera,
risulta notevole ed in crescita continua almeno fino al 2007: alla fine di settembre
del 2007 la Cina vedeva ormai 5,3 milioni di imprese private regolarmente
registrate nel paese, il cui flusso complessivo di affari risultava pari a 8,8 migliaia
di miliardi di yuan con 70,6 milioni di persone impegnate al loro interno.200
Anche se si tratta di risultati e cifre assai consistenti, siamo in ogni caso molto
lontani dalla massa di mezzi di produzione e di vendite (18 migliaia di miliardi di
yuan nel 2007), di risorse materiali/finanziarie e di occupati messi in campo dal
settore statale e cooperativo: invece la sfera privata era superiore nel livello medio
195
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
dei profitti raggiunti nel 2007, i quali nel solo settore industriale / grandi imprese
avevano raggiunto 400 miliardi di yuan da gennaio a novembre 2007.201
Dopo essersi sviluppate per più di un decennio nelle “zone speciali” del
Guandong, a loro volta le multinazionali estere nel 2006 occupavano circa 10 milioni
di forza- lavoro cinese, esprimendo una composizione organica del capitale
in media molto superiore a quella delle imprese private cinesi; inoltre le multinazionali
straniere controllavano a volte delle quote significative, seppur in qualità
di soci di minoranza, delle imprese a controllo prevalentemente statale, tanto che
a partire dal 2006 avevano acquisito circa il 10% delle azioni di alcune delle principali
banche pubbliche cinesi.
Da alcuni decenni si riproduce inoltre in Cina una rete molto diffusa di imprese
sommerse, che sfuggono in larga parte al controllo e (fisco) statale: il “lavoro
nero”, secondo alcune stime, fornisce quasi il10% del PIL cinese e occupa al suo
interno decine di milioni di persone, mentre nel settore illegale dell’economia si
trova anche la ricchezza posseduta dai funzionari corrotti del partito comunista
cinese, visto che una parte minoritaria, ma non irrilevante dei quadri del partito si
appropria sotto molteplici forme illecite dei fondi pubblici e della stessa proprietà
di alcune aziende statali. Si tratta di una riedizione in terra cinese della variante
sovietica del capitalismo di stato, descritta in precedenza, che nella formazione
economico-sociale cinese attuale costituisce solo una sezione minoritaria, seppur
non trascurabile, della tendenza capitalistica nel gigantesco paese asiatico.
In ogni caso, nella Cina post-1976 la coesistenza conflittuale e simultanea tra
rapporti di produzione collettivistici da un lato, e relazioni di produzione capitalistiche
dall’altro, costituisce un fenomeno innegabile e che avviene alla luce del
sole, come nell’Unione Sovietica della NEP tra il 1921 ed il 1928.
Un discorso a parte vale invece per la “linea bianca”, che si riproduce dal
1978/80 all’interno della complessa formazione economico-sociale cinese e che si
materializza nelle centinaia di milioni di contadini autonomi dell’immenso paese,
con una propria azienda ed un terreno ottenuto in usufrutto pluridecennale dello
stato.
Nel 2003 il numero di agricoltori del paese era pari a 318 milioni di unità: una
massa enorme di persone, che tuttavia era in sensibile riduzione rispetto al picco
di 368 milioni raggiunto nel 1990 con un trend inevitabile anche nel futuro, visto lo
sviluppo tecnologico-produttivo del paese e la progressiva migrazione della popolazione
rurale verso la città: l’intero settore agricolo, comprendendo al suo interno
anche le cooperative agricole, ormai contribuiva nel 2007 per meno del 10% all’intero
prodotto interno lordo cinese.202
Seppur in via di progressiva diminuzione quantitativa, a partire dal 2002 i contadini
autonomi cinesi sono diventati il secondo “cocco di mamma” del governo,
dopo le imprese statali/cooperative, beneficiando di alcuni importanti provvedimenti
politico-economici:
196
ROBERTO SIDOLI
– L’eliminazione totale di alcune tasse statali poste in precedenza a carico di
contadini cinesi, a partire dall’inizio 2006.
– L’enorme aumento dei sussidi statali al settore agricolo, arrivati alla somma
di 42,7 miliardi di yuan del 2007 con un aumento di ben il 62% rispetto
all’anno precedente.
– L’eliminazione totale del 2007 di tutte le tasse ed imposte nei distretti e province
più povere delle regioni centrali ed occidentali del paese, in cui vive
una popolazione pari a diverse decine di milioni di unità.203
In ogni caso, la contraddizione principale esistente tuttora all’interno della
complessa e variegata formazione economica-sociale cinese rimane da tre decenni
quella tra “linea rossa” e “linea nera”: quest’ultima, con i suoi concreti agenti
socio-produttivi, sarebbe estremamente felice di inglobare ed annettersi la sfera
produttiva statale e cooperativa a prezzi di svendita, come è già successo nell’exblocco
sovietico tra il 1989 ed il 1999, grazie alla comparsa di nuovi e favorevoli
rapporti di forza politici a Pechino.
La coesistenza e competizione che avviene attualmente all’interno del sistema
socioproduttivo cinese tra “linea rossa” e “linea nera” non cade ovviamente dal
cielo, ma è il risultato principalmente di una strategia di lungo periodo adottata
per via politica, attorno al 1976/78, dalla direzione del PCC grazie alla progettualità
e pratica di Deng Xiaoping. Essa riprende e traduce in terra cinese, con alcune
significative correzioni, la NEP (Nuova Politica Economica) introdotta da Lenin in
Unione Sovietica e che perdurò dal 1921 al 1928 al suo interno: per comprendere il
vero significato della NEP cinese, bisogna prima analizzare quella sovietica.
La NEP leninista prevedeva ed ammetteva apertamente proprio uno “sdoppiamento”
del tessuto produttivo sovietico con la coesistenza conflittuale, ma tendenzialmente
di lungo periodo, e la competizione continua tra il settore socialista e
quello capitalistico (anche di multinazionali straniere) all’interno della composita
formazione economico-sociale sovietica, contraddistinta anche dalla compresenza
di un “terzo protagonista” al suo interno, i contadini medi, capaci di assicurare la
propria riproduzione possedendo e coltivando un fondo autonomo di proprietà
dello stato, in base al già citato decreto sovietico dell’ottobre del 1917.
In ogni caso, per spostare via via i rapporti di forza nello “sdoppiamento” creatosi
tra settore socialista e sfera capitalista, Lenin (“Sulla cooperazione”, 6 gennaio
1923) aveva insistito con forza sullo sviluppo progressivo del processo di cooperazione
volontaria tra i contadini sovietici, inteso come forma fondamentale di
transizione dell’URSS verso una “società socialista integrale”. Non a caso Lenin
affermò nel gennaio del 1923 che «in realtà, il potere dello stato su tutti i grandi
mezzi di produzione» (la “linea rossa” in URSS), «il potere dello stato nelle mani
del proletariato, l’alleanza di questo proletariato con milioni e milioni di contadini
poveri e poverissimi, la garanzia della direzione dei contadini da parte del proletariato,
ecc., non è forse questo tutto ciò che occorre per potere, con la cooperazione,
197
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
con la sola cooperazione, che noi una volta consideravamo dall’alto in basso come
affare da bottegai e che ora, durante la NEP, abbiamo ancora il diritto, in un certo
senso, di considerare allo stesso modo, non è forse questo tutto ciò che è necessario
per condurre a termine la costruzione di una società socialista integrale? Questo
non è ancora la costruzione della società socialista, ma è tutto ciò che è necessario
per condurre a termine la costruzione.
Appunto in ciò sta di bel nuovo l’essenziale. Una cosa è fantasticare in merito
ad ogni sorta di associazioni operaie per edificare il socialismo; altra cosa è imparare
praticamente a edificare questo socialismo in modo che ogni piccolo contadino
possa partecipare a questa costruzione. Tale stadio noi l’abbiamo ora raggiunto.
Ma è indubbio che, avendolo raggiunto, noi lo utilizziamo in modo troppo insufficiente
».204
Lenin inoltre aggiunse volutamente, per evitare a priori equivoci e fraintendimenti
“alla Isuv”, che le cooperative “nel nostro regime attuale” del 1923 appartenevano
a pieno titolo alla “linea rossa” assieme alle aziende socialiste, distinguendosi
invece nettamente dalle “aziende capitalistiche private”, che componevano
allora (compongono tuttora) un pezzo fondamentale della “linea nera” socioproduttiva.
«Nel nostro regime attuale le aziende cooperative si distinguono dalle aziende
capitaliste private in quanto sono aziende collettive, ma non si distinguono dalle
aziende socialiste, perché sono fondate sulla terra e sui mezzi di produzione che
appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia».205
Infine il grande rivoluzionario russo non intese l’URSS della NEP come “un
regno della grettezza contadina”, ma viceversa in qualità di un gigantesco campo
d’azione, in cui lo stato socialista ed il settore pubblico sarebbero riusciti progressivamente
ad attivare un processo gigantesco di riproduzione allargata della produzione
in URSS, partendo ovviamente dal settore economico allora più arretrato
nel gigantesco paese eurasiatico, l’industria pesante. In uno dei suoi ultimi scritti,
“Meglio meno, ma meglio”, Lenin notò che in URSS bisognava “con la più grande
economia” eliminare “dai rapporti sociali ogni traccia di sperpero”. E si chiese
“Non sarà questo il regno della grandezza contadina? No. Se la classe operaia continua
a dirigere i contadini avremo la possibilità, gestendo il nostro stato con la
massima economia, di far si che ogni piccolo risparmio serva a sviluppare la nostra
industria meccanica, a sviluppare l’elettrificazione, l’estrazione idraulica della torba,
a condurre a termine la centrale elettrica del Volkov, ecc.206
Torniamo a questo punto alla Cina contemporanea.
Avendo come parametro temporale una prospettiva pluridecennale, di lungo
respiro e che interessava direttamente più di un quinto della popolazione del pianeta,
Deng Xiaoping ed il partito comunista cinese adottarono in modo autonomo
e creativo la via strategica della NEP, estremizzando la sua “variante accelerata”
del 1926/28; quando in Unione Sovietica si iniziò a riprendere il discorso leninista
sulla necessità di uno sviluppo il più rapido possibile della “grande industria mec198
ROBERTO SIDOLI
canica, dell’elettrificazione” e quando ormai lo stesso Bucharin aveva abbandonato
la sua precedente tesi sulla via “al socialismo a passo di lumaca”, come è stato
costretto ad ammettere anche uno dei più autorevoli biografi.207
I dirigenti cinesi adottarono dopo il 1977, in estrema sintesi, una NEP “ad alta
velocità” .
Non a caso, a partire dal 2000, la percentuale di investimenti/ammortamenti
rispetto al prodotto nazionale lordo cinese è arrivata fino al 40% circa, in gran
parte espressi da parte statale. Tasso percentuale che costituisce una delle cause
principali del (trentennale) miracolo produttivo cinese e dello sviluppo eccezionale
mantenuto da Pechino anche nel biennio 2008/2009, durante la durissima crisi
economica subita nello stesso periodo dal capitalismo occidentale, oltre che ritmo
di accumulazione che supera persino quello sovietico del 1928/32, in piena epoca
stalinista e durante gli “eroici furori” del primo piano quinquennale..
Deng Xiaoping, fin dal 1975/77, aveva enunciato e poi applicato una strategia
a lungo termine che prevedeva una prolungata fase di coesistenza e competizione
tra settore socialista e sfera capitalistica all’interno della Cina, sempre tesa a rendere
il paese una superpotenza economica mondiale.
Il cardine fondamentale della NEP cinese e del “grande progetto” denghista era
costituito proprio dalla coesistenza conflittuale tra un settore economico socialista,
di matrice sia statale che cooperativa, egemone nella formazione economico-sociale
del paese, una sfera produttiva sotto il controllo/possesso del capitalismo privato
autoctono ed internazionale ed un ampio segmento di produttori autonomi
rurali, di contadini che potevano e possono tutt’ora godere dell’usufrutto pluridecennale
della terra e vendere larga parte del prodotto delle loro attività produttive
individuali.
Rispettando le previsioni ed il progetto iniziale, una “linea rossa” collettivistica
(ed egemone) si è confrontata fino ad ora per un lungo periodo con la “linea nera”
capitalistica ed una “linea bianca” di piccoli contadini all’interno della sfera dei
rapporti di produzione e della sfera produttiva cinese, come avvenne in URSS dal
1921 al 1929: ancora il 17 gennaio del 1979, Deng Xiaoping affermò pubblicamente
che il partito comunista cinese “avrebbe dovuto permettere ai vecchi capitalisti e
uomini di affari cinesi di giocare un ruolo” nell’economia della nazione, mentre a
partire dal 1978 gli investimenti delle multinazionali straniere iniziarono via via
a giocare un ruolo sempre più significativo nell’economia cinese, iniziando dalle
“zone speciali” di Shenzen.208
Per quanto riguarda il settore agricolo, a partire dal 1981 i terreni vennero in
gran parte divisi tra le famiglie contadine, anche se si mantenne (e vige tuttora) il
diritto di proprietà collettiva sui suoli rurali dei quali i produttori autonomi hanno
l’usufrutto, come avvenne del resto in Unione Sovietica tra il 1917 ed il 1929 e prima
della grande ondata di collettivizzazione nelle campagne.209
Oltre alla coesistenza tra mercato ed intervento dei meccanismi di pianificazione
centrale, un ulteriore elemento costitutivo della NEP cinese era in passato, ed
199
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
è tuttora la ricerca costante e tenace di un rapido sviluppo delle forze produttive,
visto come base indispensabile per l’indispensabile e progressivo aumento del benessere
materiale e culturale dei produttori diretti, sia urbani che rurali: veniva e
viene rifiutata alla radice qualunque concezione pauperistica del socialismo, assieme
all’egualitarismo ed al rifiuto degli incentivi materiali.
Fin dal 1975 Deng Xiaoping elaborò tre importanti documenti, che ebbero larga
diffusione e popolarità nel partito.
«Il primo e il più importante di questi, s’intitola Programma generale di lavoro
per l’insieme del Partito e della nazione, attacca gli ideologi radicali, che tratta
da”metafisici” ossessionati dalla politica, dimentichi dell’economia, i quali pensano
solo a favorire la rivoluzione e non nutrono nessun interesse per la produzione,
pseudomarxisti incapaci di garantire la “liberazione delle forze produttive”.Gli altri
due documenti, Alcuni problemi concernenti l’accelerazione dello sviluppo industriale
e Diversi problemi nel campo della scienza e della tecnologia, sviluppano e precisano
questi temi. L’egualitarismo è impossibile.
La remunerazione deve tener conto delle differenze di competenza, della qualità
e della quantità del lavoro fornito. La riabilitazione degli esperti va di pari passo
con quella degli incentivi materiali. Quanto agli esperti “bianchi”, dal momento
che lavorano nell’interesse della Repubblica popolare di Cina, valgono più di quelli
che non fanno niente, provocano scontri tra fazioni e bloccano tutto».210
Più volte Deng ribadì che «per sostenere il socialismo noi dobbiamo eliminare
la povertà», rilevando che «durante la rivoluzione culturale la “banda dei quattro”
lanciò slogan assurdi quali “meglio essere poveri sotto il socialismo e comunismo
che essere ricchi sotto il capitalismo”.Ma come si può esigere di essere poveri sotto
il socialismo ed il comunismo?… Così, per costruire il socialismo è necessario sviluppare
le forze produttive. Povertà non è socialismo. Per sostenere il socialismo,
un socialismo che sia superiore al capitalismo,rappresenta un imperativo in primo
luogo e soprattutto eliminare la povertà».211
Deng era perfettamente cosciente della durissima realtà materiale subita degli
operai cinesi durante gli anni Sessanta / Settanta, pericolosamente vicina alla linea
di povertà assoluta persino in grandi città come Pechino, anche se relativamente
distante dalla fame/morte per inedia tipica degli anni venti/quaranta, e proprio
sua figlia Deng Rong descrisse la sua iniziazione al quartiere operaio di Fanghzhai
a Pechino, quando nell’estate del 1967 suo padre venne incarcerato costringendo
lei ed i suoi fratelli ad abbandonare il quartiere riservato agli alti funzionari del
partito, a Zhongnanhai.
«Non saprei in quale altro modo definire il posto in cui stavamo a Zhongnanhai,
se non come una sorta di “torre d’avorio”. Qui a Fanghuzhai, invece, eravamo senza
alcun dubbio nel mondo reale.
Gli operai e gli impiegati del Gabinetto del Comitato centrale nostri coinquilini
ci trattavano abbastanza bene, forse dietro ordine di qualcuno. Appena arrivati,
molti ci chiesero se avevamo bisogno di qualcosa. Ci diedero dei porri e della salsa
200
ROBERTO SIDOLI
di soia. Avevamo ancora in mente Zhongnanhai e quel posto ci sembrava vecchia e
cadente, ma gli operai e gli impiegati erano sempre vissuti là con le loro famiglie.
Non pensavano che ci fosse nulla di sbagliato e noi iniziammo a capire che la
gente comune viveva così. I loro stipendi erano bassissimi – da venti yuan al mese
in su. Al massimo, quaranta. E questo stesso doveva bastare per una famiglia di
tre generazione. Molte mogli per arrotondare incollavano scatole di cartone o di
fiammiferi. In molte case i letti erano semplici tavole appoggiate su due lunghe
panche sulle quali si coricava l’intera famiglia. I pasti consistevano in focaccine di
farina di mais e verdure salate. Se c’erano i tagliolini fritti in salsa di soia con un po’
di carne trita era già una festa. I vestiti erano pieni di toppe. I bambini erano quelli
che subivano le privazioni maggiori, ed erano fortunati se riuscivano a difendersi
dal freddo.
Di che cosa potevamo lamentarci? Non avevamo il diritto di essere insoddisfatti.
Imparammo a vivere come quelle famiglie di operai. Prendevamo l’acqua dal
rubinetto in cortile. Usavamo i bagni pubblici nel vicolo. Presentavamo i buoni
per comprare le granaglie allo spaccio dei cereali, mostravamo il nostro libricino al
deposito di carbone per comprarne. In quegli anni i cereali, il carbone, l’olio commestibile
e molti altri prodotti scarseggiavano ed erano razionati.
Nei periodi festivi, ci mettevamo in coda come gli altri per comprare dei funghetti,
dei Fiori Gialli, delle spezie, che nei giorni feriali non si trovavano in vendita.
Il formaggio di soia si vendeva una volta alla settimana, e quel giorno dovevamo
alzarci alle quattro o cinque del mattino…»212
Il quarto elemento costitutivo del progetto di lungo respiro di Deng era (ed è
tuttora) la ricerca costante e la pratica politico-economica finalizzata a far assurgere
nel medio periodo la Cina popolare nel ruolo di prima potenza economica mondiale,
superando per prodotto interno lordo globale gli Stati Uniti e cambiando
pertanto profondamente i rapporti di forza mondiali, sotto tutti gli aspetti fondamentali
e con tutta una serie di notevoli, positive ricadute di portata mondiale.
Ancora nel marzo del 1975, Deng affermò che «la nostra economia dovrà espandersi
in due fasi. Nella prima verranno creati entro il 1980 un sistema industriale
e un’economia nazionale indipendenti e relativamente completi. Nella seconda, la
Cina sarà trasformata, entro la fine del XX secolo, e cioè entro i prossimi venticinque
anni, in una potenza socialista con una moderna agricoltura, industria, difesa
nazionale, scienza e tecnologia. L’intero Partito e l’intero paese dovranno impegnarsi
per raggiungere questo superbo obbiettivo. È una questione di primaria
importanza…»213
Deng sapeva benissimo che, in una nazione con un territorio pari a 9,57 milioni
di km e una popolazione superiore di più di quattro volte rispetto a quella
statunitense, il raggiungimento di un veloce e costante tasso di crescita (attorno
all’8% annuo) nell’economia del paese avrebbe portato inevitabilmente la Cina a
raggiungere, e poi superare gli USA per massa globale di forze produttive e di ric201
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
chezza reale nel giro di alcuni decenni, anche rimanendo molto distante in termini
di reddito e produttività pro-capite al gigante americano: i numeri stavano e stanno
tuttora dalla parte della Cina, seppur solo nel medio-lungo periodo, a patto di
riuscire a conservare sia la stabilità politico-sociale che una continua riproduzione
allargata del processo produttivo del paese.
Deng Xiaoping commise sicuramente dei seri errori, specialmente in politica
estera agli inizi degli anni Ottanta (individuazione dell’URSS come nemico principale;
teoria dell’inevitabilità della terza guerra mondiale), ma fu il cervello e l’artefice
di una politica economica finora di eccezionale successo, nel suo insieme.
Alla fine del 2009 e sessant’anni dopo la fondazione della Repubblica Popolare
Cinese (1 ottobre 1949), la scommessa strategica di Deng sulla NEP e sullo “sdoppiamento”
ha finora dato prevalentemente dei buoni frutti, seppur tra pesanti
contraddizioni interne ed innescando tutta una serie di innegabili lati negativi in
campo socioproduttivo: aumento delle disuguaglianze sociali tra città e campagne
e formazione di una potente borghesia autoctona (seppur quasi priva di potere
politico, fino ad ora); presenza massiccia delle multinazionali in terra cinese, a partire
dalle “zone speciali” del Guandong, seri problemi ambientali, corruzione di
una parte dei quadri del PCC e dei manager delle industrie pubbliche, ancora alto
livello di infortuni nei posti di lavoro, ecc.
A mio avviso, tuttavia, il lato positivo supera nettamente quello negativo visto:
– la persistente egemonia, seppur contrastata, dei rapporti di produzione/
distribuzione collettivistici all’interno della formazione economico-sociale cinese;
– la crescita produttiva esponenziale raggiunta dalla Cina tra il 1978 ed il 2009,
che l’ha portata a diventare in tre decenni la prima superpotenza economica
del pianeta ed a scavalcare gli Stati Uniti in termini di prodotto nazionale lordo,
sempre a parità di potere d’acquisto;
– l’enorme aumento del potere d’acquisto reale degli operai e dei contadini
cinesi, al netto dell’inflazione. Dal 1978 fino ad oggi, anche secondo molti
esperti occidentali, il reddito reale degli operai è aumentato di almeno sei volte
e quello dei contadini di circa cinque volte, tanto che il numero degli agricoltori
poveri, appena in grado di sfamarsi e vestirsi tra mille stenti, è calato
vertiginosamente dai ben 250 (duecentocinquanta) milioni del tardo periodo
maoista (1977) agli attuali 15 milioni. Sempre quindici milioni di troppo, certo,
ma ben il 92% in meno della (presunta) epoca “gloriosa” della rivoluzione
culturale del 1966/76, idealizzata in buona fede dal maoismo occidentale;214
– l’alto livello di risparmio mantenuto dagli operai, impiegati e contadini cinesi,
in presenza di una offerta ampia e multilaterale di generi di consumo (a
differenza che nell’esperienza sovietica): un tasso di risparmio che, nel 2004,
risultava pari a circa un quarto del reddito disponibile alle famiglie.215
202
ROBERTO SIDOLI
Attualmente la Cina non costituisce solo la fabbrica, ma anche “il salvadanaio”
principale del mondo.
A questo punto si possono analizzare le ricadute, concrete e positive, dell’esperienza
socioproduttiva (e politica) della Cina contemporanea sulla teoria dell’effetto
di sdoppiamento.
Sotto questo profilo, tutti i fatti testardi e tutti i processi sviluppatisi all’interno
della formazione economico-sociale negli ultimi tre decenni portano ad una sola
ed evidente conclusione, e cioè che la Cina si è realmente sdoppiata come tessuto
socioproduttivo e nelle sue relazioni sociali di produzione-distribuzione.
Si è realmente creata e sviluppata una “linea nera” socioproduttiva che, a partire
dal 1977, alla luce del sole e legalmente, si è affiancata all’alternativa “linea rossa”.
Come la NEP leninista del 1921/28, anche la NEP cinese del 1978/2010 conferma
con particolare evidenza l’esistenza di un processo di coesistenza conflittuale tra
due tendenze socioproduttive alternative: tra l’altro in forme aperte e non nascoste
come avvenne invece nella dinamica sovietica del 1930/90 con la riproduzione
reale, ma illegale e clandestina, del “connubio” tra mafie protocapitalistiche ed i
funzionari/manager corrotti della nomenklatura.
Detto in altri termini, a partire dal 1978/79 ed a parità approssimativa nel livello
di sviluppo qualitativo delle forze produttive, operano e si fanno concorrenza
diretta sul suolo cinese le acciaierie di proprietà privata (autoctona o cinese) e quelle
invece di proprietà statale, banche private ed istituti finanziari pubblici, imprese
petrolifere pubbliche e multinazionali straniere che operano in questo campo, in
un elenco che può essere allungato a piacere e spesso all’interno di una competizione
economica particolarmente feroce.
Secondo il grande storico Giovanni Arrighi, da poco scomparso, proprio in Cina
la dinamica della concorrenza produttiva ha assunto infatti forme acute e ormai
quasi sconosciute nei reali, concreti capitalismi monopolistici di stato dell’occidente.
A giudizio di Arrighi, esiste un’altra particolare caratteristica della «transizione
cinese all’economia di mercato che suggerisce cautela nell’identificarla con una
transizione al capitalismo tout court. Si tratta dell’attivo incoraggiamento della
concorrenza da parte del governo non solo fra i capitali provenienti dall’estero, ma
fra tutti i capitali, stranieri o cinesi, privati o pubblici che siano. Anzi, dalle riforme
è venuto un segnale assai più forte in direzione dell’aumento della concorrenza
per mezzo della rottura dei monopoli nazionali e dell’eliminazione delle barriere
che in direzione della privatizzazione».216
Coesistenza alla luce del sole, e competizione alla luce del sole tra le due tendenze
principali del processo produttivo cinese all’inizio del terzo millennio; effetto
di sdoppiamento innegabile e plateale tra “linea rossa” e “linea nera”, quindi,
nella Cina contemporanea.
Tra l’altro l’effetto di sdoppiamento in Cina emerge ancora più marcatamente se
si prendono in esame anche le realtà socioproduttive cinesi di Hong Kong, Macao
e Taiwan, nelle quali è continuato a dominare il capitalismo di stato anche dopo il
203
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
1949 e fino ai nostri giorni, le cui relazioni con la Cina continentale sono imperniate
da circa tre decenni sul principio “una nazione, due sistemi”: una sola nazione, la
Cina (ivi comprese Hong Kong, Macao e Taiwan) e due diversi sistemi socioproduttivi
(e politici), quello prevalentemente collettivistico della Cina continentale e
quello capitalistico di stato, invece centrale a Hong Kong, Macao e Taiwan.
Come prevede del resto lo schema storico generale in via di esposizione, è emerso
il ruolo centrale della sfera politico-sociale e dei rapporti di forza politico-sociali
nel determinare via via l’egemonia dell’una o dell’altra tendenza socioproduttiva,
oltre che il raggio d’azione delle due “linee”alternative in campo economico nella
Cina contemporanea.
Un ruolo non solo centrale , ma anche platealmente ed immediatamente essenziale.
Infatti da un lato la progettualità/pratica politico-economica della direzione del
PCC è stata sicuramente decisiva nel creare gli spazi d’azione ed i margini di manovra,
materiali e legali, per l’espansione vertiginosa del capitalismo privato (autoctono/
straniero) in Cina attraverso la costruzione delle zone speciali di Shenzen,
la (limitata) privatizzazione di alcune aziende statali cinesi in crisi, l’emergere di
joint-ventures con il benestare delle autorità statali tra multinazionali occidentali e
imprese pubbliche, e più in generale con il permesso -sottoposto a precisi limiti e
regole- politico di fondo alla stesso processo di accumulazione privata in Cina, uno
degli aspetti più importanti della NEP cinese.
Ma, allo stesso tempo, è stato sempre lo stesso PCC ad imporre limiti e regole
ben precise all’espansione del capitalismo e della “linea nera” in Cina, e soprattutto
a sostenere direttamente la “linea rossa”: ottenendo in pochi anni, con generose
iniezioni di fondi pubblici, lo spettacolare risanamento delle banche statali cinesi,
aumentando enormemente a partire dal 2000 la massa d’affari e di profitti delle industrie
statali, continuando a far si (come lamentato dal sopraccitato Dick Morris)
che queste ultime ricevessero la parte del leone dell’insieme dei finanziamenti
bancari e pubblici, stimolando le cooperative di villaggio e il credito cooperativo
rurale, ecc.
Non sono certo “caduti dal cielo” fenomeni come la conservazione della proprietà
statale del suolo in Cina, il processo di accumulazione dell’enorme “tesorone”
attualmente nelle mani dell’apparato statale cinese, l’enorme aumento dei
fondi pubblici destinati alla ricerca scientifico-tecnologica, le grandiose opere pubbliche
relative alle infrastrutture (autostrade, ferrovie, aeroporti, telecomunicazioni,
ecc.), ecc.
Oltre al sostegno diretto, la tendenza collettivistica ha inoltre ottenuto indirettamente
un ulteriore e fondamentale aiuto dal nucleo dirigente politico e dagli apparati
statali col fatto che questi ultimi, a partire dal 1978 fino ad oggi, hanno avviato
solo dei processi molto limitati di privatizzazione dei mezzi di produzione e delle
banche pubbliche, in proporzioni e con modalità completamente diversi da quelli
invece creatisi nell’ex-Unione Sovietica tra il 1989 e gli inizi del terzo millennio.
204
ROBERTO SIDOLI
Pienamente possibile dal punto di vista socioproduttivo, anche in virtù del solito
effetto di sdoppiamento, un ampio e multilaterale processo di privatizzazione del
suolo, delle ricchezze naturali, delle banche statali e delle industrie pubbliche è
stato rifiutato a priori proprio dal PCC e dalla sua direzione; confermando in tal
modo che aveva sicuramente ragione Jujian Guo, ex analista politico del partito
comunista emigrato negli Stati Uniti, quando nell’agosto del 2003 rilevò che «privatizzare
le enormi proprietà dello stato» (cinese) «col sistema e la struttura politica
esistente» (sempre in Cina) «è un vero problema ed è tecnicamente impossibile.
L’esperienza di altri paesi ex-comunisti ha mostrato che non vi è neppure un caso
in cui le privatizzazioni avrebbero potuto avvenire, se il partito comunista fosse
rimasto al potere e il suo sistema politico intatto».217
Se la sfera politica risulta sempre, almeno in parte, “espressione concentrata
dell’economia” (Lenin , gennaio 1921), tale tesi generale è risultata vera al massimo
grado per la dinamica di sviluppo della Cina Popolare, nella quale sfera politica
e processo produttivo sono stati e sono tuttora strettamente interconnessi, interagendo
reciprocamente tra loro con un netto primato del primo spazio d’azione
umano sul secondo.
I nuclei dirigenti del PCC che si sono succeduti al potere, dal 1978 fino ad oggi,
sono stati gli artefici principali ed i “guardiani” sia della conservazione sostanziale
che del gigantesco processo di riproduzione allargato del settore statale in Cina.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, tanto che proprio la rivista anticomunista
“Time” è stata costretta ad ammettere, nell’aprile del 2009, ” che le imprese statali
della Cina stanno facendo un grande ritorno”, dato che molte di esse “sono cresciute
e diventate giganti, eclissando le relativamente giovani imprese private”:
processo che hanno assunto, sempre secondo la rivista americana, un ritmo accelerato
nel biennio 2008/2009, dato che il grande piano di investimenti pubblici
approvato nell’autunno del 2008 ha in pratica favorito quasi solo “i giganti di
proprietà statale”, mentre le imprese private sono state lasciate “in larga parte ad
arrangiarsi da sole”, sempre secondo la rivista statunitense.218
A differenza che nel reale capitalismo di stato occidentale, si è verificata nella
Cina del 2008/2009 molta socializzazione dei profitti (pubblici), e molto poca socializzazione
delle perdite (private).
La sfera pubblica e cooperativa, i rapporti di produzione collettivisti e la “linea
rossa”, continuano pertanto ad avere tuttora un ruolo egemone, soprattutto grazie
alla praxis politica-economica del PCC, all’interno della variegata formazione economica-
sociale cinese.
Anche se in futuro emergessero nuove dinamiche in grado di ampliare notevolmente
le dimensioni quantitative in Cina della “linea nera” , rimarrebbe in ogni
caso la certezza che le imprese statali (non finanziarie) hanno espresso nel 2009 un
giro di affari pari a più di 20 trilioni di yuan ed a circa tremila miliardi di dollari,
cifra e quantità che rende la sfera collettivistica in ogni caso non-residuale ed assai
rilevante all’interno del processo produttivo della Cina contemporanea.
205
La Cina contemporanea e l’effetto di sdoppiamento
Già ora, pertanto, si può concludere con sicurezza che l’effetto di sdoppiamento
dimostri la sua persistenza storica proprio in un paese nel quale attualmente vive
un quinto della popolazione mondiale, e proprio nella nazione che a partire dal
2009 è ormai diventata la prima potenza economica del pianeta, scavalcando (a
parità di potere d’acquisto) gli Stati Uniti in termini di prodotto nazionale lordo.
Logica obiezione: ma perché i dati forniti sembrano subito tanto “alieni” e contrari
“al senso comune” della sinistra? Il fatto è che nei mass-media occidentali, e
della stessa sinistra occidentale, le informazioni sulla Cina vengono filtrate e selezionate
con estrema cura, passando quasi sempre attraverso il prisma e lo schema
di interpretazione secondo il quale la Cina è ormai da tempo un paese capitalista
(di stato), in tutto o in larga parte, che finge ancora di essere socialista e con un
partito al potere che simula di essere ancora comunista, prendendo in considerazione
solo gli elementi (reali) che compongono la “linea nera”in terra cinese…e
dimenticandosi di tutto il resto, del primato delle azioni statali nella top 500 delle
più grandi imprese cinesi, della proprietà collettiva del suolo, del “tesorone” pubblico,
ecc.
Come esempio estremo di questo processo di selezione/interpretazione quasi
a senso unico dei processi socioproduttivi cinesi, si può estrapolare il caso-limite
della città di Huaxi, nella provincia dello Jiangsu.
A partire dagli inizi degli anni Settanta, il villaggio rurale di Huaxi si è trasformato
via via in fiorente polo agro-industriale, con una produzione agricola ad alto
livello tecnologico ed importanti industrie tessili e siderurgiche: nel 2008 la zona
di Huaxi e le sue propaggini produttive, in cui abitano circa sessantamila abitanti,
aveva ormai accumulato un capitale fisso equivalente a 400 milioni di dollari ed
entrate annuali pari a tre miliardi di dollari e, soprattutto, il più alto reddito procapite
tra tutte le zone rurali cinesi, superiore di ben sette volte quello ottenuto in
media dagli altri cinesi. Viene pertanto denominato, anche dai mass-media occidentali,
“il più ricco villaggio della Cina”.
Ora, la matrice socioproduttiva di Huaxi risulta in gran parte “rossa” e socialista.
Il suolo è ovviamente di proprietà collettiva, come nel resto della Cina, mentre
l’unica azienda locale non è altro che la grande cooperativa agro-industriale che
domina il tessuto produttivo della zona.
Tutti gli abitanti di Huaxi lavorano (duramente) nelle diverse branchie della
cooperativa di villaggio, ed ottengono la loro parte degli utili prodotti da quest’ultima
in base alla quantità/qualità del lavoro erogato individualmente, ma di
comune accordo essi versano il 95% dei loro dividendi personali nella struttura
produttiva di villaggio, per il suo processo di accumulazione interna e per le spese
comuni (edifici pubblici,la costruzione di uno dei più alti palazzi residenziali del
mondo, ecc.).
Sempre nella mega-coop di Huaxi, gli abitanti ottengono gratuitamente istruzione,
assicurazioni previdenziali, pensione e forti contributi per la costruzione
206
ROBERTO SIDOLI
delle case in cui abitano, spaziose villette singole di almeno 400 metri quadrati con
garage per due macchine, oltre ad essere esentati dalle spese per il riscaldamento.
219
L’artefice principale del “miracolo di Huaxi” è Wu Rembao, segretario della
sezione locale del PCC dal 1966, che è praticamente l’unico abitante della zona a
godere (per scelta autonoma) del “contro-privilegio” materiale di vivere ancora in
una casa piccola ed antica, con un arredamento interno di tipo spartano e l’unico
abbellimento costituito dalle foto che registrano la trasformazione vissuta da
Huaxi, negli ultimi quattro decenni: in compenso Wu è stato eletto delegato all’ultimo
congresso nazionale del PCC, tenutosi nell’ottobre del 2007, e da tempo gode
di un’enorme popolarità in tutta la Cina.
Tutto chiaro? Non per gran parte dei mass-media occidentali, che hanno subito
notato come tutte le famiglie di Huaxi abbiano la proprietà almeno di una macchina,
spesso di provenienza straniera (Audi, BMW, Mercedes, ecc.): “ma allora sono
diventati dei capitalisti”, hanno concluso quasi in coro, al massimo ammettendo
che Huaxi potrebbe essere una sorta di “Disneyland socialista”, come si può leggere
sul Time dell’aprile 2009.220
La comune di Huaxi ha collocato alla borsa di Shenzen una piccola sezione della
sua quota capitale, nel 1998? Sono solo dei capitalisti riverniciati di rosso…
Peccato che la proprietà delle automobili sia stata ottenuta dai cooperatori di
Huaxi solo con un duro e prolungato lavoro personale, senza sfruttare nessun altro
essere umano. Nessuna Disneyland, tanta fatica collettiva/individuale…
Peccato che l’alto tenore di vita dei cooperatori di Huaxi sia legato in modo indiscutibile
al duro lavoro da essi prestato individualmente, dato che se un abitante
lascia la zona perde istantaneamente i suoi precedenti privilegi materiali: chi non
lavora più a Huaxi, non può mangiare alle spalle degli abitanti di Huaxi.221
Peccato che proprio il comunista Wu Renbao abbia spiegato più volte il vero
segreto del successo di Huaxi: i lavoratori devono «godere per primi della felicità,
mentre le difficoltà devono essere affrontate dai leader, così da mobilitare l’entusiasmo
della popolazione».222
Peccato che il grande palazzo residenziale che si sta costruendo a Huaxi (uno
dei quindici edifici più alti al mondo, con parecchie centinaia di appartamenti, ristoranti,
saloni per ginnastica, una struttura sanitaria al suo interno, ecc.) sia completamente
di proprietà pubblica, come del resto il suolo su cui è costruito.
Differenze di non poco conto, rispetto al concreto capitalismo di stato che si
sperimenta in giro per l’occidente: ma per molti giornalisti occidentali ed italiani,
Huaxi è diventata invece il nuovo simbolo dell’utopia capitalistica.
Il mondo (cinese) alla rovescia, secondo il processo di selezione dei fatti sopra
descritto…
207
Se in Cina (e sotto diversi aspetti, in Vietnam e Laos) si assiste tuttora alla conservazione
dell’egemonia contrastata dei rapporti di produzione/distribuzione
collettivistici, o nel caso peggiore ad un loro sostanziale equilibrio rispetto alla
potenza d’urto espressa dalla “linea nera” socioproduttiva all’interno del subcontinente
asiatico, anche la questione relativa alla persistenza dell’effetto di sdoppiamento
dopo il funesto triennio 1989/91 trova subito una sua soluzione e proprio
in senso affermativo: l’effetto di sdoppiamento non è scomparso con il crollo del
muro di Berlino, anzi…
Ma il mondo contemporaneo non è composto solo da Cina, Vietnam, Laos.
Cuba socialista, seppur con tutti i suoi seri problemi e contraddizioni interne,
costituisce una realtà socioeconomica ancora in gran parte collettivistica, anche se
durante la fase più dura (1992/2000) del “periodo especial”, seguito al crollo dell’URSS,
il tessuto socioproduttivo dell’isola caraibica si è a sua volta parzialmente
“sdoppiato”, con la nascita e sviluppo di alcune migliaia di piccole imprese private,
con le joint-ventures tra imprese straniere (settore del turismo e dell’energia) e
settore statale cubano, attraverso la corruzione di una parte (minoritaria) dei funzionari
del partito comunista e dei manager delle imprese pubbliche, ecc. Si tratta
di una “linea nera” socioproduttiva proteiforme , abbastanza consistente ed in via
di sviluppo, ma che svolge attualmente un ruolo nettamente subalterno all’interno
della composita formazione economico-sociale cubana, rimasta tuttora sotto l’egemonia
della “linea rossa”collettivistica: tuttavia proprio Fidel Castro, in un suo
discorso all’Università dell’Avana (17 novembre 2005), ha ammonito giustamente
sulla non-irreversibilità a priori del processo rivoluzionario cubano, seppur sotto
forma di una domanda retorica (“credete che questo processo rivoluzionario, socialista,
potrebbe crollare?”) e prendendo in esame il crollo dell’URSS, avvenuto
quindici anni prima.223
Un’intuizione di Fidel sull’effetto di sdoppiamento? A mio avviso la risposta è
positiva…
Nel mondo contemporaneo, comunque, non esistono solo esperienze statali che
abbiano già raggiunto, tra mille contraddizioni, la fase socialista di organizzazione
dei rapporti sociali di produzione e distribuzione, o che stiano faticosamente ini-
L’EFFETTO DI SDOPPIAMENTO E IL DOT-COMMUNISM
“E qualcosa rimane,
tra le pagine chiare e le pagine scure”.
(De Gregori, Rimmel)
208
ROBERTO SIDOLI
ziando un periodo di transizione verso “un mondo nuovo” (Venezuela e Bolivia):
anche dopo il 1989/91 nelle società capitalistiche avanzate continuano ad emergere,
seppur sotto forma deformata e nettamente subordinata all’egemonia delle
relazioni di produzioni classiste, alcuni concreti segmenti della “linea rossa” socioproduttiva,
tra i quali seleziono brevemente alcuni casi esemplari.
Parti consistenti delle cooperative di produzione-consumo occidentali mantengono
ancora il loro ruolo di esperienze alternative, estranee alle logiche dell’accumulazione
privata anche all’interno delle metropoli capitalistiche, come si è già
accennato in precedenza. Secondo una ricerca dell’Università di Wisconsin, nel
2003 i soli Stati Uniti vedevano la presenza di 29000 cooperative con 652 miliardi
di dollari di entrate annuali, nelle quali lavoravano quasi due milioni di persone
presenti in tutti i settori produttivi del capitalismo di stato americano.
L’esperienza ipermoderna di Linux, il software utilizzabile gratuitamente dagli
internauti e continuamente migliorato dalla loro (gratuita) pratica diretta, è stato
definito a sua volta con qualche esagerazione da Steve Ballmer (uno dei dirigenti
più prestigiosi di Microsoft, succeduto a Bill Gates nel 2008 a capo di quest’ultima)
come “comunismo che la gente ama molto, veramente molto”, nel corso di una
riunione dei manager dell’azienda tenutasi nel 2000.224 Ma in Internet non si trova
solo Linux: è da tempo che si parla di dot-communism e del “socialismo in Internet”,
come ha del resto sottolineato di recente Kevin Kelly in un suo articolo del 22
maggio 2009, intitolato significativamente “The new socialism: Global Collectivist
society is coming online”.
Ormai, ha notato Kelly, solo negli USA vengono scaricati gratuitamente sei miliardi
di video al mese, realizzati da milioni di appassionati, mentre il sito Flicky
permette di condividere tre miliardi di fotografie; già da tempo vi sono in rete
numerosi siti che permettono di scaricare gratuitamente decine di migliaia di documenti,
archivi, dati e ricerche, mentre Google, Archive.org, Liber Liber e o Logos
mettono liberamente a disposizione milioni di libri, in buona parte consultabili
integralmente e spesso scaricabili senza costo alcuno; una realtà come Wikipedia
risulta a sua volta il frutto dell’azione collettiva e gratuita di decine di migliaia di
internauti.
Piccole e di regola non-coscienti anticipazioni del comunismo sviluppato e del
“a ciascuno secondo i suoi bisogni”; elementi fragili, ma già ora reali e concreti, di
collettivismo nel mondo di Internet e nel tempo libero usufruito all’interno dell’Occidente.
La tendenza oggettiva alla socializzazione delle forze produttive è riemersa a
sua volta proprio nel 2008/2009, seppur in forme distorte e per precisi interessi di
classe della borghesia, attraverso la nazionalizzazione de facto di alcune importanti
banche occidentali e della stessa General Motors. La borghesia ed i suoi mandatari
politici hanno compiuto controvoglia l’operazione, al solo fine di evitare un
crack improvviso nella riproduzione globale del processo di accumulazione capitalistica,
riservandosi allo stesso tempo di ri-privatizzare le banche/imprese dopo
209
L’effetto di sdoppiamento e il dot-communism
la solita “socializzazione delle perdite” e le solite ristrutturazioni taglia-personale,
ma il fenomeno concreto in esame non rimane certo privo di un suo significato, sia
politico che politico-economico.
Non è inoltre privo di significato che il «liberista capitalismo di stato degli USA
sia stato costretto ad aumentare la percentuale della spesa pubblica sul reddito
nazionale lordo dal 33% del 2000, sotto Clinton, fino al 44% del 2009».225
Sempre a proprio vantaggio e per i propri profitti di lungo termine, una parte
della borghesia europea ha a sua volta adottato, in minima parte ed in forma
iperdeformata, il principio (tipico della “linea rossa”) dell’appropriazione/riappropriazione
collettiva del prodotto sociale e del surplus da parte dei produttori
diretti, trasformandolo nel meccanismo del “profit sharing” e della partecipazione
(ipersubordinata e minoritaria) dei lavoratori salariati ad una quota marginale dei
profitti delle aziende.
Ha notato M. Ferrero che circa il 25% delle imprese dell’Unione Europea utilizzano
ormai lo schema del profit sharing, con punte superiori al 40% in Gran
Bretagna, Francia e Germania: la massa globale di profitti e di plusvalore restituiti
ai produttori diretti/lavoratori salariati risulta assolutamente marginale, ma il
criterio in esame indica che, proprio per rendersi più efficiente ed elevare la produttività
della sua forza-lavoro, il capitalismo a volte è costretto ad auto-negare i
propri “principi costitutivi” ed a utilizzare in minima parte proprio dei rapporti
alternativi di distribuzione del prodotto sociale e del surplus.226
Sul fronte della soggettività anticapitalistica, infine, una notizia interessante è
emersa proprio dagli Stati Uniti durante i primi mesi del 2009.
Secondo un sondaggio effettuato dall’insospettabile (in termini di filocomunismo)
agenzia Rasmussen, nel marzo del 2009 circa il 33% statunitensi sotto i trenta
anni di età preferiva il socialismo al capitalismo, mentre un altro 30% in quella
fascia di d’età non era sicuro nella scelta, dimostrando come minimo di nutrire seri
dubbi sulla bontà del processo generale di accumulazione privata a scopi di lucro:
il tutto all’interno della storica roccaforte mondiale del capitalismo/anticomunismo,
nei “liberisti” Stati Uniti.227
Si tratta di tendenze ed elementi ancora molto deboli, fragili e non destinati assolutamente
a svilupparsi in modo inarrestabile: ma, d’altro canto, essi dimostrano
come lo spazio di potenzialità socioproduttive alternative apertosi dopo il 9000
a.C. non si sia per niente chiuso, a causa del 1989 e del crollo del muro di Berlino,
ma al massimo… “accostato e ristretto ” della pressione esercitata dagli sfavorevoli
rapporti di forza politico-sociali creatisi su scala planetaria, dopo il funesto triennio
1989/91.
Il motivo principale per cui l’effetto di sdoppiamento continua ad agire, anche
nel mondo occidentale contemporaneo, risulta in ogni caso proprio sotto i nostri
occhi e forse troppo accecante per i nostri occhi: nel 2010, all’interno delle più
avanzate metropoli capitalistiche, si è infatti accumulata un’enorme massa di forze
produttive e di ricchezze sociali, di conoscenze tecnico-scientifiche e di know-how
210
ROBERTO SIDOLI
che rende subito possibile (possibile, non inevitabile) dal punto di vista materiale
un modo alternativo di produrre, lavorare e consumare, che rende in altri termini
possibile (possibile, non inevitabile) la costruzione di una società socialista all’interno
del mondo occidentale.
Possibilità socioproduttiva ben conosciuta da Marx ed Engels, fin dal 1844/48, e
ribadita con forza proprio da Engels nel 1878 (AntiDühring) quando quest’ultimo
affermò che “la possibilità di assicurare per mezzo della produzione sociale, a tutti
i membri della collettività un’esistenza che non solo sia completamente sufficiente
dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma garantisca loro lo
sviluppo e l’esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali:
questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste”.228
Dal 1878 la “produzione sociale”si è ampliata enormemente, e non ridotta.
Certo, l’esperienza storica mondiale sviluppatasi dal 1844 (o 1878) fino ad oggi
mostra che tale riproduzione allargata permetteva, e permette tuttora anche la riproduzione
dei rapporti di produzione capitalistici, ancora ben vivi e vegeti all’inizio
del 2010, ma non esclude certo la possibilità alternativa (possibilità, non
inevitabilità) dell’affermazione di una forma di socialismo, capace di assicurare a
tutti “un esistenza che diventi ogni giorno più ricca” sotto tutti gli aspetti, anche e
soprattutto nelle metropoli tardo-capitalistiche.
La potenzialità socioproduttiva si trasformerà in realtà, nel mondo occidentale?
A questa domanda la risposta possiamo fornirla solo noi, con la nostra pratica/
mancanza di pratica politico-sociale, con la nostra accumulazione/dispersione
di forze, come singole soggettività e soprattutto come insiemi organizzati di liberi
individui, capaci di agire in modo unitario. Niente è scritto per sempre, nel bene
o nel male, dato che sfruttare o non sfruttare potenzialità datate ormai 9000 a.C.
dipende e dipenderà esclusivamente dalla nostra progettualità/pratica collettiva,
dal “vento” (Bob Dylan) che soffierà grazie alle nostre azioni e volontà coordinate
o, viceversa, dall’assenza di movimento, pratiche, desideri e generosità collettive.