McGregor, Pompei 1932 e le menzogne di Trotskij

Nel suo articolo intitolato “Il volo di Pjatakov e il negazionismo staliniano”, diviso in due parti, Marco Ferrando ha ripetuto senza sosta l’ormai vecchia litania di matrice trotzkista sulle malefatte e i crimini di Stalin: ma il processo di valutazione del leader comunista georgiano passa inevitabilmente attraverso l’unico criterio di verità disponibile per il genere umano, scoperto ed enunciato da Karl Marx fin dalle sue geniali “Tesi su Feuerbach” del 1845, e cioè la prassi.

La pratica umana.

La praxis collettiva.

La prova del budino sta nel mangiarlo, sosteneva giustamente Engels riprendendo un detto popolare, mentre Lenin approfondì la questione nel suo splendido libro “Materialismo ed empiriocriticismo” sottolineando che “per il materialista, il “successo” della pratica umana dimostra la corrispondenza delle nostre idee con la natura obiettiva delle cose che noi percepiamo”.

Si tratta di un criterio implacabile e molto duro, certo, ma altresì oggettivo e validissimo nel 1845 come nel 2018.

A questo proposito l’analisi materialistica della concreta praxis politico-sociale del 1925-1953, su scala sovietica e globale, ha già demolito e gettato nella pattumiera della storia la logora cantilena di matrice trotzkista intonata da Ferrando su Stalin, facendo emergere quattro colpi demolitori contro di essa.

In primo luogo è stato Stalin, e non certo Trotskij, a dirigere e stimolare il gigantesco processo di industrializzazione, collettivizzazione, alfabetizzazione di massa e creazione di un’industria bellica moderna (carri armati T-34, ecc.) che ha segnato la storia dell’Unione Sovietica dal 1928 al 1940, mentre il mondo capitalistico invece sprofondava nella spirale della grande depressione economica.

È stato Stalin, in secondo luogo, a dirigere quell’Armata Rossa che si è conquistata sul campo il merito principale per la vittoria sul nazifascismo. Proprio Stalin ha guidato quell’eroico popolo sovietico che ha spezzato il collo a Hitler; è stata l’Armata Rossa a liberare Auschwitz, il 27 gennaio del 1945; l’umanità ricorda ancora bene e ricorderà per sempre Stalingrado, non certo Trotskigrado.

Inoltre è stato il nucleo dirigente staliniano a dirigere la formidabile e rapidissima opera di ricostruzione postbellica dell’URSS, superando i danni materiali immani creati dal nazismo spietato e genocida sul suo territorio.

È stato infine il nucleo dirigente stalinista a progettare, promuovere e dirigere il processo di accumulazione di potenza bellica che ha permesso la creazione in pochi anni di un’efficace controforza militare sovietica, a partire dal decisivo settore nucleare (si pensi solo alla prima bomba atomica sovietica dell’agosto 1949): processo gravoso e complesso a cui si deve il contributo principale nell’aver sventato i concretissimi piani di dominio mondiale avviati nel secondo dopoguerra dall’imperialismo statunitense, dotato per quattro anni del monopolio assoluto degli ordigni nucleari e capace, nell’agosto del 1945, di compiere azioni genocide contro i civili inermi di Hiroshima e Nagasaki.

I reali errori politici, a volte molto gravi, commessi dal nucleo dirigente stalinista nel periodo compreso tra il 1925 e il 1953 non riducono e non diminuiscono la gigantesca ed epocale portata storica dei “quattro colpi”, cioè dei successi e delle vittorie politico-sociali conquistate sul campo dall’Unione Sovietica di Stalin.

Nel 1949 persino un trotzkista convinto come Isaac Deutscher, in una sua ostile ma interessante biografia avente per oggetto Stalin, riuscì almeno in parte a fornire una valutazione storica dialettica analizzando sia gli aspetti positivi sia quelli negativi all’interno del processo di sviluppo della progettualità/praxis globale del leader comunista georgiano, riprendendo il concetto teorico elaborato da Hegel e secondo il quale “il vero è l’intero”.

Pur denunciando “l’inumano dispotismo” di Stalin, Deutscher infatti esaminò e notò con cura sia i successi concreti ottenuti da quest’ultimo sia il fatto che il dirigente georgiano fosse riuscito, almeno in una certa misura, a mettere “in pratica un principio fondamentalmente nuovo di organizzazione sociale”, e cioè a costruire insieme all’azione collettiva del partito comunista e di buona parte della classe operaia sovietica delle relazioni di produzione collettivistiche, seppur deformate.

 

«Si può dire con certezza che Stalin appartiene alla famiglia dei “grandi despoti rivoluzionari” a cui appartennero Cromwell, Robespierre e Napoleone. È opportuno valutare esattamente ogni parola di questa definizione. Stalin è grande se si misura la sua statura dall’ampiezza delle sue imprese, dall’impeto travolgente delle sue azioni, dalla vastità della scena che ha dominato. Stalin è rivoluzionario, non nel senso che sia rimasto fedele a tutte le idee originarie della rivoluzione, ma perché ha messo in pratica un principio fondamentalmente nuovo di organizzazione sociale, un principio che, qualunque sia per essere la sorte riservata a Stalin personalmente o al regime associato al suo nome, sopravvivrà certamente per fecondare l’esperienza umana e per orientarla verso nuove direzioni. Tra le vittorie di Stalin, senza dubbio, si può annoverare anche quella di aver provocato innumerevoli tentativi di imitazione: quanti altri governi hanno tentato di rubargli i suoi fulmini, affermando di aver adottato, anche loro, i metodi dell’economia pianificata? Infine il suo inumano dispotismo non solo ha viziato molte delle sue realizzazioni, ma può ancora suscitare una violenta reazione nella quale forse si potrà anche dimenticare quale sia il vero bersaglio della reazione stessa: se la tirannia dello stalinismo o la sua feconda rivoluzione sociale».[1]

 

Poche pagine dopo, Deutscher notò come «Stalin si accinse (per citare un detto famoso) a cacciare la barbarie della Russia con mezzi barbari. Data la natura dei mezzi impiegati la barbarie cacciata dalla porta è in parte rientrata dalla finestra.

Tuttavia la nazione ha fatto grandissimi progressi in quasi tutti i campi della sua esistenza. La sua attrezzatura produttiva, che intorno al 1930 era ancora inferiore a tutte le nazioni europee di media grandezza, si è dilatata in tale misura e con tale rapidità che oggi la Russia è la prima nazione industriale dell’Europa e la seconda del mondo. In poco più di un decennio il numero delle sue città grandi e piccole si è raddoppiato; e la sua popolazione urbana è aumentata di trenta milioni. Il numero delle scuole di tutti i gradi si è moltiplicato in misura impressionante.

Tutta la nazione è stata mandata a scuola. La sua mente si è risvegliata, e con un tale fervore che difficilmente si lascerà addormentare un’altra volta. La sua avidità di sapere, la sua passione per le scienze e le arti sono state stimolate a tal punto dal governo di Stalin da diventare addirittura insaziabili e preoccupanti. Va anche notato che Stalin, pur tenendo la Russia isolata dalle influenze contemporanee dell’Occidente, ha incoraggiato e promosso lo studio di quella che egli stesso ha definito l’”eredità culturale” dell’Occidente. Forse in nessun paese come in Russia i giovani sono stati educati a un così profondo amore e rispetto per la letteratura classica e l’arte delle altre nazioni…

Né si deve ignorare il fatto che l’ideale insito nello stalinismo (anche se espresso da Stalin in forme grossolane e contorte) non è la dominazione dell’uomo sugli uomini o della nazione sulle nazioni o della razza sulle razze, ma la loro fondamentale uguaglianza. Anche la dittatura del proletariato è intesa come fase di semplice transizione verso una società che dovrà essere senza classi; e il motivo ispiratore è rimasto quello di una comunità di esseri liberi e uguali, non quello di una dittatura».[2]

 

Chiariamo subito che è inutile discutere con Ferrando rispetto a Stalin usando il metodo materialista e  dialettico: sappiamo bene che in questa materia specifica quasi tutti i trotzkisti, con rare e parziali eccezioni del tipo di Deutscher, manifestano una stalinofobia permanente e ormai incurabile.

Il nostro scopo attuale è invece quello di analizzare e verificare le critiche di Ferrando al nostro libro sul tema della collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti: e in questo campo siamo di fronte quasi sempre a un deserto sconcertante.

Innanzitutto già il 28 novembre, di fronte a un articolo del PCL sul caso Olberg, abbiamo elaborato e pubblicato una nostra replica intitolata volutamente “Quattro sfide alla candida ignoranza del PCL sul caso Olberg”, pubblicizzandola in ogni modo e inviandola anche a tutti i siti a nostra disposizione del PCL. Ma quando Ferrando ha mostrato al mondo il suo articolo, pubblicato quasi una settimana dopo e il 3 dicembre 2018, egli non ha risposto in alcun modo alle nostre “quattro sfide” rispetto a Valentin Olberg; non ha affrontato in alcun modo le questioni che avevamo sollevato relativamente al caso Olberg, oltre che alla collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti che emerge da esso.

Siamo dunque in presenza di un chiaro segno di debolezza di Ferrando e di un pesante segnale di sconfitta, mascherata (molto male) dal silenzio.

Ripetiamo pertanto almeno le prime tre sfide in oggetto, rimaste senza alcuna risposta.

 

“Prima sfida per il PCL: come può spiegare che Olberg non si dichiarò in nessun modo stalinista, e più precisamente una talpa e un agente provocatore stalinista, quando egli venne arrestato agli inizi di gennaio del 1936, proprio dalla polizia stalinista, ossia dal suo (presunto) “datore di lavoro”?

Seconda sfida. Proprio seguendo l’ipotesi avanzata dal PCL non si può spiegare in alcun modo perché Valentin Olberg, il presunto infiltrato stalinista, non abbia affermato e dichiarato subito, nel gennaio 1936, sia verbalmente che per iscritto, che egli volontariamente si era finto trotzkista dal 1929 al gennaio 1936, su incarico della polizia stalinista e dei suoi capi di Mosca; che egli si era volontariamente presentato e fatto passare per trotzkista durante sette lunghi anni, dal 1929 fino all’inizio del 1936, su incarico e dietro ordini proprio della polizia stalinista e dei suoi capi di Mosca.

Terza sfida per il PCL: come può spiegare la distanza temporale di più di un anno tra il momento in cui Valentin Olberg, il presunto agente stalinista, ricevette il falso passaporto honduregno nel 1935 dai nazisti e quello nel quale egli confessò tale elemento decisivo alla polizia stalinista nel maggio del 1936?

Infatti un ulteriore elemento di prova rispetto alla reale militanza trotzkista di Valentin Olberg è costituita dalla distanza temporale di più di un anno creatasi tra il momento in cui Valentin Olberg ottenne materialmente a Praga il falso passaporto honduregno, con l’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo agli inizi del 1935, e quello in cui invece egli rivelò tale dato di fatto all’NKVD e alla polizia sovietica, ossia nel giugno del 1936.

Lo storico antistalinista Rogovin aveva riportato nel suo libro che “le indagini sul caso Olberg, che si erano concluse a maggio” del 1936 “vennero riaperte” nel giugno del 1936: Rogovin ammise che “ora” (nel giugno del 1936) “Olberg aveva testimoniato di avere legami con la Gestapo”, a partire dal famoso passaporto falso honduregno procuratogli a Praga anche grazie a Tukalevskij e ai nazisti.

Seppur involontariamente, lo storico antistalinista Rogovin ha contribuito a devastare ancora più profondamente la teoria secondo cui Valentin Olberg costituiva un infiltrato stalinista: la falla emerge quasi subito, sempre accettando come veritiera tale ipotesi.

Agli inizi del 1935, Valentin Olberg infatti ottenne ed ebbe materialmente in mano il falso passaporto honduregno, anche grazie a Tukalevskij e alla Gestapo: fatto sicuro e innegabile.

Ma solo nel maggio del 1936, e cioè solo dopo più di un anno, Valentin Olberg confessò tale fatto eclatante e tale clamoroso aiuto logistico di matrice nazista agli investigatori della polizia sovietica: altro elemento sicuro e riportato persino dall’antistalinista Rogovin, anche se quest’ultimo spostò ancora avanti nel tempo, ossia al giugno del 1936, le prime ammissioni di Olberg sui suoi concreti rapporti logistici con Tukalevskij e i nazisti.

Sussiste, in altre parole, una sicura e innegabile distanza temporale di circa cinquecento giorni tra il momento in cui Valentin Olberg ricevette e venne materialmente in possesso a Praga del falso passaporto honduregno, grazie a Tukalevskij e alla Gestapo, prima di entrare illegalmente e sotto falso nome in Unione Sovietica nel luglio del 1935, e il periodo (maggio del 1936, dieci mesi dopo) in cui invece Valentin Olberg finalmente ammise e confessò di fronte all’NKVD che il suo falso passaporto gli era stato procurato da Tukalevskij e dall’apparato statale nazista.

È solo un dato di fatto arido e privo di importanza, quello avente per oggetto i circa cinquecento giorni che distanziarono l’acquisizione materiale del passaporto falso da parte di Olberg, all’inizio del 1935 e grazie all’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo, dalla confessione effettuata da Valentin Olberg all’NKVD stalinista rispetto a tale eclatante notizia e avvenuta solo nel maggio del 1936, più di un anno dopo?

Per niente: si tratta invece di un’informazione sicura che demolisce ulteriormente la tesi di “Olberg-provocatore stalinista”, mentre simultaneamente conferma e comprova nuovamente  l’ipotesi opposta, di una notizia sicura rispetto a una condotta di Olberg imperniata sul seguire scrupolosamente la “regola del silenzio” rispetto al nemico, nel caso specifico il regime stalinista.

I cinquecento giorni che separano l’acquisizione materiale da parte di Olberg del falso passaporto honduregno, grazie all’aiuto di Tukalevskij e della Gestapo, dalla data  dell’ammissione di tale notizia all’NKVD costituiscono infatti l’elemento concreto che fa sparire anche i dubbi quasi irragionevoli sul fatto che Valentin Olberg fosse un coraggioso militante trotzkista, e non certo un infiltrato stalinista nelle fila trotzkiste”.

Creando, ovviamente, un’inevitabile domanda: perché la Gestapo e i nazisti fornirono un passaporto falso a un intellettuale ebreo, comunista e antistalinista, intenzionato e deciso a entrare in modo illegale nell’Unione Sovietica stalinista nel 1935?

Un silenzio quasi assordante viene in ogni caso tenuto da Ferrando anche rispetto al secondo capitolo del nostro libro.

In tale sezione individuiamo come la città svedese di Linkoping, citata proprio da Trotskij, demolisca una volta  per sempre la tesi dell’impossibilità materiale del volo di Pjatakov in Norvegia, vero e proprio cavallo di battaglia degli antistalinisti di tutte le risme nella questione in oggetto per molti decenni,  dal 1937 fino al 2017.

Sul volo atterrato a Kjeller nel dicembre 1935 e su questo punto nevralgico Ferrando riesce solo a formulare una frase: “ammessa e non concessa tale ipotesi di fantasia”. Ma quale “fantasia”, Ferrando? Persino il direttore di Kjeller, Gulliksen, indicò la concretissima realtà e non certo la “fantasia” del velivolo atterrato a Kjeller nel dicembre del 1935 e proveniente dall’estero!

Sempre nel secondo capitolo evidenziamo come proprio seguendo la deposizione del dirigente dell’aeroporto norvegese di Kjeller, citata fedelmente dallo stesso Trotskij almeno nella tredicesima sessione della commissione Dewey che in Messico giudicava il suo caso, vengano a galla cinque clamorose coincidenze: la prima delle quali consiste nel fatto sicuro per cui nel dicembre del 1935 era atterrato e giunto un velivolo proveniente dall’estero all’aeroporto di Kjeller, ossia a soli cinquanta chilometri in linea d’aria dal luogo concreto in cui allora si trovava con assoluta sicurezza Trotskij, nel suo esilio norvegese.

Su tutte le cinque coincidenze in esame Ferrando non riesce a pronunciare neanche una parola, neanche una semplice sillaba, neanche un semplice “ma forse…”.

Sempre nel secondo capitolo indichiamo altresì che Trotskij e il suo avvocato difensore, durante la sesta sessione della commissione Dewey, falsificarono e alterarono la dichiarazione resa nel gennaio del 1937 dall’allora direttore dell’aeroporto di Kjeller: dichiarazione invece riportata fedelmente e correttamente dallo stesso Trotskij sempre davanti alla commissione Dewey, ma solo nella tredicesima e ultima sessione e in assenza di contraddittori.

Anche su questo nodo rilevante e facile da verificare attraverso internet, dove si trovano in lingua inglese tutte e tredici le sessioni della commissione Dewey, da parte di Ferrando viene solo un altro assordante silenzio, come sul resto degli altri elementi contenuti nella sezione del libro in esame.

Ma forse Ferrando ha criticato almeno il terzo capitolo del nostro libro?

Per niente: anzi in questo caso specifico quasi si assiste ad un totale e completo silenzio da parte sua.

Finalmente, giunto ad affrontare il quarto capitolo, Ferrando è costretto a dire qualcosa sul merito: ma il disastro è tanto evidente da legittimare il silenzio da lui tenuto su quasi tutto il contenuto delle due sezione precedenti del libro “Il volo di Pjatakov”.

Stiamo parlando della concretissima ricevuta della lettera inviata da Trotskij, all’inizio del 1932, a un Karl Radek che, stando almeno allo stesso Trotskij, era un suo “accanito nemico” a partire dal 1929, e quindi ovviamente anche all’inizio del 1932, con evidenti e disastrose conseguenze proprio sulla veridicità delle dichiarazioni rese nel 1932-37 da Trotskij sui suoi reali rapporti con Radek: a un accanito nemico politico non si inviano infatti lettere, con le relative ricevute di spedizione.

Qual è stata la risposta di Ferrando alla ricevuta del 1932?

Semplice: secondo le sue stesse parole, la ricevuta in oggetto è di “assai dubbia fattura”.

Ferrando non ha avuto neanche il coraggio morale di affermare che essa è falsa e contraffatta, ma in ogni caso ha cercato di seminare dubbi: senza fornire e avere la minima prova della presunta contraffazione, ovviamente.

In seconda battuta, Ferrando ha tentato di “provare” che la missiva non era stata inviata da Trotskij a Radek.

Purtroppo per Ferrando, sono emerse e si sono trovate anche altre concretissime ricevute (sempre ricevute senza le lettere corrispondenti) dello stesso periodo del 1932, inviate ad esempio all’antistalinista Preobrazenskij e a Sokolnikov (ricevute del gennaio 1932) e contenute sempre negli archivi Trotskij di Harvard: seguendo l’assurda “logica” di Ferrando, dunque, anch’esse non sarebbero state spedite da Trotskij, ma … già, ma da chi, Ferrando?

Mistero della fede trotzkista.

Perché poi tali ricevute diverse da quella su Radek sarebbero state conservate proprio negli archivi Trotskij di Harvard, se le lettere corrispondenti non fossero state spedite da Trotskij e dai suoi collaboratori?

Nuovo mistero della fede trotzkista.

Rimane inoltre un mistero inspiegabile la ragione per cui per tali ricevute non siano state finora trovate le lettere corrispondenti: sempre ipotizzando per un attimo che tali missive scomparse non fossero state indirizzate da Trotskij a Radek o Preobrazenskij, e quindi risultassero inoffensive e innocue sul piano politico per Trotskij.

Infine risultano incomprensibili anche i motivi per i quali uno storico trotzkista preparato e intelligente come Brouè non cercò mai e per lunghi anni, dal 1986 fino alla sua morte, di contestare l’autenticità delle ricevute ritrovate negli archivi Trotskij di Harvard per le lettere spedite da Trotskij nel 1932 a Radek, Preobrazenskij, Sokolnikov, ecc.: ma forse egli volle generosamente lasciare tale compito a un pensatore e a uno storico del calibro di Ferrando …

La “logica” di Ferrando fa dunque acqua da tutte le parti, rivelandosi solo uno stratagemma disperato teso a creare confusione e dubbi rispetto alla ricevuta concretissima dell’inizio del 1932: ricevuta di una missiva inviata a Karl Radek (il presunto “nemico accanito” di Trotskij) e contenuta proprio nell’archivio Trotskij di Harvard, non certo negli archivi Stalin di Gori in Georgia.

La pessima prestazione fornita da Ferrando rispetto alla ricevuta del 1932 prepara e precede l’assordante silenzio tenuto da quest’ultimo su altre prove concretissime contenute sempre nel capitolo quarto: due delle quali fornite rispettivamente dallo stesso trotzkista Deutscher e dallo storico trotzkista Brouè, che attestano le reali relazioni createsi via via dal 1931 al settembre del 1936 tra Radek/Pjatakov e Trotskij, dimostrando come sia Radek che Pjatakov fossero progressivamente tornati, a partire dal 1931, a una coraggiosa e nascosta militanza trotzkista, spacciandosi e presentandosi in pubblico, per motivi fin troppo ovvi di sopravvivenza fisica, per dei fedeli stalinisti nell’Unione Sovietica di quel periodo storico.

Il silenzio assordante di Ferrando continua anche rispetto ai capitoli quinto, sesto e settimo del nostro libro.

Forse Ferrando non li ha letti, forse si è dimenticato di averli letti, o forse preferisce non nominarli: in ogni caso non è riuscito ad articolare neanche una riga critica, neanche un misero argomento contro gli elementi  fattuali che esprimevano nelle tre sezioni.

Non emerge infatti alcuna critica di Ferrando alla nostra descrizione sulla “malattia diplomatica”, sulla finta malattia inventata ad arte da Trotskij nel dicembre 1935.

Non viene a galla inoltre alcuna critica al nostro lavoro sull’abnorme “gita nel ghiaccio”, ossia sull’escursione nel freddo e nei ghiacci norvegesi effettuata da Trotskij dal 20 al 22 dicembre, in tre giorni e in un mese durante il quale egli si dichiarava pubblicamente “malato” febbricitante e debilitato.

Non emerge alcuna critica da parte di Ferrando neanche sulla parte del nostro libro nella quale descriviamo il tentativo, menzognero e fallimentare, da parte di Trotskij e teso a dimostrare che l’indiscutibile visita di Pjatakov a Berlino fosse iniziata non il 10 o 11 dicembre, come accadde nella realtà e come ammise alla fine allo stesso Trotskij, ma invece il 21 dicembre 1935: guarda caso, proprio quando Trotskij effettuò la sua abnorme “gita nel ghiaccio” norvegese.

Nessun commento da parte di Ferrando rispetto alla pessima figura riportata da Trotskij durante la sesta sessione della commissione Dewey, proprio nella parte dedicata da quest’ultimo al volo di Pjatakov e alla “gita nel ghiaccio” del 20/22 dicembre del 1935.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma passiamo ora ai capitoli successivi.

Si è già sottolineata l’assenza totale di reazione di Ferrando alle “quattro sfide” da noi lanciate sul caso di Valentin Olberg: forse la situazione cambia almeno rispetto al capitolo decimo del nostro libro, dedicato alle prove indirette sul volo di Pjatakov?

Per niente: silenzio totale da parte di Ferrando.

A titolo di esempio forniamo dunque alcuni altri indizi rilevanti sul tema in esame, che non sono stati in alcun modo considerati dal leader del PCL e che vengono ripresi testualmente dal nostro libro.

Primi due flash.

Durante la sesta sessione della commissione Dewey “di fronte alla domanda di Dewey avente per oggetto se egli tenesse “un diario”, Trotskij rispose: non un diario. Le mie lettere sono annotate, lettere spedite e lettere che arrivano. In questo modo, io posso più o meno fissare il mio reale diario”.

Un’evidente bugia, visto che esiste un diario scritto sicuramente da Trotskij nel corso del 1935.

Tra l’altro Trotskij non scrisse unicamente il concretissimo diario del 1935, ma il leader in esilio della Quarta Internazionale ricordò con notevole precisione, in una nota del 9 febbraio contenuta proprio nel suo diario del 1935, che “ne tenni uno” (di diario) “per qualche settimana allo scoppio della guerra”, e cioè nell’agosto del 1914, e anche “un altro in Spagna, dopo la deportazione dalla Francia, nel 1916. Credo che sia tutto”.[3]

Quindi scopriamo l’esistenza di ben tre diari scritti da Trotskij, nel 1914, nel 1916 e nel 1935: niente male, per una persona che invece dichiarò nell’aprile del 1937 di non tenere “un diario”, a solo due anni di distanza dal momento in cui egli iniziò a scrivere il diario del 1935.

Sempre sotto l’aspetto dell’abilità di Trotskij nel produrre disinformazione va notato altresì che sempre nel suo diario “dimenticato” del 1935, e più precisamente il 9 aprile del 1935, il leader della Quarta Internazionale annotò che, “nei giorni scorsi, ho letto sulla “Veritè” (l’organo principale di informazione dei trotzkisti francesi, dal 1929 al 1936) “un saggio intitolato: Où va la France? Si tratta di un giornale che, come dicono i francesi, “se rèclame de Trotskij”. Nella sua analisi c’è molto di vero, ma anche molto di taciuto. Non so chi scriva questa serie di articoli” (ripetiamo volutamente: “non so chi scriva questa serie di articoli”) “comunque, uno che conosce a fondo il marxismo”.[4]

Pertanto Trotskij sottolineò il 9 aprile del 1935, e sempre sul suo diario, che egli non sapeva chi scrivesse “questa serie di articoli”, contenuti sotto il titolo di “Où va la France” e appena usciti su un periodico trotzkista: il problema deriva dal fatto che l’autore di quella “serie di articoli” risulta senza ombra di dubbio proprio lo stesso Trotskij, ossia l’autore delle note contenute nel suo diario del 1935, in data 9 aprile 1935.

In quella data, pertanto, Trotskij dichiarò di non conoscere l’identità dell’autore di un saggio scritto ed elaborato da lui stesso, ossia “uno che conosce a fondo il marxismo”: il leader della costituenda Quarta Internazionale non era diventato schizofrenico di colpo, giudici-lettori.

Essendo ormai in cattivi rapporti con le autorità francesi a partire dalla seconda metà del 1934, dopo la buona accoglienza invece ricevuta al suo arrivo come esule in Francia nel luglio del 1933, Trotskij temeva in quella fase storica un’eventuale perquisizione della polizia locale, che avrebbe potuto colpire e interessare anche il suo diario: non desiderando in alcun modo rivelarsi come l’autore degli articoli dal titolo “Où va la France”, egli dichiarò quindi di non conoscere la paternità di questi ultimi.

Un trucco e una forma sottile di disinformazione usata, per motivi comprensibili, dal leader in esilio della Quarta Internazionale? Certo, ma si tratta di un’ulteriore prova della capacità di Trotskij di produrre clamorose menzogne, in questo caso non prive d’arguzia e umorismo, quando tale particolare praxis gli faceva comodo e serviva i suoi bisogni concreti”.[5]

Passiamo ora a un terzo elemento illuminante, ossia la grande elasticità tattica dimostrata dal leader in esilio della costituenda Quarta Internazionale.

Un notevole grado di spregiudicatezza tattica nei confronti degli apparati statali borghesi era stato usato in ogni caso da Trotskij “già nel dicembre del 1932, rispetto all’orrendo regime fascista italiano allora al potere da dieci anni.

Tornando nel suo esilio in Turchia, dopo una conferenza da lui tenuta a Copenaghen il 27 novembre del 1932, Trotskij transitò infatti per la Francia al fine di imbarcarsi verso i lidi ottomani, ma egli ebbe allora uno scontro con le autorità di Parigi per banali questioni logistiche; al fine di risolvere la situazione Trotskij cercò e ottenne aiuto, invece che dalla vicina Spagna democratico-borghese del 1932, proprio dalla dittatura anticomunista di Mussolini che, secondo le testuali parole dello storico trotzkista Brouè, gli concesse un “visto italiano di transito”. Quest’ultimo ha notato in proposito che Trotskij, “ripartito il mattino del 2 dicembre,” (1932, da Copenaghen) “attraversa la Francia con Lev Sedov, che l’accompagna fino a Marsiglia: qui hanno luogo incidenti con la polizia francese che lo vuole imbarcare a forza su una vecchia tartana, la Campidoglio” (della serie: la comodità prima di tutto). “Ne nasce uno scandalo da cui esce grazie a un visto italiano di transito”, passando brevemente per Milano prima di imbarcarsi per la Turchia.[6]

Molto prima dei suoi spregiudicatissimi colloqui in Messico, nel giugno e luglio del 1940, con il funzionario statunitense Robert McGregor, Trotskij non ebbe in sostanza alcun problema politico e morale nel dicembre del 1932 a ricercare e ad acquisire un “visto italiano di transito” dalle autorità fasciste italiane, ossia da quella dittatura reazionaria di Mussolini che da dieci anni perseguitava ferocemente e senza interruzione i comunisti e le forze democratiche.

La sicura informazione sul viaggio italiano – legale e autorizzato dalle autorità fasciste – del leader in esilio della Quarta Internazionale va inoltre collegata e messa a confronto con la tesi, più volte esposta da Trotskij, secondo il quale egli non prese mai e in alcun caso “accordi”, e non avviò mai anche solo delle “trattative dietro le quinte” con i “nemici della classe operaia”. Ad esempio anche nel suo testamento del febbraio-marzo del 1940, redatto poco prima della morte del leader della Quarta Internazionale, Trotskij scrisse: “Non ho bisogno di confutare ancora una volta le stupide e vili calunnie di Stalin e dei suoi agenti: non v’è una macchia sul mio onore rivoluzionario. Né direttamente, né indirettamente non sono mai sceso ad accordi o anche solo a trattative dietro le quinte, coi nemici della classe operaia.

Avendo conosciuto ormai sia il viaggio (legale, autorizzato) di Trotskij, nell’Italia fascista del 1932 sia le affermazioni contenute nel suo testamento del febbraio-marzo 1940, sono possibili a questo punto solo tre ipotesi.

Prima ipotesi: a giudizio del Trotskij che scriveva nel 1940, Mussolini e il regime fascista italiano del 1932 non risultavano dei “nemici della classe operaia”. Escludiamo subito tale tesi.

Seconda ipotesi: Trotskij, nel 1940, si era dimenticato completamente del suo viaggio legale nell’Italia fascista del dicembre 1932. Vista l’ottima memoria di Trotskij, sommata al carattere molto particolare sia dell’incidente di Marsiglia sia della sua successiva permanenza in Italia, dove egli tra l’altro si trovò allora attorniato e seguito da alcuni giornalisti fascisti che cercavano inevitabilmente di ottenere le sue dichiarazioni, escludiamo subito anche tale ipotesi.

A questo punto non rimane che una sola alternativa: Trotskij mentì clamorosamente, anche nel suo testamento del 1940, sul fatto di non essere “mai sceso ad accordi”, “né direttamente né indirettamente”, “o anche solo a trattative dietro le quinte” con i “nemici della classe operaia”. Riteniamo che tale conclusione sia inattaccabile, visto che per entrare pubblicamente e legalmente nell’Italia fascista del dicembre del 1932 Trotskij doveva inevitabilmente “trattare” e “accordarsi”, “direttamente o indirettamente”, con la polizia fascista e le autorità fasciste italiane: per l’appunto egli doveva quindi “accordarsi” con inequivocabili e sicuri “nemici della classe operaia” come quel funzionario statunitense legato all’FBI, ossia Robert McGregor, a cui Trotskij fornì in Messico tutta una serie di succulente informazioni nell’estate del 1940, durante un colloquio tra i due su cui torneremo in seguito”.

  

Un altro segmento “di prove indirette riguarda invece le innegabili ed evidenti bugie espresse nel 1936-37 dal leader della Quarta Internazionale e da suo figlio rispetto alle loro reali relazioni con molti imputati nei processi di Mosca, oltre ai casi sopra esaminati di Pjatakov e Radek.

Partiamo dalla clamorosa menzogna espressa da Lev Sedov, con l’autorizzazione e l’impulso diretto da parte del padre, rispetto alla reale posizione politica di I.N. Smirnov.

 

Lo storico trotzkista P. Brouè ci ha infatti informati che dopo il primo processo di Mosca dell’agosto del 1936 “Sedov, spinto dal padre che gli chiede di fare quel che ormai non può più fare di persona, comincia la preparazione di un opuscolo, che lo porta a definire meglio la linea di difesa e a condurre un esame critico molto accurato del verbale del processo. Per evidenti ragioni di sicurezza e per timore di nuocere alla difesa degli uomini nelle mani della GPU” (ossia della polizia stalinista) “che non hanno ancora negato, Sedov decide di negare tutto ciò che ha a che fare con il blocco delle opposizioni del 1932. Per le esigenze della difesa Smirnov, che Sedov ammette di aver incontrato, banalizzando però la conversazione, è trattato come un qualsiasi capitolazionista” (della corrente trotzkista) “del 1929, distinto da Zinoviev solo per sfumature; allo stesso modo, tutti gli imputati di Mosca vengono presentati come avversari politici di Trotskij quali effettivamente sono stati in una certa epoca, ma non erano più veramente nel 1932”.[7]

Focalizziamo innanzitutto l’attenzione sulla figura di I.N. Smirnov: lo stesso storico trotzkista Brouè ammise apertamente che, per le “esigenze della difesa” e “spinto dal padre”, Lev Sedov mentì rispetto alla reale posizione e ruolo politico di I.N. Smirnov, e che cercò invece di farlo passare per un qualsiasi “capitolazionista” rispetto a Stalin, mentre sempre Brouè nel 1991 aveva invece stabilito che I.N. Smirnov fosse, senza dubbio e a tutti gli effetti, già nel corso del 1931 un dirigente politico antistalinista assai vicino alla Quarta Internazionale, come si è già citato in precedenza.

Siamo quindi in presenza di una plateale menzogna elaborata di comune accordo dal duo Sedov/Trotskij, certo sostenuta per le legittime “esigenze della difesa” della costituenda Quarta Internazionale (Brouè); ma se Sedov e Trotskij mentirono rispetto al reale ruolo politico svolto da Smirnov per le “esigenze della loro difesa”, per quale motivo non avrebbero potuto (e dovuto) pronunciare menzogne anche rispetto alla reale posizione politica di Pjatakov e Radek nel 1931-36, sempre “per le esigenze della difesa”? Si tratta in tutti i casi dell’esistenza (o non esistenza) di rapporti politici di matrice antistalinista, in entrambi negati con forza da Sedov/Trotskij.

La sequenza di bugie continuò con la clamorosa menzogna espressa da Lev Sedov, sempre con l’autorizzazione da parte del padre, rispetto alla concreta e indiscutibile esistenza del “blocco delle opposizioni” nel 1932.

Nel passo sopracitato lo storico trotzkista Brouè ammise apertamente che, sempre per le “esigenze della difesa” di Trotskij, suo figlio (e in seguito lo stesso Trotskij, davanti alla commissione Dewey e in altre occasioni) mentirono negando la realtà sicura e indubbia del “blocco delle opposizioni nel 1932”, alleanza politica invece realmente formatasi nel corso di quell’anno.

Di nuovo: se Sedov/Trotskij dissero bugie e raccontarono storie anche negando la concreta esistenza di un fronte unito delle opposizioni antistaliniste nel 1932, sempre per le (legittime) “esigenze della difesa”, perché non dedurne che essi raccontarono frottole anche sulla reale posizione politica di Pjatakov/Radek nel 1931-36 e sul volo di Pjatakov, sempre per le legittime “esigenze della difesa” di Trotskij e della costituenda Quarta Internazionale?

Un discorso identico va effettuato anche per la clamorosa menzogna pronunciata da Lev Sedov, sempre con l’autorizzazione da parte del padre, (“spinto dal padre”) in relazione ai reali rapporti politici creatisi nel 1932 tra Trotskij e Zinoviev/Kamenev, principali imputati al processo di Mosca dell’agosto del 1936.

Nel passo sopracitato lo storico trotzkista P. Brouè ci informa che, sempre per le “esigenze della difesa”, Sedov presentò “tutti gli imputati di Mosca” (al processo di Mosca dell’agosto 1936) “come avversari politici di Trotskij, quali effettivamente sono stati in una certa epoca ma non erano più veramente nel 1932”: tutti gli imputati quindi, ivi compresi Zinoviev e Kamenev, come del resto fece suo padre qualche mese dopo davanti alla commissione Dewey.[8]

Di nuovo: se Sedov/Trotskij mentivano sulla reale posizione politica di Zinoviev/Kamenev nel 1932, che allora operavano in qualità di astuti oppositori clandestini di Stalin, oltre che rispetto alla loro reale relazione (di alleanza politica) con Trotskij sempre nel 1932, per quale motivo non dedurre che essi produssero menzogne anche sulla reale posizione politica di Pjatakov e Radek nel 1931-36, oltre che sul volo di Pjatakov?”.

Sempre per le “esigenze della difesa”, certo.

Ultimi due flash rilevanti, rispettivamente su Robert McGregor e sulla gita di Trotskij a Pompei nel novembre del 1932, con un regime fascista allora dominante in Italia.

A giudizio di Trotskij si poteva infatti “diventare un informatore temporaneo dell’apparato statale degli USA, se le circostanze concrete l’avessero richiesto.

Trotskij giunse infatti fino al punto di incontrarsi due volte in Messico nel 1940 con un rappresentante del consolato statunitense nel paese latino-americano, un certo Robert G. McGregor, per un flusso di informazioni a senso unico sulle attività degli stalinisti in Messico, teso e finalizzato ad aprire uno spiraglio alla richiesta di visto per gli USA, espressa da tempo da parte del leader dell’ormai costituita Quarta Internazionale. Nel rapporto dell’FBI del 1940 risulta che “nel giugno, Robert Mc Gregor del consolato si è incontrato con Trotskij nella sua casa… Egli” (McGregor) “si incontrò di nuovo con Trotskij il 13 luglio… Egli diede a Mc Gregor i nomi di pubblicazioni messicane, di leader politici e sindacali e di funzionari governativi che, secondo quanto si asseriva, erano legati con il CPM” (Partito Comunista Messicano). “Egli” (Trotskij) “affermò che uno degli agenti principali del Komintern, Carlos Contreras” (l’italiano Vittorio Vidali) “era al servizio del Comitato Direttivo del CPM. Egli discusse anche i presunti sforzi di Narciso Bassols, ex ambasciatore messicano in Francia, che Trotskij sosteneva fosse un agente sovietico, per ottenere che egli” (Trotskij) “fosse espulso dal Messico”.

Il professor William Chase dell’università di Pittsburgh, che ha trovato il rapporto arrivato all’FBI nel 1940 proprio negli Us States archives-RG 84, notò giustamente che “col procurare al consolato USA informazioni sui loro comuni nemici, fossero essi messicani o comunisti americani o agenti sovietici, Trotskij sperava di provare il suo valore a un governo” (quello statunitense) “che non aveva desiderio di garantirgli un visto d’ingresso”: diventare momentaneamente un informatore e un confidente dell’FBI non costituiva pertanto un grosso ostacolo per lo spregiudicato e disinvolto Trotskij, sempre che tale azione fosse finalizzata a raggiungere un obiettivo politico da lui ritenuto importante.[9]

A giudizio di Trotskij, dunque, entrare in rapporti di collaborazione momentanea e tattica con nazioni e apparati statali capitalistici non costituiva certo un tabù e un grave problema politico, in certi casi: provi dunque Ferrando, se ci riesce, a dimostrare che i colloqui confidenziali del 1940 di Trotskij con un funzionario statale americano siano una “falsificazione stalinista”.

Si è inoltre già ricordato in precedenza come il leader in esilio della Quarta Internazionale fosse entrato in diretto e indiscutibile contatto “con le autorità fasciste italiane alla fine del 1932, nel suo viaggio di ritorno in Turchia dalla conferenza da lui tenuta a Copenaghen, e a questo punto si può aggiungere che Trotskij si fermò tranquillamente nell’Italia di Mussolini anche durante la tappa di andata del suo viaggio in Europa, visitando Pompei in compagnia della moglie e attorniato in tale escursione anche da quasi una decina di altre persone.

Avvocato del diavolo: “Servono prove indiscutibili, per questa vostra affermazione”.

Ce le fornisce lo stesso Trotskij che, in un’intervista del 23 novembre 1932 rilasciata al giornale danese Politiken, citò esplicitamente Pompei notando che proprio in quel luogo “noi” – ossia lui stesso e sua moglie – “abbiamo avuto una grande esperienza”.

Si tratta di un’altra falsificazione stalinista, Ferrando?

In ogni caso stiamo analizzando una “grande esperienza” di Trotskij che ovviamente si basava sul preventivo e indiscutibile assenso del governo fascista rispetto al suo passaggio sul suolo italiano, con i relativi contatti preliminari tra le due parti in causa necessari a tal fine.

Per ammissione dello stesso leader della Quarta Internazionale in via di costruzione, dunque, nel novembre del 1932 e durante il viaggio di andata verso Copenaghen Trotskij si fece una bella gitarella a Pompei con la moglie, mentre durante il ritorno in Turchia egli si fermò una seconda volta e di nuovo nell’Italia fascista di quel tempo, sempre volontariamente e sempre con l’accordo indispensabile delle autorità anticomuniste di Roma.

Spesso un’immagine vale più di mille parole, e su questa materia si può facilmente trovare un breve ma interessante filmato sulla gita di Trotskij a Pompei cliccando su internet “Leon Trotsky: Trotsky visits the ruins of Pompeii with his wife, Natalia Sedova” (online footage.tv, 18 giugno 2015); oppure si può osservare la foto con Trotskij e sua moglie a Pompei ricercando “Leon Trotsky Russian statesman, visiting Pompeii with his wife”.

Si tratta forse di un’altra falsificazione stalinista, Ferrando?

Ma forse in questa materia particolare, come per gli altri indizi da noi presentati poco sopra, per Ferrando vale il detto paolino secondo il quale “tutto è puro per i puri” (ossia Trotskij e i suoi seguaci), “ma per i contaminati e gli infedeli” (ovviamente gli infedeli stalinisti e i contaminati stalinisti) “nulla è puro, sono contaminate la loro mente e la loro coscienza”.

Tiriamo le conclusioni, a questo punto.

Con rarissime eccezioni, e tra l’altro ottenendo pessimi risultati in tali “deviazioni” dal suo percorso, Ferrando non è quasi mai entrato nel merito riguardo ai capitoli più importanti del nostro libro, almeno sul fronte delle prove concrete aventi per oggetto la collaborazione tattica tra Trotskij e i nazisti.

Egli ha evitato inoltre di affrontare le “quattro sfide” sul caso Olberg, sottoposte a lui e al suo micropartito alcuni giorni prima della pubblicazione del suo articolo.

Ferrando ha inoltre usato nei nostri confronti tutta una serie di insulti che dimostrano a sufficienza il suo reale “valore”, come “pensatore” e “storico”.

Viste tali tristi ma innegabili premesse, a questo punto si può utilizzare nei confronti di Ferrando e dei dirigenti del PCL in via di disfacimento una celebre frase di uno dei più grandi poeti, quando affermò: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

 

 

11 dicembre 2018

 

 

Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli.

[1] I. Deutscher, “Stalin”, pp. 790-791, ed. Longanesi

[2] I. Deutscher, op. cit., pp. 793-794

[3] L. Trotsky, “Diario d’esilio. 1935”, p. 21, ed. Il Saggiatore

[4] L. Trotsky, op. cit., p. 81

[5] L. Trotsky, op. cit., p. 174 e 15

 

[6] P. Broué, “La rivoluzione perduta”, p. 663, ed. Bollati Boringhieri

 

[7] P. Broué, “La rivoluzione perduta”, p. 808

[8] P. Broué, op. cit., p. 808

[9] Red Youth, “Trotskism revisited”, in Marxism.halkephesi.it;  “Healy’s big lie”,  p. 14, in http://www.marxists.org

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